Prolusione inizio A.A. 2022-2023 Facoltà Teologica Emilia-Romagna

 

Ristabilire la giustizia: una domanda per la teologia

 

Prolusione per l’inizio dell’Anno Accademico 2022-2023 della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna

«Ristabilire la giustizia. Domande per lo spazio pubblico e per la teologia»

 

Nel tema «Ristabilire la giustizia», assegnato a questa prolusione per il nuovo anno accademico della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, ci sono due domande: una «per lo spazio pubblico» e l’altra «per la teologia», cui sono chiamato a dare io una risposta. Prima, però, permettete che vi confidi ciò che mi è tornato alla memoria mentre insieme con voi ascoltavo la Prof. Marta Cartabia. Ho ricordato una storia chassidica riportata da Martin Buber nei suoi racconti dei Chassidim, editi pure in lingua italiana nel 1979 dalle edizioni Garzanti di Milano. Lì si racconta di un rabbino di nome Sussja che aveva il dono di vedere negli altri i loro peccati. Al tempo stesso, però (ed è questa la sua principale caratteristica), ne sentiva in se stesso il dolore. Un giorno entrato in una locanda vide sulla fronte dell’oste i suoi peccati di molti anni e mentre pregava cominciò a dolersene piangendo. Quando l’oste, che lo osservava di nascosto, si rese conto di questo, prima ne rimase fortemente scosso, poi cominciò a sentire nell’animo il pentimento e quindi, illuminato dalla grazia, convertito ritornò a Dio. L’insegnamento chassidico è questo: se noi, prima di giudicare le colpe degli altri, cominciassimo col sentircene partecipi, il mondo diverrebbe certamente migliore!

Ecco. Allora, la domanda da cui potremmo partire nella nostra riflessione: qual è la funzione della pena nella nostra società? In proposito mi vien da ricordare ciò che un teologo tedesco, Eugin Wiesnet S. J. (1941-1983), scrisse in apertura di un suo noto saggio su Pena e restribuzione: «Da millenni gli uomini si puniscono e da millenni si domandano perché lo facciano».[1]

Qual è, allora, il significato della pena? Ricordo che una volta si parlava di funzione anche medicinale della pena, inflitta sia per far capire al reo la gravità del suo peccato, sia per aiutarlo a guarirne. Mi pare, tuttavia, che nella lingua greca il termine pharmakos abbia il significato sia di medicina, sia di veleno! Guardo, allora la lingua latina e ricorro al classico Lexicon totius latinitatis del Forcellini per trovare il significato della parla poena. Con una certa sorpresa qui scopro che il termine è collegato al greco poiné ed è descritto come multa (ossia prezzo da pagare in natura, o in denaro) propter homicidium irrogata, id quod quis alteri, quem laeserat, reconciliatur! La sorpresa di cui dicevo è perché lo scopo assegnato alla pena da questa etimologia è la riconciliazione tra il reo e la vittima!

Ci domandiamo, allora: è ancora questo, per noi, la pena? È un po’ la domanda che aleggia sulla nostra assemblea, specialmente dopo avere ascoltato l’esposizione della prof. Cartabia. Sono già diversi gli anni da quando sull’argomento è aperto un dibattito fra gli studiosi e gli esperti del settore, tutti impegnati nel cercare nuove forme di giustizia alternative al paradigma retributivo. A un certo modo d’intendere la pena fece riferimento anche papa Francesco, nell’omelia tenuta durante la Messa celebrata nello stadio di Zimpeto (Maputo) il 6 settembre 2019. Disse: «Gesù, lungi dall’essere un ostinato masochista, vuole chiudere per sempre la pratica tanto comune – ieri come oggi – di essere cristiani e vivere secondo la legge del taglione. Non si può pensare il futuro, costruire una nazione, una società basata sull’ “equità” della violenza. Non posso seguire Gesù se l’ordine che promuovo e vivo è questo: “occhio per occhio, dente per dente”. Nessuna famiglia, nessun gruppo di vicini, nessuna etnia e tanto meno un Paese ha futuro, se il motore che li unisce, li raduna e copre le differenze è la vendetta e l’odio». Sono parole forti, certamente non accettate da chi, al contrario, dice: «Saprei io come fare per vivere più tranquilli. Basterebbe arrestare tutti i delinquenti, metterli in galera e buttare via le chiavi».

Sto citando dall’introduzione di un libro di Roberto Sbrana, uno psicologo che opera nel settore carcerario. Il lavoro, pubblicato col titolo Mettere in galera e buttare via le chiavi. Considerazioni sul tema della Sicurezza dei cittadini onesti[2] è dedicato «a chi lavora in carcere e a volte si sente solo». Mettere in galera e buttare le chiavi, purtroppo, è anche uno slogan ripetuto oggi. A sentirlo, mi vien da parafrasare, capovolgendola, una denuncia di Ch. Peguy: «Poiché non amano nessuno credono di amare Dio».[3] Direi, allora, che costoro, non credendo più all’eternità dell’inferno, ne sentono tuttavia il bisogno sicché pensano di trasferirlo nella temporalità dei drammi umani.

Ci sono, però, delle domande che un cristiano non può eludere, perché a farle è Dio stesso. Una di queste la troviamo nelle prime pagine della Bibbia: «Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”» (Gen 4,9). E. Wiesnet, che ho citato, commenta: «Dio non è di fronte a Caino il Dio che tace, abbandonando l’omicida a se stesso: Caino non è ripudiato ed escluso dalla premura di Dio. Il giudizio di Dio non è di tipo retributivo, ma si manifesta attraverso il duplice momento della tsedaqa: giustizia e insieme salvezza. Dio nel suo giudizio non annienta il colpevole, ma lo risolleva, assumendo per primo, gratuitamente l’iniziativa. La tsedaqa di Dio, la sua giustizia che libera e risana, è apertura alla riconciliazione dell’uomo in colpa, con un Padre che sempre porge ascolto e salvezza».

La storia di Caino l’ha rievocata di recente papa Francesco. Lo scorso 8 aprile, parlando, alla presenza del Presidente della Repubblica Italiana S. Mattarella, ai membri del Consiglio Superiore della Magistratura. Disse: «l’atto violento e ingiusto di Caino […] non colpisce il nemico o lo straniero: è compiuto contro chi ha lo stesso sangue… Come non pensare alla nostra epoca storica di globalizzazione diffusa, in cui l’umanità si trova a essere sempre più interconnessa eppure sempre più frammentata in una miriade di solitudini esistenziali? Questo rapporto che sembra contraddittorio tra la interconnessione e la frammentazione: ambedue insieme. Come mai? È la nostra realtà: interconnessi e frammentati. La proposta della visione biblica è, al cuore del suo messaggio, l’immagine di un’identità fraterna dell’intera umanità, intesa come “famiglia umana”: una famiglia in cui riconoscersi fratelli è un’opera a cui lavorare insieme e incessantemente, sapendo che è sulla giustizia che si fonda la pace».

In tale contesto Francesco disse pure: «La domanda sul per chi amministrare la giustizia illumina sempre una relazione con quel “tu”, quel “volto”, a cui si deve una risposta: la persona del reo da riabilitare, la vittima con il suo dolore da accompagnare, chi contende su diritti e obblighi, l’operatore della giustizia da responsabilizzare e, in genere, ogni cittadino da educare e sensibilizzare. Per questo, la cultura della giustizia riparativa è l’unico e vero antidoto alla vendetta e all’oblio, perché guarda alla ricomposizione dei legami spezzati e permette la bonifica della terra sporcata dal sangue del fratello (cfr n. 252). Questa è la strada che, sulla scia della dottrina sociale della Chiesa, ho voluto indicare nell’Enciclica Fratelli tutti, come condizione per la fraternità e l’amicizia sociale».

Ora è proprio sul tema della giustizia riparativa Che vorrei qui, insieme con voi, richiamare alcuni principi classici della dottrina della Chiesa cattolica. Andrò all’inizio un po’ indietro nel tempo, per riprendere alcune parole del papa Pio XII in un suo discorso del 5 febbraio 1955. Egli parlava ai partecipanti al VI Convegno nazionale di studi dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani e, trattando della liberazione giuridica dalla colpa, diceva: «l’odierno diritto degli Stati non dà molta importanza alla libera riparazione. Esso si contenta di piegare mediante la sofferenza della pena la volontà del colpevole sotto il forte volere della potestà pubblica e di rieducarlo in tal guisa al lavoro, alle relazioni sociali, all'agire rettamente. Che questo modo di procedere possa condurre, in virtù delle immanenti leggi psicologiche, ad un interiore raddrizzamento, e con ciò ad una intima liberazione dalla colpa, non è il caso di contestarlo. Che però ciò debba avvenire o regolarmente avvenga, avrebbe ancora bisogno di essere dimostrato. Ad ogni modo, il non prendere, per principio, in considerazione la volontà del reo di dare soddisfazione in ciò. che il sano senso giuridico e la violata giustizia richiedono, è una mancanza e una lacuna, a colmare la quale vivamente esorta l'interesse della dottrina e della fedeltà ai principi fondamentali del diritto penale». Si tratta, come si vede, di uno sguardo davvero lungimirante sul nostro tema e papa Francesco è sulla linea di quel magistero.

Di lui ricordo, ad esempio, i due principi che Francesco, parlando il 23 ottobre 2014 alla Delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, mise in buona evidenza due principi-cardine della riflessione sulla giustizia della pena: il principio della cautela ad penam, secondo cui la pena deve essere considerata come l’ultima ratio[4] e, insieme con esso, il primato del principio pro homine, vale a dire della dignità della persona umana sopra ogni cosa.

Un altro intervento di Francesco che mi preme ricordare è la lettera del 30 maggio 2014 inviata ai partecipanti al XIX Congresso internazionale dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale e del III Congresso della Associazione Latinoamericana di Diritto penale e criminologia. Già qui il Papa aveva parlato esplicitamente di giustizia riparativa. Dopo avere ricordato che fin dai primi tempi e quindi pur nelle varianti storiche gli atti coi quali, dopo avere ceduto al peccato, un cristiano si appella alla misericordia del Signore sono la soddisfazione o riparazione del danno causato, la confessione e la contrizione, il Papa scriveva: «Nelle nostre società tendiamo a pensare che i delitti si risolvano quando si cattura e condanna il delinquente, tirando dritto dinanzi ai danni provocati o senza prestare sufficiente attenzione alla situazione in cui restano le vittime. Ma sarebbe un errore identificare la riparazione solo con il castigo, confondere la giustizia con la vendetta, il che contribuirebbe solo ad accrescere la violenza, pur se istituzionalizzata. L’esperienza ci dice che l’aumento e l’inasprimento delle pene spesso non risolvono i problemi sociali, e non riescono neppure a far diminuire i tassi di criminalità. E inoltre si possono generare gravi problemi per la società, come sono le carceri sovrappopolate e le persone detenute senza condanna... In quante occasioni si è visto il reo espiare la sua pena oggettivamente, scontando la condanna senza però cambiare interiormente né ristabilirsi dalle ferite del cuore».

So bene che in questa linea si esprime anche il card. M. Zuppi, il quale conversando con Paola Ziccone per il volume Verso Ninive[5] ha detto: «Se la giustizia si limita a essere solo retributiva, rimanendo legata Alla logica cieca e senza prospettiva della rabbia e della violenza, non credo riesca a porre termine alla spirale del male, sia dal punto di vista di chi commina la pena sia di chi la subisce. Solo l’uscita dalla restituzione del male ricevuto fa sì che la giustizia si apra alla speranza e diventi capace di aprire prospettive di futuro e di rinnovamento».

Uno dei fini della giustizia riparativa è proprio spezzare lo schema triadico crimine-reo-pena per aprirlo alla considerazione anche della vittima, la quale spesso nei processi occupa un ruolo marginale. Lo ha ricordato già la prof. Cartabia. Secondo la teoria della giustizia riparativa l’incontro col dolore delle vittime è, giustamente,fondamentale. Cito, in proposito, da un articolo sul tema: le vittime dei reati e il loro dolore, pubblicato su La Civiltà Cattolica da F. Occhetta S. J.[6] Qui si racconta di gesti che aprono la strada alla giustizia riparativa, ricordando che l’intento della giustizia riparativa è allargare l’attenzione e la cura a tutte le persone per le quali il reato ha provocato ragioni di sofferenza. Essa, insomma, vuole entrare in tutte le relazioni ferite o coinvolte da un delitto nella prospettiva di una cura a tutto campo; una cura, cioè, che non si limita al fatto e ai suoi effetti, ma guarda pure alla prevenzione ante delictum; una cura che ha perfino la giusta ambizione di un allargamento sociale a cominciare dal complesso mondo carcerario, inclusi gli amministratori, il personale di polizia, gli operatori, i volontari…

Si tratta, in definitiva, di un «doloro cammino della verità», come lo chiama sempre il p. Occhetta; un cammino che, però, prima che di leggi e di norme, ha bisogno prima d’ogni cosa di cultura e di conversione; ha bisogno di uno sguardo a tutto campo di compassione e di amore sulla sofferenza scatenata da un reato.

Ha bisogno di uno sguardo simile a quello di cui Francesco parlò nel discorso al personale della Casa circondariale Regina coeli di Roma il 7 febbraio 2019 e ripeté nell’udienza del successivo 8 novembre a quanti partecipavano all’Incontro internazionale per i responsabili regionali e nazionali della pastorale carceraria. È un discorso ricordato già dalla prof. Cartabia. Da esso riprendo in particolare due immagini. La prima è quella di una finestra. «Non si può parlare di un regolamento del debito con la società in un carcere senza finestre – disse il Papa. Non c’è una pena umana senza orizzonte. Nessuno può cambiare vita se non vede un orizzonte. E tante volte siamo abituati ad accecare gli sguardi dei nostri reclusi. Portate con voi questa immagine delle finestre e dell’orizzonte, e fate sì che nei vostri paesi le prigioni, le carceri, abbiano sempre finestra e orizzonte, persino un ergastolo, che per me è discutibile, persino un ergastolo dovrebbe avere un orizzonte».[7]

Quanto alla seconda immagine, il Papa la descrisse così: «è un’immagine che ho visto diverse volte quando a Buenos Aires andavo in autobus a qualche parrocchia della zona di Villa Devoto e passavo davanti al Carcere. La fila della gente che andava a visitare i detenuti. Soprattutto l’immagine delle madri, le madri dei detenuti, le vedevano tutti, perché stavano in fila un’ora prima di entrare e poi erano sottoposte ai controlli di sicurezza, molto spesso umilianti. Quelle donne non avevano vergogna che tutti le vedessero. Mio figlio è lì, e per il figlio non nascondevano il loro volto. Che la Chiesa impari maternità da quelle donne e impari i gesti di maternità che dobbiamo avere verso questi fratelli e sorelle che sono detenuti».

Per quello che mi compete e per la mia responsabilità ecclesiale, è proprio l’appello finale del Papa, che intendo fare mio e desidererei che lo facessimo nostro e cioè che la Chiesa – ossia tutti noi – « impari maternità da quelle donne e impari i gesti di maternità che dobbiamo avere verso questi fratelli e sorelle che sono detenuti».

 

Bologna, Aula Magna del Seminario – 30 novembre 2022

 

Marcello Card. Semeraro

 

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[1] In tr. it. Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto fra cristianesimo e pena, Giuffré, Milano 1987, p. 13.

[2] GD Edizioni, Sarzana 2014.

[3] Nota congiunta su Cartesio e sulla filosofia cartesiana, Milella, Lecce, p. 156.

[4] Ricordava il Papa: «Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative». In tale contesto il Papa ricordava che «la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni».

[5] Verso Ninive. Conversazioni su pena, speranza, giustizia riparativa con il Cardinale Matteo Maria Zuppi, Rubbettino, Soveria Manelli 2021.

[6] Cf. F. Occhetta S.I., «Le vittime dei reati e il loro dolore», ne La Civiltà Cattolica, 2016/II, pp. 237-248 (quad. 3981 del 14 maggio 2016); in part. le pp. 264-274.

[7] La medesima immagine il Papa l’ha riproposta il 15 novembre 2019 parlando a quanti in Roma partecipavano al XX Congresso Mondiale dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale. Ancora una volta Francesco ha ricordato che «la legge da sola non può mai realizzare gli scopi della funzione penale; occorre anche che la sua applicazione avvenga in vista del bene effettivo delle persone interessate». Il cammino non è facile, ma è necessario.