Incontro col Presbiterio diocesano della Chiesa di Macerata, Tolentino, Recanati, Congoli, Treia

 

«Santità sacerdotale è vivere ciò che siamo»

 

    L’espressione indicata nel titolo appartiene a san Giovanni d’Avila (1499-1569), patrono del clero secolare spagnolo: Santitad sacerdotal, vivir lo que somos.[1] È qui, in fin dei conti, l’assunto fondamentale della mia riflessione.

    Il titolo lo si potrebbe esplicitare dicendo che esercizio dei tria munera, ossia del ministero della Parola (praedicare e docere), della santificazione (sanctificare) e della guida della comunità (regere), prima di essere un «ufficio» e una potestas deve essere considerato un dono che esige la presenza in ogni sacerdote di una tensione verso la perfezione morale, ossia verso la santità.

    Non si tratta, allora, d’incoraggiare una generica santificazione del sacerdote quanto, piuttosto, d’inculcare il fondamentale principio che la santificazione di un sacerdote non si attua ai margini, o a lato del suo ministero; ancor meno un sacerdote si santifica «nonostante» i propri impegni ministeriali o, peggio ancora, a loro discapito e detrimento. Un sacerdote, al contrario, si santifica nel ministero e mediante il suo ministero.

    Il Concilio lo ha detto così: «I presbiteri raggiungeranno la santità nel loro modo proprio se nello Spirito di Cristo eserciteranno le proprie funzioni con impegno sincero e instancabile (munera sua sincere et indefesse exercentes)» (Presbyterorum Ordinis, n. 13). Pastores dabo vobis espliciterà ulteriormente questo magistero, sottolineando, anche nel dettaglio, «l’intimo rapporto che esiste tra la vita spirituale del sacerdote e l’esercizio del suo triplice ministero» (n. 26).[2]

 

La dedizione al ministero, via di santificazione

    Diremo che con la sua affermazione il Vaticano II riconosce ai sacerdoti una sorta di via propria verso la santità. Un’idea abbastanza corrente fino ad allora, infatti, era che le occupazioni ministeriali fossero come un ostacolo alla perfezione, da cercarsi invece in un rapporto più intimo e familiare con Dio.[3] Si trattata, però, di un modo d’intendere che era era molto difforme da quanto intendevano gli antichi autori spirituali, per i quali l’azione non è affatto un’antagonista della «contemplazione» e, perciò, del cammino verso la santità. Essa, piuttosto, è la fase preliminare e indispensabile per giungere alla contemplazione. Una formula sintetica sarà quella proposta da Cassiano, che individua una doppia conoscenza: quella «pratica», che consiste nella correzione dei comportamenti e la purificazione dai vizi; quella «teorica» che consiste nella contemplazione delle cose divine e nella comprensione dei significati più sacri. Alla seconda si giunge solo attraverso la prima.[4] Rifacendosi proprio a questa tradizione Ugo di San Vittore non mancherà d’inserire l’azione nello stesso processo della lectio divina, scrivendo che la lettura offre il materiale per conoscere la verità, la meditazione l’adatta, l’orazione l’eleva e l’azione l’applica nella vita, mentre la contemplazione esulta in essa[5].

    Col passare del tempo, tuttavia, una concezione prevalentemente pietistica d’impianto monastico della vita spirituale del presbitero aveva pian piano indotto a sottolineare i pericoli di dispersione e di svuotamento, sottesi ad un’attività pastorale non ben regolata. Si giunse pure a considerare l’apostolato presbiterale e la vita interiore come due valori distinti, che bisognava sì coltivare, ma facendo attenzione perché l’esercizio del ministero non rappresentasse una pietra d’inciampo nella ricerca della perfezione della carità. Si pensava che la santità, richiesta al prete come esigenza della sua consacrazione sacramentale, come garanzia di fecondità pastorale e come difesa dalle «insidie» del ministero egli dovesse conquistarla malgrado e nonostante le sue attività apostoliche, ritenute possibili occasioni di dissipazione e di contaminazione mondana.[6]

    Nei primi decenni del novecento, però, cominciarono a sorgere domande sulla spiritualità sacerdotale e del clero diocesano, in particolare. Si tratta di istanze giunsero in Concilio convergendo nel capitolo terzo di Presbyterorum Ordinis, che esordisce appunto con l’affermazione che la vocazione sacerdotale, già per se stessa, è via propria e necessaria alla santità sacerdotale: per diventare santo il sacerdote deve impegnarsi – come già aveva affermato Lumen Gentium 41- nel quotidiano esercizio del suo ministero.

    Si potrebbe, al riguardo, stabilire una sorta di parallelismo con quanto il Concilio Vaticano II prima, e l’esortazione apostolica Christifideles Laici poi, affermano riguardo alla santificazione dei fedeli laici. Poiché il «mondo» è l’ambito della loro vocazione cristiana, l’unità della vita dei fedeli laici richiede che essi perseguano la loro santificazione mediante l’esercizio della loro ordinaria vita professionale e sociale. Riprendendo una proposizione dei padri sinodali, Giovanni Paolo II scriveva: «Perché possano rispondere alla loro vocazione, dunque, i fedeli laici debbono guardare alle attività della vita quotidiana come occasione di unione con Dio e di compimento della sua volontà, e anche di servizio agli altri uomini, portandoli alla comunione con Dio in Cristo». Il fedele laico è chiamato a santificarsi nel mondo e con le cose del mondo (Christifideles Laici n. 17).

    Analogamente deve potersi dire per i sacri ministri, e specialmente per i sacerdoti (ossia tanto per il vescovo, quanto per i presbiteri). Come i fedeli laici si santificano nell’ordinaria loro vita professionale e sociale, considerando le rispettive attività della vita quotidiana come un’occasione di unione con Dio e di compimento della sua volontà, anche i sacerdoti «esercitando il ministero dello Spirito e della giustizia… vengono consolidati nella vita dello Spirito, a condizione però che siano docili agli insegnamenti dello Spirito di Cristo che li vivifica e li conduce. I presbiteri, infatti, sono ordinati alla perfezione della vita in forza delle stesse sacre azioni che svolgono quotidianamente, come anche di tutto il loro ministero, che esercitano in stretta unione con il vescovo e tra di loro» (Presbyterorum Ordinis, n. 12).

    Ciò premesso, sarebbe ingenuo pensare che nel servizio pastorale non si possano produrre tensioni e anche, per quanto periodici, sbandamenti. Essi, però, sono superabili se si conserva la comunione col vescovo nella fraternità del presbiterio sì da alimentare la vita spirituale. Il messaggio al popolo di Dio del Sinodo dei Vescovi del 1971 su Il sacerdozio ministeriale ricorda che «ogni sacerdote troverà nella sua stessa vocazione e nel suo ministero la ragione profonda per poter condurre la sua vita nell'unità e nel vigore dello spirito. Essendo, infatti, chiamato, come anche gli altri battezzati, ad essere conforme a Cristo (cf Rm 8,29), il presbitero partecipa inoltre, in modo speciale, come i Dodici, all'intimità con Cristo e alla sua missione di supremo Pastore: “Egli costituì i Dodici, perché stessero con lui, e per mandarli a predicare” (Mc 3,14). Nella vita sacerdotale non può esistere, pertanto, frattura tra l’amore di Cristo e lo zelo per le anime. Come Cristo, unto dallo Spirito Santo, fu spinto dal suo profondo amore per il Padre a dare la propria vita per gli uomini, così il presbitero, consacrato dallo Spirito Santo e convenientemente configurato a Cristo sacerdote, si dedica all’opera del Padre, compiuta per mezzo del Figlio…» (II/I, 3). In breve: la migliore ascetica per un sacerdote è la generosa, fedele e gioiosa dedizione al proprio ministero.

 

Santificarsi nell’esercizio del triplex munus

    Ciò si esplicita in modo particolare in rapporto all’esercizio dei tria munera o, come, per sottolinearne l’intima unità e connessione, sarebbe preferibile dire, triplex munus

Per il ministerium Verbi, ad esempio, non si tratta di un mero esercizio di predicazione, bensì davvero di un mettere se stessi al servizio di Cristo – Parola, Verbo eterno di Dio che, nel mistero dell’Incarnazione si è fatto, direbbero alcuni autori medievali, verbum abbreviatum. Gesù è tale non soltanto perché è Colui che, infinito nel seno del Padre, si è racchiuso nel grembo della Vergine e nella stalla di Betlemme ha assunto le proporzioni di un bambino. Egli lo anche perché in Lui, i verba multa (le molte parole) degli scrittori biblici diventano per sempre Verbum unum (l’unica Parola) e senza di Lui non esiste alcuna «parola di Dio». Egli dà il senso a tutte le parole che lo annunziavano e tutto si spiega in Lui e solamente in Lui.[7]

    Esercitare il ministero della Parola, dunque, comporta assumere questo senso di ogni cosa, che è Cristo ed essere stabilmente ascoltatore di Chi si annuncia. In un discorso rivolto in Duomo al clero milanese il 24 ottobre 1957, l’arcivescovo G. B. Montini invitava i suoi sacerdoti quasi a «stilizzare» la propria vita sacerdotale secondo il ministero, nella linea dell’agnoscite quod agitis, imitamini quod tractatis e aggiungeva. Disse: «per predicare bene bisogna amare moltissimo la Parola del Signore: occorre un entusiasmo, un rapimento, un assorbimento nella Verità divina, che il Signore comunica specialmente nella meditazione del Vangelo, della Sacra Scrittura e della Dottrina della Chiesa. Un grande amore ci fa capaci di parlare anche se balbettiamo, anche se non abbiamo a nostra disposizione le risorse dell’arte poetica o dell’eloquenza sublime: perché possediamo la Verità».[8]

    Si tratta, in definitiva, di essere consapevoli che l’annunciatore è anzitutto «affidato» alla Parola che dovrà proclamare (cf. At 20,32)[9].

    Quello, poi, che è stato accennato per il ministero della Parola, vale analogicamente anche per la presidenza del culto e della liturgia e per la guida del popolo di Dio. Quando, poi, l’esercizio del triplex munus diventa per un sacerdote luogo e mezzo di santificazione, allora non c’è più bisogno che egli si senta obbligato ad attingere altrove, come ad un serbatoio, le sue buone dosi di preghiera, di pratiche ascetiche, di meditazione…

    L’esercizio del ministero è già «vita secondo lo Spirito». Lo possiamo apprendere dalla vita del Santo Curato d’Ars. Anch’egli, difatti, ha avvertito la tentazione di concepire il suo ministero di parroco come un ostacolo verso la perfezione cristiana. Si dirà, perlomeno, che un’interiore avvertenza della propria inidoneità per i compiti e le responsabilità della cura animarum lo spinse più volte a tentare di fuggire dalla parrocchia. I suoi biografi registrano puntualmente quanto egli sia stato tormentato dal pensiero della gravità del suo ministero. Mons. Fourrey, che fu vescovo nella diocesi di Belley, cui era appartenuto il Santo Curato d’Ars, e che ebbe anche per questo la possibilità di accedere a documenti importanti, ne parla come di una ossessione. «Spesso il santo pastore esprimeva il suo desiderio: lasciare Ars, rinunciare a funzioni delle quali egli si dichiarava indegno, partire a piangere nella solitudine la propria vita».[10] Ogni suo tentativo, però, puntualmente falliva. Il Curato d’Ars confidò una volta a una delle prime due donne cui aveva affidato la guida della sua scuola: «Il buon Dio mi concede quasi tutto ciò che gli domando; è soltanto quando gli chiedo qualcosa per me che non me la vuol concedere», disse un giorno Vianney a Catherine Lassagne e questa con prontezza gli ripsose: «È che voi chiedete di ritirarvi o di andarvene, e il buon Dio non lo vuole». Questo frammento di dialogo illustra il dramma interiore in cui il Curato continuava a dibattersi».[11]

    Il gesuita A. Monnin, che fu il primo biografo di san Giovanni Maria Vianney e che fu spesso suo ospite e confidente, scrive così nella sua Vita, pubblicata nel 1861: «Vogliamo ora parlare di un’altra pena che afflisse per qualche tempo il Santo, cioè del desiderio tormentoso della solitudine che l’avrebbe liberato da un carico che egli riteneva superiore alle proprie forze, quale è il governo di una parrocchia; che gli avrebbe permesso di vivere una più intima comunione con Dio… Il Santo Curato finì col comprendere che questa aspirazione al riposo nella solitudine e nella preghiera era una tentazione. Questa tentazione sotto varie forme tornava di quando in quando ad assalirlo; e faceva assai fatica a respingerla del tutto, e fu udito molte volte ripetere che era cosa terribile il passare dalla canonica al tribunale di Dio»[12].

    Nella vita di san Giovanni Maria Vianney è, dunque, possibile vedere quale sia la volontà di Dio per un parroco: santificarsi in quanto parroco e facendo il parroco! Analogamente si dirà per tutti i sacerdoti che «in virtù del sacramento dell’ordine ad immagine di Cristo, sommo ed eterno sacerdote (cf. Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28), sono consacrati per predicare il Vangelo, essere i pastori fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti del Nuovo Testamento» (Lumen Gentium, n. 28).

    Giacché, poi, qualcosa è stata richiamata riguardo al ministero della Parola, si potrà qui aggiungere qualcosa riguardo al ministero della santificazione: il suo fedele esercizio fa diventare un sacerdote preghiera vivente e lode a Dio fatta persona. Così egli entra a far parte del ministero degli angeli, coi quali ogni sacerdote celebra l’Eucaristia. L’antico assioma domenicano del contemplata aliis tradere, lo si potrebbe, in tal caso, riproporre come una contemplationem aliis tradere.[13] Un sacerdote, un vescovo, un parroco hanno il dovere di donare agli altri la loro stessa contemplazione, tutta la loro contemplazione (contemplationem aliis tradere).

    Questo avviene quando vi s’include se stessi. Nella missionarietà l’atto contemplativo diviene, come affermava santa Teresa di Lisieux, «l’utero spirituale dove è concepita tutta l’azione della Chiesa». È il contemplativo, in questo caso, che associa gli altri alla sua preghiera e tutti insieme diventano una comunione orante e contemplante. Ugualmente si dirà per l’ufficio di governare, che costituisce un importante fattore di santificazione quando viene esercitato a imitazione di Cristo, «venuto non per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 45). Praeesse est prodesse, ripete un antichissimo e diffuso aforisma risalente proprio a sant’Agostino (cf. Sermo 340), presente pure nella Regula di san Benedetto (cf. Reg. 64, 8) e ripreso da san Gregorio Magno (cf. Reg. Past. 11, 6). Esso traduce a suo modo l’idea che l’autorità vera sta nel servizio e che è proprio la verità del servizio a rendere autorevoli.[14]

    Occorre, dunque, che noi sacerdoti ci santifichiamo nell’esercizio e con l’esercizio del nostro ministero. Diversamente detto, i sacerdoti sono chiamati, per e nell’esercizio stesso del loro ministero, a riunirsi all’atto in cui Cristo, per loro mezzo, compie la sua missione di maestro, sacerdote e pastore, e dona loro di partecipare alla sua carità pastorale. Tale comunione con Cristo, intervenendo egli stesso nel loro ministero, fonda adeguatamente la specificità della santità presbiterale.

 

Unità dei tria munera e spiritualità del sacerdote

    Lo schema dei tria munera fu ritenuto utile al Vaticano II per indicare nella sua globalità il ministero sacro esercitato dal Vescovo e dai Presbiteri. Sarebbe, tuttavia, pregiudizievole ripartire i tria munera in delle specie di compartimenti stagni, sì da renderli impenetrabili l’uno all’altro e autonomi l’uno rispetto all’altro. I tria munera formano, al contrario, come un tripode il quale senza uno dei sostegni cadrebbe certamente per terra. Separare le tre funzioni, anzi, sarebbe come dividere il cuore stesso della Chiesa. I tria munera sono di per sé indivisibili. Mediante il loro esercizio si esplicita, sia per i Vescovi sia per i presbiteri nella loro parte di autorità, la partecipazione all’autorità con la quale Cristo stesso fa crescere, santifica e governa il proprio corpo, che è la Chiesa. Anche per questo – come ho ricordato prima – la formula tria munera è alternata con l’altra di triplex munus, che meglio esprime la loro inseparabilità.[15]

    Ancora, ciò che nell’enucleazione dei tria munera è comune in tutti i testi conciliari riguardanti il ministero dei vescovi e dei presbiteri è il fatto che nella loro successione è sempre data una precedenza al ministero dell’annuncio del Vangelo. Ciò non significa che tale ministero sia come di più alto rango rispetto agli altri due. Ancor meno è possibile ritenere che il Concilio abbia voluto coprire con la sua autorità questa lettura delle funzioni ministeriali, quasi impedendo altre eventuali schematizzazioni. Ciò detto, si coglierà come fatto importante il riferimento implicito alla successione dei verbi che sono contenuti nel cosiddetto mandato missionario di Mt 28,19-20: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole… insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato». La precedenza del ministerium Verbi è, dunque, semplicemente funzionale a una visione missionaria del ministero episcopale e presbiterale.[16] È d’altra parte quello che ci domanda Papa Francesco fin dall’esortazione Evangelii gaudium: «tutti siamo chiamati a questa nuova “uscita” missionaria. Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo. La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria» (nn. 20-21).

    Continua, dunque, certamente a essere vero che l’esercizio del sacro ministero ha il suo proprio vertice nella celebrazione dell’Eucaristia; il contenuto della missione dei ministri sacri, però, non può essere racchiuso nella sola dimensione del culto, ma deve comprendere anche la predicazione e la guida pastorale[17]. Sarebbe perciò un controsenso se qualcuno, ad esempio, volesse diventare prete soltanto per «prendere Messa»… Sarebbe, ugualmente, una grave contraddizione immaginare un giovane che ritenga di avviarsi al ministero sacro avendo in animo, ad esempio, il proposito d’intraprendere una carriera ecclesiastica, o qualcosa di simile. Nell’Omelia per le Ordinazioni Sacerdotali del 7 maggio 2006, commentando il testo di Gv 10, 1 («chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante»), Benedetto XVI disse: «Questa parola saleanabainei in greco – evoca l’immagine di qualcuno che si arrampica sul recinto per giungere, scavalcando, là dove legittimamente non potrebbe arrivare. Salire - si può qui vedere anche l’immagine del carrierismo, del tentativo di arrivare in alto, di procurarsi una posizione mediante la Chiesa: servirsi, non servire. È l’immagine dell'uomo che, attraverso il sacerdozio, vuole farsi importante, diventare un personaggio; l’immagine di colui che ha di mira la propria esaltazione e non l’umile servizio di Gesù Cristo». Al contrario, come disse lo stesso Benedetto XVI nell’Omelia per le Ordinazioni Sacerdotali del 3 maggio 2009, «diventare sacerdoti, nella Chiesa, significa entrare… [nella] auto – donazione di Cristo, mediante il Sacramento dell’Ordine, ed entrarvi con tutto se stessi. Gesù ha dato la vita per tutti, ma in modo particolare si è consacrato per quelli che il Padre gli aveva dato, perché fossero consacrati nella verità, cioè in Lui, e potessero parlare ed agire in nome suo, rappresentarlo, prolungare i suoi gesti salvifici: spezzare il Pane della vita e rimettere i peccati».

    Se questo è vero, si deve aggiungere che nella rettitudine d’intenzione dei candidati al ministero sacro deve esserci la volontà di dedicarsi alla Chiesa assumendo senza riserve e toto corde l’integralità dei tria munera. I tre ambiti propri del ministero sacro, infatti, sono inscindibilmente connessi tra di loro e distinguibili solo in modo inadeguato. Ciascuno di essi non sta mai senza l’altro sicché i tria munera interagiscono fra loro e si sostengono a vicenda. Ciò è, probabilmente, da ribadire laddove, ad esempio, si ravvisano tentazioni di separare i tria munera perlomeno in alcuni ambienti che teorizzano, oppure praticano solo di fatto, al loro interno, un netto distacco tra il munus sanctificandi (riservato al presbitero) e il compito di ammaestramento e di guida, che vengono riservati ad altre «autorità», che non sono né il presbitero, né il vescovo. Si tratta di riedizioni di «sacramentalizzazione» non adeguatamente supportata dall’evangelizzazione, se non proprio di ritorni a situazioni pregresse, dove «il presbitero c’è solo per la Messa (e la confessione)»! Il caso sarebbe grave. Scindere la presidenza eucaristica da quella profetico-pastorale vorrebbe dire affidare una comunità a due «presidenze»... a meno che una delle due non sia puramente nominale.[18] Ciò, per giunta, non se l’immaginò neppure il Concilio di Trento e sarebbe contro la verità delle cose l’attribuirglielo. A Trento, infatti, se, per situazioni particolari, si giunse a definire il sacerdozio del Nuovo Testamento in rapporto al sacrificio eucaristico, mai si volle trascurare il dovere – almeno per i Vescovi e per i parroci (e lo si fece nei Decreti de Reformatione) – della predicazione e del governo pastorale.[19]

    Che, poi, nel concreto esercizio dei tria munera nella vita di un singolo sacerdote prevalga l’uno, o l’altro, può dipendere da diversi fattori. Uno potrebbe essere la personale biografia di ogni singolo ministro, dove per condizioni fisiche, o caratteriali, o per disposizioni formative si mostrerebbero attitudini diverse all’uno, o all’altro tipo di ministero. Un altro fattore sarebbe legato alla missione che il Vescovo affida al singolo sacerdote. Riguardo al ministero sacerdotale, la vita della Chiesa non ha bisogno solo di parroci! Le esemplificazioni potrebbero essere molte. Nel contesto della formazione e della vita dei sacerdoti si potrebbe pensare al delicatissimo ministero dei direttori spirituali nel seminario, oppure dei docenti e degli altri formatori; oppure ad alcune altre funzioni amministrative nella Curia Diocesana, ecc.

    Il decreto Presbyterorum Ordinis ci offre al riguardo una vasta gamma di attività apostoliche e ministeriali. Lo fa al n. 8, nella prospettiva della «fraternità sacramentale», che unisce tutti i presbiteri, specialmente in considerazione dell’unico presbiterio «nella diocesi al cui servizio sono ascritti sotto il proprio vescovo». In tale contesto il decreto spiega: «anche se si occupano di mansioni differenti, sempre esercitano un unico ministero sacerdotale in favore degli uomini. Tutti i presbiteri, cioè, hanno la missione di contribuire a una medesima opera, sia che esercitino il ministero parrocchiale o sovra-parrocchiale, sia che si dedichino alla ricerca dottrinale o all'insegnamento, sia che esercitino un mestiere manuale, condividendo la condizione operaia – nel caso ciò risulti conveniente e riceva l'approvazione dell'autorità competente –, sia infine che svolgano altre opere d’apostolato od ordinate all’apostolato…».[20] Nascono proprio così le diverse «figure sacerdotali», che rimangono tutte legittime finché al centro rimane il «servizio pastorale» e il triplice ministero non è compromesso dall’unilaterale enfatizzazione dell’uno o dell’altro.[21]

    Considerando, infine, la cosa dalla parte del discernimento vocazionale, si tornerà a dire che tale discernimento non potrà essere esercitato unicamente in funzione dell’esercizio del culto e con esclusivo riferimento al ministero della santificazione. I «segni di vocazione», al contrario, dovranno essere colti pure in relazione all’annuncio della Parola di Dio, all’essere in grado di affaticarsi nella predicazione e nell’insegnamento (cf. 1Tim 5,17), credendo a ciò che si è letto e meditato nella legge del Signore, insegnando ciò che si crede e vivendo ciò che s’insegna (cf. Lumen Gentium, n. 28). Il discernimento vocazionale si farà ugualmente in ordine al ministero di guida di una comunità e, conseguentemente, alla capacità del candidato di vivere «in relazione» e di essere «guida di comunità», al suo equilibrio umano, al suo desiderio di servire e promuovere le relazioni fraterne nella Chiesa.[22]

 

Incontro col Presbiterio diocesano della Chiesa di Macerata,

Tolentino, Recanati, Congoli, Treia

Macerata, Seminario Redemptoris Mater, 16 dicembre 2021

 

Marcello Card. Semeraro

 

 

[1] J. De Avila, Escritos sacerdotales, BAC, Madrid 2000, 142 («Tratado del sacerdocio» I §5). J. De Avila rimanda, fra l’altro, a quanto si legge in un testo comunemente attribuito a sant’Ambrogio, ma di incerta paternità: «quod sumus professione, actione potius quam nomine demonstremus; ut nomen congruat actioni, actio respondeat nomini; ne sit nomen inane, et crimen  immane: ne sit honor sublimis, et vita deformis: ne sit deifica professio, et illicita actio: ne sit religiosus amictus, et irreligiosus provectus: ne sit gradus  excelsus, et deformis excessus; ne habeatur in Ecclesia cathedra sublimior, et conscientia sacerdotis reperiatur humilior»: De dignitate sacerdotali, III: PL 17, 570. Il brano è ripreso da Gerberto d’Aurillac (futuro Silvestro II) nel Sermo de informatione episcoporum: PL 139, 171. J. De Avila cita pure San Bernardo, De consideratione VII, 14: «Monstruosa res gradus summus, et animus infimus: sedes prima, et vita ima…» (PL 182, 750).

[2] In epoca moderna queste idee cominciarono ad affermarsi soprattutto in ambienti francesi. Nei primi decenni del Novecento cominciarono quindi a emergere domande sulla spiritualità sacerdotale e del clero diocesano, in particolare. Quelle istanze giunsero in Concilio convergendo nel capitolo terzo di Presbyterorum Ordinis, che esordisce appunto con l’affermazione che la vocazione sacerdotale, già per se stessa, è via propria e necessaria alla santità sacerdotale: per diventare santo il sacerdote deve impegnarsi – come già aveva affermato Lumen Gentium 41 – nel quotidiano esercizio del suo ministero. Cf. P. Brocardo, Spiritualità sacerdotale, in A. Favale (a cura di), «I sacerdoti nello spirito del Vaticano II», Elle Di Ci, Torino-Leumann 1969, 860-885. Per un commento a questo numero del decreto conciliare, cfr M. Caprioli, Il decreto conciliare “Presbyterorum Ordinis”. Storia – analisi – dottrina, II, Teresianum, Roma 1990, 65-85.

[3] Si ricorderà che in quegli anni Paio XII, con l’esortazione Menti nostrae sulla santità sacerdotale del 23 settembre 1950, aveva messo in guardia il clero da quella che chiamava la eresia dell’azione. Non che il Papa vedesse nell’azione di per sé una eresia. Egli, anzi, aveva intendeva stimolare «alle opere di ministero coloro che, chiusi in se stessi e quasi diffidenti della efficacia del divino aiuto, non si adoperano, secondo le proprie possibilità, a far penetrare lo spirito cristiano nella vita quotidiana, in tutte quelle forme che sono richieste dai nostri tempi». Pio XII denunciava, piuttosto, quell’azione «che non ha le sue fondamenta nell'aiuto della grazia, e non si serve costantemente dei mezzi necessari al conseguimento della santità, dataci da Cristo». Il Papa la chiamava eresia perché consisteva in un attivismo tale da fare dimenticare al sacerdote il dovere della propria santificazione.

[4] Cf. Conlatio XIV, 2: Giovanni Cassiano, Conversazioni con Padri a cura di R. Alciati, Paoline, Milano 2019, 852-855.

[5] «In lectione autem sic considerandum. Primo lectio ad cognoscendam veritatem materiam ministrat, meditatio coaptat, oratio sublevat, operatio componit, contemplatio in ipsa exsultat», De meditando: PL 176, 993.

[6] Cf. A. Favale, Il ministero presbiterale. Aspetti dottrinali, spirituali, pastorali, LAS, Roma 1989, 286; cf. Idem, voce Presbitero (spiritualità del), in E. Ancilli (a cura di), «Dizionario Enciclopedico di Spiritualità», III, Città Nuova, 1990. 1010-2029.

[7] Cf. le belle pagine densissime di riferimenti, in H. de Lubac, Esegesi Medievale, I, Paoline, Roma 1972, 325-354.

[8] G. B. Montini, Discorsi e Scritti milanesi (1954-1963), I (1954-1957), Istituto Paolo VI, Brescia 1997, 1718.

[9] Cf. C. Bissoli (a cura di), La Bibbia in mano al prete, ECN Settore Apostolato Biblico, Elledici, Leumann (To) 2010. Cf. pure Benedetto XVI, Esort. Apost. Verbum Domini, nn. 77-82 .

[10] R. Fourrey, Vita autentica del Curato d’Ars, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1986, p. 339. Al tema sono dedicate le p. 339-355.

[11] Ibidem, p. 229.

[12] A. Monnin, Il Curato d’Ars. San Giovanni Maria Vianney (tr. it), Centro Missionario Francescano, Pesaro 2009, p. 181. 187.

[13] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Pastores Gregis, n. 17.

[14] Cfr Y. Congar, Alcune espressioni tradizionali del servizio cristiano, in Aa. Vv., «L’episcopato e la chiesa universale», Paoline, 1965, p. 129-134.

[15] Si potranno vedere in proposito le spiegazioni e le argomentazioni della Commissione Teologica Internazionale, Il sacerdozio ministeriale. Ricerca storica e riflessione teologica VI, C, 1.

[16] Sui tria munera relativamente al ministero presbiterale, oltre ai due commenti a Presbyterorum Ordinis già citati alla nota 8 cfr pure J. Frisque, Il decreto Presbyterorum Ordinis. Storia e commento, in Y. Congar e J. Frisque, «I preti. Formazione e vita», AVE, Roma 1970, 43-54. 72-74; H. Denis, La teologia del presbiterato da Trento al Vaticano II, in Ibidem p. 146-151. Si veda pure G. Rambaldi, L’unità delle funzioni dei presbiteri, in G. Concetti (dir.), «Il prete per gli uomini d’oggi», AVE, Roma 1975, 483-505; L. Sartori, Valori e limiti della lettura del ministero ordinato secondo lo schema dei Tria Munera, in «Credere Oggi», n.133 (gen./feb. 2003), 63-73.

[17] Cf. E. Castellucci, Il ministero ordinato, Queriniana, Brescia 2002 (la questione dei tria munera si trova a p. 231- 234); G. Greshake, Essere preti in questo tempo. Teologia, prassi pastorale, spiritualità, Queriniana, Brescia 2008.

[18] Cf. B. Sesboüé, Les animateurs pastoraux laïcs. Une prospective théologique, in «Ėtudes» 1992 (377), p. 253-265; Castellucci, Il ministero ordinato, p. 336-337.

[19] Cf. K. J. Becker, Wesen und Vollmachten des Priestertums nach dem Lehramt, Freiburg 1970 («Quaestiones disputatae», 47); Idem, La differenza tra vescovo e sacerdote nel decreto sul sacramento dell’ordine del Concilio di Trento e nella Costituzione sulla Chiesa del Vaticano II. Sviluppo del dogma in senso regressivo o progressivo?, in Aa.VV., «Infallibile?», Paoline, Roma 1971, p. 291-350; cf. pure Denis, La teologia del presbiterato da Trento al Vaticano II cit.

[20] Per la storia di questo numero cfr M. Caprioli, Il decreto conciliare “Presbyterorum Ordinis”. Storia – analisi – dottrina, I, Teresianum, Roma 1989, 271-300, in particolare le p. 294-296. Il decreto conciliare inserisce, come si vede, anche un accenno all’apostolato del lavoro manuale. La questione fu inserita per la richiesta di molti vescovi preoccupati per l’esperienza dei «preti operai», ma è trattata con estrema cautela e con riserva. Nel Sinodo dei vescovi del 1971 si tornò a trattare la questione, ma in termini molto critici: «Per nulla è da considerare quale fine principale la partecipazione alle attività secolari degli uomini, né può essa bastare ad esprimere la specifica responsabilità dei presbiteri…», (II, I, 2).

[21] Cf. Greshake, Essere preti in questo tempo, 255-261.

[22] Cf. S. Dianich, voce Ministero pastorale, in S. De Fiores e T. Goffi (a cura di), «Nuovo Dizionario di Spiritualità», Paoline, Roma 1982, 960-971. Cf. pure D. Tettamanzi, La vita spirituale del prete, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2002; Greshake, Essere preti in questo tempo, 358-378.