Lectio Magistralis per l’inaugurazione dell’A.A. 2022-2023 della Scuola di Alta Formazione in Cause dei Santi

 

La santità: Cristo in me

Lectio Magistralis per l’inaugurazione dell’a.a. 2022-2023 della Scuola di Alta Formazione in Cause dei Santi

 

«Che cosa dunque accade, quando sta crescendo un santo?». Con questa domanda R. Guardini iniziava nel 1924 il primo dei suoi cinque saggi esplicitamene dedicati al tema della santità; fra questi, due a San Francesco d’Assisi, il santo che più e meglio d’ogni altro corrisponde alla sua tipologia. Egli non aveva ancora quarant’anni e da appena quattro aveva iniziato la sua attività accademica insieme con la partecipazione al movimento giovanile Quickborn (Fonte viva), che avrà ruolo importante nella sua vita; da un anno, poi, aveva dato avvio all’insegnamento universitario presso l’Università di Berlino sulla, da poco istituita, cattedra di Katholische Weltanschauung.[1]

 

Cristo «formato» nel battezzato

La risposta che egli dà alla domanda iniziale è la seguente: «Accade qualcosa che deriva da Cristo. Una persona si è messa interamente a disposizione di Cristo, ed Egli l’ha attratta entro il suo particolare ambito creativo in cui esplica l’effetto della Sua presenza nella storia».[2] Si tratta, in breve, come ripeterò fra poco, di una sorta d’irruzione di Cristo nella realtà personale di un suo discepolo, di un cristiano, di una cristiana. È qualcosa che ha una certa analogia con il mistero dell’Incarnazione.

L’iniziativa è di Cristo; è quell’apparire della grazia di Dio di cui San Paolo scrive nella lettera a Tito (2,11). Un avvento che, però, ha come sua praeparatio evangelica l’interiore disponibilità ad accogliere l’arrivo di Cristo. È quello che accade nella vita di tanti santi; di Sant’Ignazio di Loyola, ad esempio, dove l’altalenarsi delle mozioni all’epoca della sua convalescenza, precede il suo incontro con Cristo. «Finché una volta non gli si aprirono gli occhi», commenta il p. M. Costa. «Dio previene Ignazio con la Sua grazia: Dio è il primo; Ignazio, però, è pronto a corrispondervi subito con i suoi mezzi: si lascia meravigliare, si mette a riflettere… È l’esperienza interiore che si trova alla base della meditazione dei Due Vessilli».[3]

Guardini ci dice pure qual è la fonte biblica cui attinge per la sua affermazione. Si tratta anzitutto di Gal 4,19 dove l’Apostolo, fremente all’idea dell’infedeltà dei galati, con tono materno scrive loro: «figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato (morphote) in voi!». Singolare, davvero, questa espressione paolina, almeno per due ragioni. La prima è nel fatto che l’Apostolo dichiara di soffrire i dolori del parto per una gestazione di Cristo che però non è lui a condurre, ma i galati stessi, i quali, poiché rischiano di abbandonare la fede, hanno bisogno che Cristo sia ri-formato in loro. La seconda ragione è nell’uso del vero morphein, che nella forma passiva appare qui per l’unica volta nel greco neotestamentario e che nel linguaggio generativo rimanda alla formazione dell’embrione nel grembo di una donna.[4] Alla luce di ciò, Romano Guardini dice che «santità significa, in verità, che “Cristo sia formato in noi”.

Un modello di questa santità in gestazione e che si fa strada nel cristiano è San Francesco d’Assisi, di cui la Leggenda Tre Compagni narra che, dopo la praeparatio evangelica nel dormiveglia di Spoleto, «d’improvviso, il Signore lo visitò, e n’ebbe il cuore riboccante di tanta dolcezza, che non poteva muoversi né parlare, non percependo se non quella soavità, che lo estraniava da ogni sensazione, così che (come poi ebbe a confidare lui stesso) non avrebbe potuto muoversi da quel posto, anche se lo avessero fatto a pezzi».[5]

Come Francesco, tutti i santi «sono persone in cui avviene una nuova irruzione di Cristo, per tempi nuovi, o nuove cerchie di vita, o con tanta energia che anche per noi si chiariscono delle vie».[6]

A questo punto, per Guardini la santità è la in-esistenza di Cristo nel cristiano e questo essere di Cristo nell’uomo può essere chiamata l’interiorità cristiana. Essa dipende da Cristo e scompare se Cristo è scacciato.

 

Cristo vive nel cristiano e nella Chiesa

Alla sorgente della nuova formulazione: «in-esistenza» (Inexistenz) c’è un’altra citazione dalla Lettera ai Galati: «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (2,20) In questo vivere-in c’è, per Guardini, l’essere del santo cristiano. Seguiremo, dunque, il suo pensiero al riguardo, facendo riferimento ad alcune sue opere.

Prima, però è il caso di sottolineare l’importanza di questa formula nel pensiero paolino. Ad essa dedica ampio spazio il p. A. Vanhoye, nel suo commento alla Lettera ai Galati. Essa, scrive, costituisce «una novità stupenda».[7]

L’espressione per intero è la seguente: «non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me». Da qui comprendiamo anzitutto qual è la maniera con la quale Cristo prende possesso della vita di Paolo: è per mezzo della fede. Quale fede, però?

Non quella che nel linguaggio scolastico è indicata come fides quae creditur, ossia l’assenso dell’intelletto a delle verità da credere, bensì quella chiamata fides qua creditur, ossia quella fede che la costituzione Dei Verbum del Vaticano II descrive come l’atto con il quale l’uomo si abbandona tutt’intero e liberamente a Dio, prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà. È ciò che San Paolo chiama obbedienza della fede.[8]

Facciamo ora un passo in avanti. La fede del cristiano, aggiunge l’Apostolo, si fonda sull’affidabilità di Cristo. Su Cristo si può contare anzitutto a motivo della sua dignità divina: è il Figlio di Dio! Per altro aspetto, Cristo è colui che mi ha amato sino dare la propria vita per me. Come non fidarsi di lui? Come non affidarsi a lui?

Ed è commovente vedere come San Paolo, che ha pure ha una visione cosmica della salvezza, veda convergere questa affidabilità verso di sé ed è proprio considerando la sproporzione tra la grandezza di Dio e la propria piccolezza che egli deduce ulteriori ragioni di fiducia in Cristo.

Qual è, poi, – ancora una domanda – la modalità con la quale Cristo vive in Paolo? La tradizione religiosa ci informa che questo può avvenire in forme diverse: lo spirito profetico che invade una persona? Un genio che, come per Socrate, la guida? È il romantico linguaggio dell’amore? Nulla di tutto questo, giacché si tratta di una reale, reciproca interiorità.

È proprio R. Guardini ad aiutarci a capire. Egli, difatti, ne ha trattato in più riprese, proponendo ogni volta la centralità nel suo pensiero di Gal 2,20: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me». Seguiamolo rapidamente, indicando in tappe cronologicamente successive alcuni suoi scritti, cogliendo eventuali aggiunte nel suo pensiero.

Cominciamo con un saggio che risale al periodo che va dal 1931 al 1939 (quindi a una data non lontana dai saggi sulla santità di cui ho detto all’inizio) e che porta il titolo di Antropologia cristiana. Qui troviamo la parola «in-esistenza», che si potrebbe anche rendere con «radicamento» ed è sempre un rimando, implicito o esplicito, a Gal 2,20. In forza di questa presenza – operata dallo Spirito, in maniera analoga a come, nel mistero dell’Incarnazione, Egli stesso ha reso presente il Figlio di Dio nella storia – «dal punto di vista cristiano l’uomo è quell’essere la cui entelechia determinante è lo stesso Cristo pneumatico, il quale si esprime e esercita il suo influsso nella modalità di quest’uomo».[9] Ciò vuol dire che l’uomo trova il suo compimento, diventa pienamente se stesso quando lascia spazio a Cristo che viene a in-esistere in lui. Non si tratta affatto di una presenza estranea che aliena l’uomo e lo rende non-responsabile dei suoi atti, quale potrebbe essere uno invasato da un essere alieno, e questo perché Cristo non è un altro, ma è l’Altro che è inizio di una nuova creazione; è l’Altro che strappa l’uomo dalla sua solitudine esistenziale. Scrive Guardini: «La solitudine dell’io è superata; al suo posto subentra l’offerta di un rifugio in Dio – “la vostra vita è nascosta in Cristo in Dio” dice Paolo. L’arroganza della responsabilità autonoma è tolta; al suo posto subentra la dignità di Dio, di un figlio o di una figlia di Dio».[10]

Il tema ricompare in quella che è l’opera più conosciuta e diffusa di Romano Guardini e anche quella a lui più cara, ossia Il Signore, che è del 1937.[11] Egli ne parla trattando del mistero della Pentecoste e in tale contesto torna ad affermare l’opera dello Spirito è quella di creare l’uomo nuovo; l’uomo, cioè, che ha in Cristo la forma vitale della propria esistenza e che «la forma che fa il cristiano; quella che è destinata a penetrare in tutte le sue espressioni, a ridurre in unità tutti i diversi fatti della sua vita, ad essere riconosciuta in tutto, è Cristo in lui».

Questo avviene in modalità diverse, a seconda delle età della persona e anche delle epoche e della varietà delle situazioni. In tutto, però, «Cristo rivive, per così dire, la sua vita; è dapprima bambino, poi giunge gradatamente a maturità, finché ha raggiunto pienamente la maggiore età del cristiano… Incredibile pensiero».

A questo punto Guardini inserisce un ampliamento ecclesiologico. Ciò che, infatti, si può dire di un singolo cristiano si può dire di ogni altro. «Ne consegue una comunanza di derivazioni. In questa vita interiore, nata da Dio, noi siamo parenti. Formiamo la famiglia dei figli di Dio, tra i quali Cristo sta «come il primogenito tra molti fratelli» (Rm 7,29). L’esperienza genuina di questa comunanza è il Padre nostro. Qui parla il Noi cristiano. I figli di Dio, guidati dal loro Fratello maggiore, parlano al Padre comune».

Affermazioni simili sono presenti in un’opera di poco successiva, ossia L’essenza del cristianesimo che è del 1938. Anche qui Guardini comincia col sottolineare che il cristianesimo non è semplicemente una teoria della Verità, o una interpretazione della vita. Il cristianesimo, invece, è la persona stessa di Gesù Cristo sicché tutto nel cristiano è definito dalla relazione con lui. La radice di tutto ciò è pneumatica: è la Pentecoste, infatti, a fare sì che Cristo, la sua Persona, la sua Vita e la sua azione redentiva diventino una realtà interiore ai cristiani e a loro dischiusa. Solo col dono dello Spirito i discepoli di Gesù diventano “cristiani” sicché la Pentecoste è l’ora natalizia della fede cristiana come un essere in Cristo. Così si origina la relazione: noi in Cristo; Cristo in noi.[12]

Di nuovo, a questo punto, come ne Il Signore, Guardini prosegue sottolineando che questa in-esistenza non si esaurisce nella dimensione individuale, ma ha sempre un risvolto comunitario, poiché «la medesima relazione che ha col singolo, Cristo l’ha col tutto. Egli fa dell’insieme degli uomini la totalità cristiana, la quale è più della semplice somma dei singoli. Egli è come la loro entelechia; la loro forma interiore e la loro forza organizzatrice. Solo così si forma la Chiesa».[13]

La tematica tornerà l’anno successivo in Mondo e persona, la cui redazione iniziale risale al 1939. Non ripeto quello che in proposito ho già detto. Aggiungo solo che qui, sotto il profilo lessicale, la in-esistenza di Cristo nel cristiano assume esplicitamente il nome di «grazia». «’Grazia’ – scrive Guardini – significa la categoria dell’esistenza cristiana e non può essere espressa in modo più puro che mediante la parola della Lettera ai Galati: “Non son più io che vivo, ma Cristo vive in me”».[14]

Il medesimo ricorso alla categoria della grazia lo troviamo in un saggio dedicato alla figura di Cristo negli scritti paolini pubblicato nel 1941: è l’epoca in cui la cattedra di Guardini era stata abolita, perché una nuova Weltanschauung – quella «ariana» - aveva preso il sopravvento ed egli si era trasferito a Berlino. L’opera ha per titolo Gesù Cristo. La sua figura negli scritti di Paolo e di Giovanni, dove troviamo quella che a me pare essere la formulazione più compiuta e lineare della teoria della in-esistenza di Cristo nel cristiano e nella Chiesa.[15]

Qui possiamo subito leggere che «le parole “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” compendiano la categoria della grazia, intesa come relazione che ci unisce al Cristo vivente nello Spirito Santo»; che «la vita cristiana consiste nel venire incardinati nella forma d’essere e d’esistenza in cui Cristo, risorto, vive»; che «la relazione di inesistenza non coinvolge soltanto il singolo uomo privilegiato, bensì tutti coloro che sono stati fatti oggetto della preferenza divina, e li lega insieme a costituire, sotto questo profilo, una comunione».

Simili tesi le troviamo in un testo che risale agli ultimi anni dell’insegnamento a Monaco fino al semestre invernale 1962/63: si tratta de L’esistenza del cristiano, dove Guardini scrive: «Ogni esperienza di vita cristiana, sfocia in qualche modo nel Cristo in me ed io in Lui. Le biografie spirituali danno sempre nuove testimonianze di questo fenomeno. Ci sarà da parlare ancora più precisamente di questo, che questa immanenza costituisce addirittura ciò che si chiama personalità cristiana così come ciò che si chiama comunità cristiana, Chiesa».[16]

 

Santità: chiamata e risposta

Eravamo partiti dalla domanda: che cosa accade, quando sta crescendo un santo? La risposta di Guardini è stata: «Accade qualcosa che deriva da Cristo. Una persona si è messa interamente a disposizione di Cristo, ed Egli l’ha attratta entro il suo particolare ambito creativo in cui esplica l’effetto della Sua presenza nella storia».

Nella esplicazione di questa frase possiamo riconoscere quello che noi oggi chiamiamo «vocazione alla santità». Lumen gentium n. 7 parlando di Cristo, capo del corpo che è la Chiesa, dice che tutti i membri devono a lui conformarsi, fino a che Cristo non sia in essi formato (cf. Gal 4,19); parlando poi della vocazione alla santità dei presbiteri, il Concilio Vaticano II presenta come modelli «coloro i quali, fattisi più docili agli impulsi e alla direzione dello Spirito Santo, possono dire con l’Apostolo, grazie alla propria intima unione con Cristo e santità di vita: “Ormai non sono più io che vivo, bensì è Cristo che vive in me” (Gal 2,20)» (Presbyterorum ordinis, n. 12).

In effetti, quando delinea la figura del santo, Guardini non pensa affatto alla santità canonizzata, ma a ciò che con il termine «santo» intendono il Nuovo Testamento e san Paolo in particolare. La voce «santo» del Dizionario di Teologia Biblica curato da X. Léon-Dufour – ormai un classico – scrive: «I cristiani partecipano di fatto alla vita di Cristo risorto mediante la fede e mediante il battesimo che dà loro “l’unzione venuta dal santo” (1Cor 1,30; Ef 5,26; 1Gv 2,20). Sono quindi “santi in Cristo” (1Cor 1,2; Fil 1,1) per la presenza in essi dello Spirito Santo (1Cor 3,16s; Ef 2,22)…».[17]

Il santo è questo. Il magistero del Vaticano II non ci lascia alcun dubbio: «tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità» (Lumen gentium, n. 40). Nulla di eccezionale, dunque, nulla di portentoso. Romano Guardini è d’accordo: «nel Nuovo Testamento il termine “i santi” significa semplicemente coloro che credono in Cristo, sono battezzati e si sforzano di vivere alimentandosi a questa fede».[18]

Tutto semplice, dunque? Nient’affatto. Il si sforzano che abbiamo appena ascoltato ci riporta al testo paolino che tanto ha attirato quella di R. Guardini e la nostra attenzione e che ora dobbiamo ripetere con la sua premessa: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (vv. 19-20). Poiché non sono un biblista, torno a riprendere il commento del p. Vanhoye: «“Sono stato crocifisso con Cristo”: Quanta audacia in questa dichiarazione! Dimostra un legame fortissimo con Cristo, un immedesimarsi affettivo ed esistenziale con lui e manifesta nel contempo una duplice convinzione: 1) che Cristo ha preso i credenti con sé nella sua morte; 2) che questo evento supera i limiti della cronologia storica e ha una attualità sempre presente. Paolo usa qui il verbo al perfetto, che in greco esprime il risultato perdurante di una azione passata: “Sono stato crocifisso e lo sono ancora”. Questo corrisponde alla condizione effettiva del credente: essendo ancora nella vita terrena, egli si trova nel periodo di attuazione della passione di Cristo, la quale condiziona la sua partecipazione alla vita di Cristo risorto».[19]

Paolo, dunque, partecipa alla passione di Cristo e si sente quasi con-crocifisso con lui un po’ alla stessa maniera con la quale, sul luogo chiamato Cranio, erano crocifissi i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra (cf. Lc 23,33). Egli stesso, anzi, allarga questa sua condizione a quanti sono stati battezzati, quando scrive che «l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è liberato dal peccato» (Rom 6,6-7).[20]

Tutto questo significa che la in-esistenza di Cristo nel battezzato se pure è un dato che lo tocca nel suo essere («santità ontologica del cristiano») e lo trasforma in nuova creatura (cf. 2Cor 5,17), esige un adeguamento dell’intera esistenza alla nuova situazione («santità morale») e questo è un compito per tutta la vita.

Per rimanere a San Paolo, è nota la sua analogia con il correre verso la meta: «Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù. Tutti noi, che siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti» (Fil 3,12-15). Qui l’Apostolo pone sullo stesso piano il raggiungere la meta della vita cristiana, il suo fine e l’essere perfetto. I perfetti («santità perfetta», o perfezione cristiana) sono quelli che sono giunti al pieno sviluppo della vita e del pensiero cristiano, alla maturità spirituale: questo, però, sarà definitivo per ciascuno solo dopo la morte.[21]

Guardini scrive che credere e essere battezzato significa essere inserito e vitalmente inserirsi nell’atto eterno dell’Agnello immolato, che vive e ha il potere di sciogliere i sigilli (cf. Ap 5,6). E questo mediante una vittoria sempre nuova affinché Cristo “si formi in lui” (Gal 4,9), ed egli così cresca fin alla pienezza dell’età di Cristo (Ef 4.13). La figura della persona e del destino di Cristo, con la sua vivente pienezza di forze viene nuovamente generata in ogni credente, e lo sospinge a crescere nella sua speciale esistenza e, progredendo, a realizzare la pienezza delle sue possibilità».[22]

In effetti la santità è sempre un dono che si fa compito (Gabe und Aufgabe). La santità è grazia, ma proprio per questo impegna. Per un battezzato – lo ripete anche Guardini – giunge sempre il momento (kairos) in cui c’è «la domanda se voglia essere cristiano assumendone la responsabilità reale – una decisione che egli deve mantenere in vigore continuamente di fronte all’estraneità e ostilità del suo ambiente, e che anzi deve assumere di nuovo, quando l’atteggiamento di tale ambiente gli diviene chiaro per via di nuove conseguenze».[23]

Su questo fronte, però, si apre il discorso riguardo alla santità canonizzabile, o canonizzata. Che R. Guardini guardi anche ad essa è confortato da una sua affermazione, che mostra pure come per lui il santo nel quale la in-esistenza si è mostrata nella forma più alta è Francesco d’Assisi. Scrive: «[I santi] esprimono Cristo. Traducono colui che è il Signore e l’essenza in una particolare possibilità umana della struttura, del livello sociale, del tempo, del bisogno, del compito. Questo lo fanno tutti; Francesco fa di più: egli non traduce, bensì rende nuovamente presente [vergegenwärtig]. Chi giunge a lui deve pensare a Cristo … La sua figura è costruita in modo tale, la sua parola, i suoi gesti, la sua vita intera sono tali da essere concretizzazioni immediate del Vangelo; sequela letterale; imitazione pura dell’esistenza di Gesù senza alcuna attenuazione e reinterpretazione – tanto che è il volto stesso di Cristo a trasparire dal suo, sono i gesti di Cristo a manifestarsi nei suoi. Non so di nessun altro, del quale si possa affermare lo stesso».[24] Questo, però, è un altro argomento e io vi ringrazio per essere stati fino ad ora pazienti e buoni con me.

 

Pontificia Università Lateranense, 14 dicembre 2022

 

Marcello Card. Semeraro

 

__________

[1] Per Weltanschauung («katholische Weltanschauung», visione cattolica del mondo), Guardini intenderà «l’incontro continuo, per così dire metodico, tra la fede e il mondo. E non solo il mondo in generale, come fa anche la teologia quando si pone diversi problemi, ma in concreto, come nel caso della cultura e delle sue manifestazioni, della storia, della vita sociale…»: cf. S. Zucal, «Postfazione. Visione cattolica nel suo tempo», in R. Guardini, La visione cattolica del mondo a cura di S. Zucal, Morcelliana, Brescia 2022, p. 68. Il testo, pubblicato nel 1923, potrebbe intendersi come il «manifesto programmatico» di R. Guardini.

[2] «Figure sante», in R. Guardini, I santi e san Francesco, Morcelliana, Brescia 2018, p. 33.

[3] S. Ignazio di Loyola, Autobiografia, commento di M. Costa, Ed. CVX/CIS, Roma 1994, p. 56. Il riferimento è a Autobiografia, n. 8.

[4] Cf. A. Pitta, Lettera ai Galati. Introduzione, versione e commento, EDB, Bologna p. 273.

[5] FF, 1402.

[6] R. Guardini, «Figure sante» cit., p. 37.

[7] Per quanto segue, cf. A. Vanhoye, Lettera ai Galati. Nuova versione, introduzione e commento, Paoline, Milano 20226, pp. 75-77.

[8] Cf. Rm 16,26; cf. Rm 1,5; 2Cor 10,5-6; Dei Verbum, 6.

[9] R. Guardini, Antropologia cristiana, Morcelliana, Brescia 2013, p. 81.

[10] Guardini, Antropologia cristiana, p. 87.

[11] Per la sua stesura, cf. H.-B. Gerl-Falkovitz, Romano Guardini. La vita e l’opera, Morcelliana, Brescia 1988, pp. 369-374. Per quel che segue, cf. R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Vita e Pensiero, Milano 19777, pp. 559-567.

[12] Cf. R. Guardini, L’essenza del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1980. p. 54-55.

[13] Guardini, Antropologia cristiana, pp. 58-59. Per l’ecclesiologia di Guardini, cf. A. Atakpa, Chiesa e persona. Romano Guardini precursore del Concilio Vaticano II, il pozzo di giacobbe, Trapani 2022.

[14] R. Guardini, Mondo e persona. Saggio di antropologia cristiana, a cura di S. Zucal, Morcelliana, Brescia 20144, p. 196; per l’«io cristiano» descritto con la categoria della in-esistenza di Cristo, cf. le pp. 176-178.

[15] R. Guardini, Gesù Cristo. La sua figura negli scritti di Paolo e di Giovanni, Vita e Pensiero, Milano 1987, pp. 107-125.

[16] R. Guardini, L’esistenza del cristiano, Vita e Pensiero, Milano, 1985. Per il tema, le p. 326.

[17] J. De Vaux, v. «Santo» in X. Léon-Dufour (dir.), Dizionario di Teologia Biblica, Marietti, Casale Monferrato 1971, c. 1149.

[18] R. Guardini, «I santi», in Guardini, I santi e san Francesco, p. 104.

[19] Vanhoye, Lettera ai Galati, p. 75.

[20] Per il valore di questa con-crocifissione, cf. Pitta, Lettera ai Galati, p. 152 e n.355.

[21] Cf. E. Ancilli, v. «Santità cristiana», in Id. (a cura di), Dizionario Enciclopedico di Spiritualità/3, Città Nuova, Roma 1990, pp. 2242-2243.

[22] Cf. Guardini, L’essenza del cristianesimo, pp. 54-58.

[23] Guardini, «I santi» cit., p. 113.

[24] R. Guardini, «I santi e san Francesco», in Id. I santi e san Francesco cit., pp. 92-93.