Praedicate Evangelium

 

Intervento nella conferenza stampa di presentazione della

Costituzione Apostolica “Praedicate Evangelium”

sulla Curia Romana e il suo servizio alla Chiesa nel mondo

 

 

Con la pubblicazione della Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium giunge a conclusione un cammino iniziato nove anni or sono; da quando, cioè, insieme con l’annuncio della costituzione di un Consiglio di Cardinali per consigliarlo nel governo della Chiesa universale, Papa Francesco annunciò pure l’avvio di una riforma della Curia Romana (13 aprile 2013). Le fasi e i momenti principali di questo processo e le sue progressive attuazioni saranno fra poco richiamati da S.E. Mons. Marco Mellino, segretario del Consiglio di Cardinali.[1]

 

 

La scelta di una prospettiva

 

Uno dei primi compiti del Consiglio di Cardinali fu senz’altro la scelta di una prospettiva per la nuova costituzione apostolica, alla maniera di quanto fu fatto per le due precedenti riforme curiali: la costituzione Regimini Ecclesiae universae (1967) di san Paolo VI e la costituzione apostolica Pastor Bonus (1988) di san Giovanni Paolo II.[2]

La riforma di san Paolo VI ebbe come principale finalità la corrispondenza alle istanze del Concilio Vaticano II sicché, nel disporre e realizzare la riforma della Curia, egli si riferì esplicitamente ai desideri espressi dai Padri Conciliari.[3] Si guarderà, in proposito, in modo particolare al decreto Christus Dominus, dove si trovano importanti elementi di principio, che tornano senz’altro – esplicitamente e implicitamente – nelle formulazioni sia di Pastor Bonus, sia di Predicate Evangelium.

I n breve, per il decreto conciliare si trattava non solo della natura della Curia romana, ma anche e soprattutto della necessità di riorganizzarla «in modo nuovo e conforme alle necessità dei tempi, dei paesi e dei riti, specialmente per quanto riguarda il loro numero, il loro nome, le loro competenze, i loro metodi di lavoro ed il coordinamento delle loro attività» (n. 9).

Quanto alla sua natura della Curia romana, il Concilio Vaticano II ricorda

a) che essa è una realtà di servizio; è uno strumento che collabora e aiuta il Papa nel governo di tutta la Chiesa. Scrive il Concilio che «nell’esercizio della sua suprema, piena ed immediata potestà sopra tutta la Chiesa, il romano Pontefice si avvale (utitur) dei dicasteri della curia romana» (Christus Dominus, 9). Si tratta di un principio fondamentale, su cui tornerò.

b) Di conseguenza, i vari dicasteri «compiono il loro lavoro nel suo nome e nella sua autorità (nomine et auctoritate illius), a vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri pastori (in bonum Ecclesiarum et in servitium Sacrorum Pastorum)» (Ibid.).

c) Poco più avanti, al n. 10 Christus Dominus ribadisce che tutti i dicasteri «sono stati costituiti per il bene della Chiesa universale» deducendo da ciò l’opportunità che la Curia romana presenti «un carattere veramente universale».

Quanto alla riforma attuata da san Giovanni Paolo II, anche il testo di Pastor Bonus ricorda i principi presenti in Christus Dominus, sicché la Curia romana

a) «in tanto vive e opera, in quanto è in relazione col ministero petrino e su di esso si fonda» (n. 7). Pertanto, «la caratteristica principale di tutti e di ciascun dicastero della Curia romana è quella ministeriale» (Ibid.).

b) Anche in questo caso si precisa: «Poiché … il ministero di Pietro, come «servo dei servi di Dio», viene esercitato nei confronti sia della Chiesa universale sia del Collegio dei Vescovi della Chiesa universale, anche la Curia romana, che serve il successore di Pietro, appartiene al servizio della Chiesa universale e dei Vescovi» (Ibid.)

Nella sua ampia Introduzione, poi, la costituzione Pastor bonus afferma subito la sua prospettiva teologica: la communio, una scelta alle origini e alla cui base ci fu senz’altro l’assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi convocata dallo stesso Giovanni Paolo II a venti anni dalla chiusura del Concilio (1985) nella cui relazione finale si legge l’affermazione perentoria: «L’ecclesiologia di comunione è l’idea centrale e fondamentale nei documenti del Concilio».

La riforma curiale ora promulgata da Francesco ha senz’altro analogie con queste precedenti riforme. Alla maniera di Paolo VI, infatti, che per avviare la riforma della Curia romana si richiamava alle indicazioni in precedenza giunte del Concilio, anche Francesco farà riferimento ad una indicazione precedente: «un suggerimento emerso nel corso delle congregazioni generali precedenti il Conclave».[4] Come, poi, accaduto per la redazione di Pastor Bonus, anche nel processo di redazione della nuova costituzione si cercò un principio ispiratore ecclesiologico e lo si individuò nella missionarietà. Le ragioni non sono difficili da riconoscere.

Tutti sappiamo, infatti, che proprio nella fase iniziale del suo servizio sulla Cattedra di Pietro, Francesco ha pubblicato la sua prima esortazione apostolica: la Evangelii gaudium (24 novembre 2013) dando ad essa esplicitamente «un significato programmatico» (n. 25). Si tratta, oltretutto, di un documento indispensabile per comprendere il processo di riforma inteso e avviato da Papa Francesco. Fu proprio riflettendo su quel testo che in sede di Consiglio di Cardinali si comprese presto che se riforma della Curia romana doveva esserci, essa doveva inserirsi in un ben più ampio progetto di «riforma». Con quell’esortazione apostolica, infatti, il Papa aveva consegnato alla Chiesa la sua speranza che tutte le comunità si adoperino fattivamente «per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno», perché «ora non ci serve una “semplice amministrazione”» (Ibid.). La stessa ben nota espressione: «trasformazione missionaria della Chiesa» con cui esordisce Evangelii gaudium, è da leggersi in prospettiva di «riforma».

Per comprendere adeguatamente cosa intende Francesco, sarà utile riferirsi a quanto egli stesso aveva detto il 28 luglio 2013 durante il viaggio a Rio de Janeiro per la 28° GMG. Incontrando i vescovi responsabili del CELAM il Papa aveva distinto due dimensioni della missione: una programmatica e l’altra paradigmatica. Disse che «la missione programmatica, come indica il suo nome, consiste nella realizzazione di atti di indole missionaria. La missione paradigmatica, invece, implica il porre in chiave missionaria le attività abituali delle Chiese particolari». La distinzione è molto importante ed è implicita in Evangelii gaudium dove Francesco scrive di sognare «una «scelta missionaria (= missione paradigmatica) capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale (= missione programmatica) diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (n. 27). Altrimenti detto, i cambiamenti strutturali devono essere il frutto di una scelta pastorale e questo vale, ovviamente, anche per la Curia romana.

Il titolo della costituzione apostolica risponde, dunque, a questa ispirazione. Esso era già in implicitamente reso noto nel comunicato della Sala Stampa della Santa Sede del 25 aprile 2018, dove si legge che tra i vari temi che andranno a formare il nuovo documento c’è da tener conto del fatto che «l’annuncio del Vangelo e lo spirito missionario» saranno la «prospettiva che caratterizza l’attività di tutta la Curia». Quanto, poi, all’espressione Praedicate Evangelium (che intenzionalmente vuole collegarsi a quella di Evangelii gaudium) è tratta, com’è facile vedere, da Mc 16,15: un mandato che, come aveva scritto san Giovanni Paolo II in Redemptoris missio, costituisce «il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all’intera umanità nel mondo odierno» (n. 2).

Ciò che da tale scelta di prospettiva ne è derivato quanto all’organizzazione della Curia romana sarà richiamato dal Segretario del Consiglio di Cardinali nell’intervento che seguirà a questo mio. Vale, in ogni caso, ciò che il Preambolo della Costituzione, riprendendo espressioni da Christideles laici di Giovanni Paolo II, ricorda al n. 4: «Per la riforma della Curia romana è importante avere presente e valorizzare anche un altro aspetto del mistero della Chiesa: in essa la missione è talmente congiunta alla comunione da poter dire che scopo della missione è proprio quello “di far conoscere e di far vivere a tutti la «nuova» comunione che nel Figlio di Dio fatto uomo è entrata nella storia del mondo”».

Poco più avanti nello stesso numero, collegandosi al tema della «sinodalità» introdotto da Francesco nel Discorso del 17 ottobre 2015 in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, il Preambolo scrive: «Questa vita di comunione dona alla Chiesa il volto della sinodalità … Questa sinodalità della Chiesa, poi, la si intenderà come il “camminare insieme del Gregge di Dio sui sentieri della storia incontro a Cristo Signore”. Si tratta della missione della Chiesa, di quella comunione che è per la missione ed è essa stessa missionaria» (n. 5).

Su come la Costituzione apostolica abbia tradotto nei fatti tale affermazione lo dirà nel suo intervento il Segretario del Consiglio di Cardinali. Quanto a me ricorderò soltanto che la proposta di assumere la sinodalità tra i principi ispiratori nel lavoro di riforma della Curia romana giunse insistente dai Capi Dicastero nella riunione avuta col Santo Padre il 24 novembre 2014. In quel contesto di disse che la sinodalità tra i Dicasteri è da ritenersi assai importante e dovrebbe svilupparsi nella Curia come una vera e propria cultura, aiutata da un sistema di comunicazione che consenta di sapere cosa fanno gli altri per evitare duplicati di attività e programmi.

 

 

Alcuni principi-guida per la riforma della Curia romana

 

Il n. 3 del Preambolo avverte che pure la riforma della Curia romana deve essere intesa nel contesto della missionarietà della Chiesa e, dopo avere accennato alle diverse riforme succedutesi dal XVI secolo ad oggi, conclude affermando che «questa nuova Costituzione apostolica si propone di meglio armonizzare l’esercizio odierno del servizio della Curia col cammino di evangelizzazione, che la Chiesa, soprattutto in questa stagione, sta vivendo».

C’è da dire che la decisione di Francesco di avviare un processo di riforma della Curia romana ha avuto come effetto quello di risvegliare l’attenzione nei riguardi dell’idea stessa di «riforma»: un tema e, soprattutto, un termine per riconciliarsi col quale la Chiesa cattolica ha dovuto attendere l’evento del Vaticano II. Citerò solo il decreto Unitatis redintegratio, dove al n. 6 si legge: «La Chiesa peregrinante è chiamata da Cristo a [questa] continua riforma di cui, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno».

Non è certo il momento e il luogo per sviluppare un tema così impegnativo. A parte, tuttavia, la ripresa dell’antico assioma sull’ecclesia semper reformanda – e, magari, di una Curia semper reformanda – si è ormai convinti che «la riforma è una dimensione costitutiva della chiesa, di ogni chiesa, proprio perché si tratta della Chiesa di Cristo, il quale è la “forma” e il “formatore” della chiesa, in un dinamismo spirituale che fa di lui un perenne ri-formatore della sua sposa».[5] In breve si potrebbe dire che la riforma è un’istanza fondamentalmente spirituale e costitutiva della Chiesa, che s’esprime anche in riforme.[6] Anche per Francesco: quando parla della «riforma della Curia romana», egli non lo fa mai a prescindere dalla reformatio Ecclesiae. È ad essa, anzi, che egli guarda principalmente e questo mi pare importante al fine di (per usare una sua espressione) «recorrer parcelas pero avizorando pampas, mirar fragmentos pero contemplando formas».[7]

Quanto ad essa, dunque, Papa Francesco ha costantemente accompagnato il lavoro del Consiglio di Cardinali non soltanto con la sua presenza a tutte le sessioni di lavoro, ma pure guidandone l’opera specialmente mediante i suoi interventi – ben conosciuti – al tradizionale incontro pre-natalizio con la Curia romana.

Nel discorso del 22 dicembre 2016, in particolare, egli richiamò ben dodici criteri-guida della riforma (individualità; pastoralità; missionarietà; razionalità; funzionalità; modernità; sobrietà; sussidiarietà; sinodalità; cattolicità; professionalità; gradualità). Mi soffermo su alcuni.

Il principio della sussidiarietà fu enunciato per la prima volta nella Dottrina Sociale della Chiesa al n. 80 della Quadragesimo anno e fu da Pio XII riconosciuto valido anche per la vita sociale della Chiesa. Ogni attività sociale è per natura sua sussidiaria; essa deve servire di sostegno per i membri del corpo sociale, e non mai distruggerli e assorbirli: così la formulava Pio XII nell’allocuzione ai nuovi cardinali del 20 febbraio 1946, precisando tuttavia che ciò doveva intendersi «senza pregiudizio della struttura gerarchica» della Chiesa.[8] Un’allusione a questo principio si trova nell’art. 3 §3 dello «Statuto» del nuovo Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale«, dove si legge: «Il Dicastero si adopera perché nelle Chiese locali sia offerta un’efficace e appropriata assistenza materiale e spirituale – se necessario anche mediante opportune strutture pastorali – agli ammalati, ai profughi, agli esuli, ai migranti, agli apolidi, ai circensi, ai nomadi e agli itineranti».

A questo principio è collegato quello della decentralizzazione. In considerazione del fatto che il Successore di Pietro è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli (LG 23; cf. n. 18) la Curia romana è non soltanto strumento al servizio del Romano Pontefice, ma anche strumento di servizio per le Chiese particolari. Il n. 8 del Preambolo lo mette in evidenza: «La Curia romana è al servizio del Papa, il quale, in quanto successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli. In forza di tale legame (la sottolineatura è mia) l’opera della Curia romana è pure in rapporto organico con il Collegio dei Vescovi e con i singoli Vescovi, e anche con le Conferenze episcopali e le loro Unioni regionali e continentali, e le Strutture gerarchiche orientali, che sono di grande utilità pastorale ed esprimono la comunione affettiva ed effettiva tra i Vescovi».

Al concetto di decentralizzazione Francesco fece esplicito ricorso in Evangelii gaudium n. 16, dove si legge: «Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”». Poco più avanti, dopo avere ricordato la funzione delle Conferenze Episcopali, Francesco aggiunse questa considerazione: «Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria» (n. 32). Il termine decentralizzazione lo riprese poi nel discorso del 17 ottobre 2015, commemorativo del 50mo del Sinodo dei Vescovi.

Tra i criteri-guida per la riforma della Curia romana, nel discorso del 22 dicembre 2016 Francesco inserì pure quello della gradualità. Spiegava: «la gradualità è il frutto dell’indispensabile discernimento che implica processo storico, scansione di tempi e di tappe, verifica, correzioni, sperimentazione, approvazioni ad experimentum. Dunque, in questi casi non si tratta di indecisione ma della flessibilità necessaria per poter raggiungere una vera riforma».

In questa ottica si leggeranno le «anticipazioni» che in questi anni – sino a tempi recenti con la lettera apostolica motu proprio del 14 febbraio 2022 con la quale Francesco ha modificato la struttura interna della Congregazione per la Dottrina della Fede – sono state attuate in vista della attuale riorganizzazione generale. Questo modo di procedere non è per nulla nuovo; si dirà, anzi, che è consueto in simili questioni.

Si ricorderà, difatti, che anche con Paolo VI ci furono delle innovazioni anticipatrici della costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universae: così, col motu proprio Pastorale munus del 30 nov. 1963, si concedeva ai Vescovi residenziali 40 facoltà e 8 privilegi; ancora, col motu proprio Integrae servandae del 7 dic. 1965 sempre Paolo VI cambiava il nome e la struttura della Sacra Congregazione del Sant’Offizio. Di nuovo, col motu proprio De Episcoporum munerìbus del 15 giu. 1966 si diede esecuzione ad alcuni principi conciliari sui poteri dei Vescovi (cf. LG 27; ChD 8a) e ciò non solo allargando le già ampie facoltà del Pastorale munus, ma pure introducendo nell’ordinamento canonico la norma dell’elenco delle riserve pontificie in sostituzione di quella sull’elenco delle facoltà ai Vescovi. Non basta ancora, perché col motu proprio Ecclesiae sanctae del 6 ag. 1966 sempre Paolo VI promulgava le norme che davano esecuzione ad alcuni decreti del Concilio, aumentando ancora i poteri dei Vescovi e privando di conseguenza quasi integralmente di competenza la Dataria apostolica, che sarà poi ufficialmente soppressa. Di solo una settimana prima della promulgazione della Regimini Ecclesiae universae c’è poi il motu proprio Pro comperto sane (6 ag. 1967), documento fondamentale di cui dirò fra poco.

Non è da escludere che questo criterio (importante per conservare alla Curia romana il suo carattere di «servizio») possa rimanere pure a promulgazione avvenuta! Anche questo, d’altra parte, è già accaduto con le precedenti riforme. Paolo VI, ad esempio, dopo solo due anni dalla Regimini Ecclesiae universae procedette allo sdoppiamento dell’antica Congregazione dei Riti dando vita alle due nuove Congregazioni delle Cause dei Santi e del Culto divino;[9] quest’ultima, poi, cessò ben presto di funzionare autonomamente essendo unita, nel 1975 alla Congregazione della Disciplina dei Sacramenti per formare con essa un unico dicastero sotto la denominazione congiunta di Congregazione per il culto divino e la Disciplina dei Sacramenti. Ancora nel 1973 Paolo VI decretò la soppressione dell’antica Cancelleria Apostolica, portando le sue ormai residue competenze nella Segreteria di Stato.

Anche Giovanni Paolo II dopo il riordinamento della Curia romana operato con la Pastor bonus apportò ulteriori modifiche: ad esempio con la costituzione nel 1993 di un nuovo dicastero risultante dalla fusione in un unico organismo dei due Pontifici Consigli della Cultura e per il Dialogo con i non credenti. Contestualmente Giovanni Paolo II decretò lo sganciamento dalla Congregazione per il Clero della Pontificia Commissione per la Conservazione del Patrimonio e Storico della Chiesa conferendole assoluta autonomia sotto la diversa denominazione di Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa.

Il senso e la ragione delle forme d’intervento che ho appena esemplificato, potrebbero bene illustrarsi alla luce di ciò che Francesco ha scritto nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium circa il principio (come egli lo enuncia) che «il tempo è superiore allo spazio». Questo principio – spiegava il Papa – permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone… Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (n. 223). A questo principio, il Papa, nel tempo intercorso fra l’inizio del lavoro di riforma della Curia romana ad oggi, è stato sempre fedele.

Un altro importante principio seguito nel processo di riforma della Curia romana è stato quello della tradizione, ch’è il principio della fedeltà alla storia e della continuità col passato. È proprio secondo questo principio che sarebbe stato fuorviante (oltre che fantasioso) pensare a una riforma tale da stravolgere l’intero impianto curiale. Nella Curia, difatti, ci sono Dicasteri che riguardano azioni fondamentali dell’agire ecclesiale, quali l’annuncio del Vangelo, la tutela della fede e la custodia dei costumi, la vita liturgica, il servizio della communio e della carità… Altri Dicasteri riguardano poi le persone e gli stati di vita nella Chiesa. Tutto ciò deve necessariamente essere conservato anche se, come per ogni struttura di servizio, ha sempre bisogno di una permanente sorta di «manutenzione».

Per altro verso e quasi a suo equilibrio si penserà al principio dell’innovazione. All’interno di questo criterio di innovazione si colloca pure la scelta e la nomina a Prefetto del Dicastero per la comunicazione di un fedele laico: decisione non improvvisata da parte del Papa; anzi appositamente studiata con il contributo di autorità in materia. Anche in questo caso, però, la scelta di Francesco ha un precedente significativo.

Prima ho citato san Paolo VI ed ora penso al totale capovolgimento che con la sua riforma curiale ebbe la Segreteria di Stato: dall’ultimo posto occupato tra i vari organismi curiali si trovò all’improvviso collocata in testa a tutti i dicasteri: non si trattò solto di una trasformazione strutturale giacché diveniva «una specie di Segreteria generale della Chiesa».[10] Altrettanto, se non più rilevante, sarà il già ricordato motu proprio Pro comperto sane col quale Paolo VI supererà il principio seguito ininterrottamente dal tempo della riforma di Sisto V (1588) secondo cui i dicasteri romani erano, nella loro composizione, legati al collegio cardinalizio e funzionavano quindi unicamente come congregationes cardinalium. Da qui la denominazione di «congregazione» finora riservato ad alcuni dicasteri della Curia romana. Col suo motu proprio Paolo VI superava tale principio stabilendo la cooptazione di vescovi diocesani come membri delle Congregazioni della Curia romana. Il cambiamento era stato auspicato dal Concilio;[11] con la sua attuazione, Paolo VI segnò un cambiamento d’epoca.

Si potrebbe, non senza ragione, ritenere di analoga portata la scelta fatta da Francesco di porre fedeli laici alla guida di un Dicastero.[12] Anche questa scelta fu, seppure timidamente, auspicata dal Vaticano II[13] sicché, pensando dopo più di cinquant’anni a questa attuazione delle istanze del Vaticano II, mi tornano alla memoria le parole di Francesco nel dialogo privato che ebbe il 23 settembre 2018 coi gesuiti dei Paesi baltici. A un giovane gesuita lituano che gli aveva domandato come avrebbero potuto aiutarlo, il Papa rispose: «Sento che il Signore vuole che il Concilio si faccia strada nella Chiesa. Gli storici dicono che perché un Concilio sia applicato ci vogliono 100 anni. Siamo a metà strada. Dunque, se vuoi aiutarmi, agisci in modo da portare avanti il Concilio nella Chiesa. E aiutami con la tua preghiera. Ho bisogno di tanta preghiera».[14]

Il Preambolo, dunque, al n. 10 asserisce: «Il Papa, i Vescovi e gli altri ministri ordinati non sono gli unici evangelizzatori nella Chiesa… Ogni cristiano, in virtù del Battesimo, è un discepolo missionario “nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù”. Non si può non tenerne conto nell’aggiornamento della Curia, la cui riforma, pertanto, deve prevedere il coinvolgimento di laiche e laici, anche in ruoli di governo e di responsabilità».

Questo è ribadito dal n. 5 dei Principi e criteri per il servizio della Curia romana sull’«Indole vicaria della Curia romana». Qui si stabilisce che «qualunque fedele può presiedere un Dicastero o un Organismo, attesa la peculiare competenza, potestà di governo e funzione di quest’ultimi». Alla base di tale scelta c’è il fatto che «ogni Istituzione curiale compie la propria missione in virtù della potestà ricevuta dal Romano Pontefice in nome del quale opera con potestà vicaria nell’esercizio del suo munus primaziale».[15]

Tutto si innesta, evidentemente, sulla teologia del laicato promossa dal Vaticano II e approfondita e sviluppata nei decenni successivi.[16] Di ciò tratterà fra poco nel suo intervento il p. G. Ghirlanda S. J. In fin dei conti, la scelta di abbandonare il termine «Congregazione» potrebbe essere considerato anche alla luce di quanto è stato appena detto. Questa terminologia, infatti, che risale alla Immensa aeterni Dei (1588) di Sisto V, supponeva che titolari di presidenza delle «Congregazioni» fossero unicamente i Cardinali. Si parlava, quindi di Sacrae Congregationes Cardinalium. Ora non è più così. Il termine Dicastero lascia intendere che in linea di principio, secondo la natura del Dicastero, possono svolgere tale ufficio tutti i battezzati: chierici, persone di vita consacrata, fedeli laici.

Quanto al termine «dicastero», nelle precedenti legislazioni ricorreva con grande frequenza, ma sempre con valore sintetico, generale. La Regimini Ecclesiae Universae spiegava, ad esempio, che con esso si annoveravano «le Sacre Congregazioni, i Tribunali e gli Uffici, con l’aggiunta dei Segretariati, istituiti con valida e solida motivazione»; in Pastor Bonus si legge che «col nome di dicasteri si intendono: la Segreteria di Stato, le Congregazioni i Tribunali, i Consigli e gli Uffici, cioè la Camera apostolica, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede apostolica, la Prefettura degli affari economici della Santa Sede».[17]

In Praedicate Evangelium «Dicastero» non è più un termine generico, ma designa unicamente i sedici organismi chiamati con tale nome, le cui competenze si ricavano da quanto è spiegato nella medesima costituzione apostolica.

Un ulteriore principio seguito dal Consiglio di Cardinali per la riforma della Curia romana è quello della concentrazione su quanto è davvero necessario per la Chiesa universale. È un principio che potrebbe anche essere chiamato «di semplificazione» ed è quello che ha già suggerito l’accorpamento in alcuni Dicasteri di precedenti Pontifici Consigli e anche alcune altre realtà curiali.

 

 

Il preambolo della Costituzione

 

Prima di concludere il mio intervento, desidero proporre un rapido sguardo alla struttura del Preambolo, termine che sarà inteso nel senso che aveva nella latinità ed anzi, aggiungerei, quale «chiave di lettura». Esso si compone di dodici numeri, il primo dei quali dà ragione della scelta del titolo, esplicitandolo subito nei due richiami alla conversione missionaria della Chiesa e alla Chiesa quale mistero di comunione (cf. nn. 2-4).

I nn. 5-9 mettono a fuoco il servizio specifico della Curia romana (cf. n. 8); tema questo, posto per un aspetto in riferimento al servizio del Primato e del Collegio dei vescovi (cf. nn. 5-6) e peraltro ai temi della communio episcoporum e delle Conferenze episcopali (cf. nn. 7 e 9).

La parte conclusiva (i nn. 11-12) riguarda il significato della riforma della Curia romana. Ne leggo pochi passaggi iniziali: «La riforma della Curia romana sarà reale e possibile se germoglierà da una riforma interiore, con la quale facciamo nostro «il paradigma della spiritualità del Concilio», espressa dall’«antica storia del Buon Samaritano» …». Sono qui riprese alcune parole di san Paolo VI in uno sguardo retrospettivo verso il Concilio Vaticano II.[18] Nella Praedicate Evangelium di Francesco ci rimandano quella sua ispirazione ignaziana, che egli stesso dichiarò nel suo già citato discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2016. Qui il Papa riprese l’adagio deformata reformare, reformata conformare, conformata confirmare e confirmata transformare.[19]

Si tratta di passaggi progressivi che richiamano il percorso delle quattro settimane degli Esercizi Spirituali, dove la prima corrisponde alla cosiddetta «via purgativa» (deformata reformare), la seconda a quella chiamata «via illuminativa» (reformata conformare), la terza e quarta settimana corrispondono alla «via unitiva» (conformata confirmare e confirmata transformare). In questi passaggi la parola «forma», con le diverse accezioni denotate dai diversi prefissi, ha il significato di un lasciarsi plasmare da Dio, come in principio egli fece con Adamo.[20]

La prima eco, dunque, che la parola «riforma» suscita nell’animo di Francesco è una riforma della propria vita. Tutto questo si collega armonicamente con ciò che egli stesso intende quando parla di Ecclesia semper reformanda. Così il 10 novembre 2015 a Firenze, nel V Convegno nazionale della Chiesa italiana: «La riforma della Chiesa … non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività».

Se si comprende questa concezione della riforma della Curia romana non sembreranno fuori di luogo l’inserimento, fra i Principi e criteri per il servizio della Curia romana un numero dedicato alla spiritualità (cf. n. 6). Per Francesco, infatti, «riforma» è molto più di un qualunque mutamento strutturale. Si tratta, invece, di operare in modo che la Chiesa, pur nello scorrere del tempo e nei mutamenti della storia conservi ossia la sua trasparenza (sacramentalità) nei riguardi del progetto di Dio che la fa esistere e in essa dimora.

Questo vale anche per la Curia. Ciò che, insomma, per essa si chiama «riforma» è intimamente connesso al volto di Chiesa in uscita missionaria, come si legge in Evangelii gaudium: «La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia» (n. 27).

 

Vaticano, Sala Stampa della Santa Sede, 21 marzo 2022

 

Marcello Card. Semeraro

 

 

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[1] Per alcuni miei precedenti interventi sul tema della riforma della Curia romana, cf. M. Semeraro, La riforma di Papa Francesco, ne «Il Regno - Attualità» 14/2016, 433-441; In atto. Riforma della Curia, ne «Il Regno-attualità 2/2018», 1-7; Papa Francisco, La reforma de la Curia Romana. Ediciόn preparada y comentada por Mons. Marcello Semeraro, LEV-Romana, Città del Vaticano-Madrid, 2017.

[2] Per una storia di queste riforme cf. N. Del Re, La Curia romana, Lineamenti storico-giuridici, LEV, Città del Vaticano 19984, 53-58.

[3] Di grande utilità sarebbe in questo caso la rilettura del Discorso di Paolo VI alla Curia romana del 21 settembre 1963. Il termine «riforma» ricorre più volte. Riguardo alla Curia romana sono significative due affermazioni: «Che debbano essere introdotte nella Curia Romana alcune riforme non è solo facile prevedere, ma è bene desiderare», è la prima; l’altra affermazione riguarda un legame tra la Ecclesia semper reformanda e la Curia semper reformanda. L’affermazione di san Paolo VI è questa è la seguente: «il proposito di ammodernamento nelle strutture giuridiche e di approfondimento nella coscienza spirituale non solo non trova resistenza per quanto riguarda il centro della Chiesa, la Curia Romana, ma trova la Curia stessa all’avanguardia di quella perenne riforma, di cui la Chiesa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha perpetuo bisogno». Il rapporto tra riforma della Chiesa e riforma della Curia si ritrova nella scelta di Francesco: cf. Principi e criteri per il servizio della Curia romana, n. 12.

[4] Cf. Comunicato della Segreteria di Stato del 13 aprile 2013: «Il Santo Padre Francesco, riprendendo un suggerimento emerso nel corso delle Congregazioni Generali precedenti il Conclave, ha costituito un gruppo di Cardinali per consigliarLo nel governo della Chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della Costituzione Apostolica Pastor Bonus sulla Curia Romana».

[5] S. Xeres, La riforma come dimensione essenziale delle Chiesa. Panorama storico, in M. Wirz (a cura di), «Riformare insieme la Chiesa», Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano 2016, 59. Sul tema nel magistero di Francesco, cf. R. Repole, Il sogno di una Chiesa evangelica. L’ecclesiologia di papa Francesco, LEV, Città del Vaticano 2017; M. Semeraro, La riforma della Chiesa secondo Papa Francesco, in R. Luciani, M. Teresa Compte (coords) «En camino hacia una Iglesia sinodal. Da Pablo VI a Francisco» Fundacion Pablo VI, PPC, Boadilla del Monte (Madrid), 2020, 11-22. Più in generale, cf. A. Spadaro, C. M. Galli (edd.), La riforma e le riforme nella Chiesa, Queriniana, Brescia 2016.

[6] Cf. L. Manicardi, «Riformare: elementi spirituali», in Wirz, Riformare insieme la Chiesa cit., 40.

[7] J. M. Bergoglio S.J., Meditaciones para religiosos, ed. Diego de Torres, San Miguel-Buenos Aires [1982], 11 (rist. ed. Mensajero, Bilbao 2014, 17): tr. it. Nel cuore di ogni padre. Alle radici della mia spiritualità, Rizzoli, Milano 2014, 7: «percorrere cortile scorgendo praterie, guardare frammenti, ma contemplare forme».

[8] Si terrà, dunque, conto che la Chiesa pur essendo una realtà misterica e, al tempo stesso, una realtà storico-sociale: «Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità, quale organismo visibile, attraverso il quale diffonde per tutti la verità e la grazia. Ma la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino» (LG 8).

[9] Cf. la costituzione Sacra Rituum Congregatio dell’8 maggio 1969.

[10] Del Re, La Curia romana, 75.

[11] «Viene altresì auspicato che tra i membri dei dicasteri siano annoverati anche alcuni vescovi, specialmente diocesani, che possano in modo più compiuto rappresentare al sommo Pontefice la mentalità, i desideri e le necessità di tutte le Chiese»: Christus Dominus, n. 10.

[12] Attualmente è il caso soltanto del Dicastero per la Comunicazione.

[13] «i Padri conciliari stimano che sia molto utile che i sacri dicasteri chiedano, più che in passato, il parere di laici che si distinguano per virtù, dottrina ed esperienza, affinché anch’essi svolgano nella vita della Chiesa il ruolo che loro conviene»: Christus Dominus, n. 10.

[14] Papa Francesco, «Credo che il Signore stia chiedendo un cambiamento nella Chiesa». Dialogo privato con i gesuiti dei Paesi baltici, ne «La Civiltà Cattolica» 2018, IV, 111.

[15] Cf. pure le Norme generali, art. 15.

[16] Su questo tema cf. V. Mignozzi, Esiste un’autorità dei christiideles laici nella Chiesa? Linee interpretative (sostenibili) in prospettiva ecclesiologica, in «Apulia Theologica» gennaio-giugno 2018, 151-172.

[17] Norme generali, art. 2 §1. L’art. 2 precisava che «i dicasteri sono giuridicamente pari fra di loro». L’art. 1 definiva la Curia romana come «l’insieme dei dicasteri e degli organismi che coadiuvano il romano Pontefice nell’esercizio del suo supremo ufficio pastorale per il bene e il servizio della Chiesa universale e delle Chiese particolari, esercizio col quale si rafforzano l’unità di fede e la comunione del Popolo di Dio e si promuove la missione propria della Chiesa nel mondo». In Praedicate Evangelium l’art. 12 §1 delle Norme generali recita: «La Curia romana è composta dalla Segreteria di Stato, dai Dicasteri e dagli Organismi, tutti giuridicamente pari tra loro».

[18] Cf. Paolo VI, Allocuzione per l’ultima sessione pubblica del Concilio Ecumenico Vaticano II (7 dicembre 1965).

[19] È possibile che Bergoglio nel riferire l’adagio si ispiri a G. Fessard, La dialectique des exercices spirituels de S. Ignace de Loyola, Aubier, Paris, 1966 (ed. spagnola: La dialéctica de los ejercicios espirituales de San Ignacio de Loyola, Mensajero–Sal Terrae, Bilbao–Santander 2010, 52–53). Per questo cf. D. A. Lugo S. J., En camino hacia la libertad: el fin de los Ejercicios Espirituales y la gracia de Dios: tesi discussa alla Universidad Pontificia Comillas, Madrid 2020; cf pure M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book, Milano 2017, 19. 99-103; S. Madrigal Terrazas S. I., Maestri spirituali di Papa Francesco. Hugo Rahner, Miguel Ángel Fiorito, Gaston Fessard, ne «La Civiltà Cattolica» 2022, I, 590-604.

[20] Cf. Antonio Spadaro S. J, «La riforma secondo Francesco. Le radici ignaziane», ne La Civiltà Cattolica 2015/4, 114-131 (quad. 3968 – 24 ottobre 2015).