Prefazione a T. BELLO – G. PICCINNI, Anticorpi di pace. Pagine inedite e ritrovate

 

Prefazione a

Tonino Bello

Giancarlo Piccinni

Anticorpi di pace

Pagine inedite e ritrovate

San Paolo, Cinisello Balsamo 2022, 5-12.

 

Tra le prime pagine dell’Introduzione di questo volume leggiamo: «Caro don Tonino: quanto ci manchi!». Ma i santi, possono davvero mancarci? È, don Tonino Bello, davvero un amore perduto? A prima vista si direbbe che il coautore di questa raccolta lo pensi. Ma è davvero così?

Tra i requisiti necessari per l’avvio di una causa di beatificazione e canonizzazione è dovere del vescovo diocesano, o eparchiale verificare se, presso una parte significativa del popolo di Dio, il servo di Dio goda di una autentica e diffusa fama di santità. È un requisito del quale, anche di recente, la Congregazione delle Cause dei Santi ha sottolineato la necessità e l’importanza.

Già Benedetto XIV-Lambertini, che la prassi della Congregazione ritiene e chiama il Magister, richiedeva non l’occasionalità, bensì la continuità di tale buona opinione nel popolo di Dio. È noto che in proposito il Medioevo ha coniato la formula vox populi, vox Dei: proverbio che non ha di certo un valore assoluto, se Alcuino – siamo nell’VIII secolo – avvertiva che non è davvero il caso di seguire sempre quel detto, giacché i tumulti popolari non sono mai lontani dall’insipienza. Il crucifige verso Gesù ebbe certo un carattere popolare, ma non fu di sicuro vox Dei! Il Concilio Vaticano II preferisce, perciò, ricorrere alla categoria del sensus fidei del popolo di Dio (cf. Lumen gentium, n. 12). In questo istinto suscitato dalla fede, i santi sono sempre veduti vicini, presenti!

Il senso della vicinanza del santo, per la fase della vita terrena lo ha richiamato Papa Francesco in quella categoria del «santo della porta accanto» di cui si legge nell’esortazione Gaudete et exsultate: «Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”» (n. 7).

Anche quelli, però, che ci hanno preceduto nell’incontro con Cristo e che noi comunemente chiamiamo «santi», il popolo di Dio li riconosce vicini. Lo ha sottolineato di recente Papa Francesco, nella catechesi del mercoledì 2 febbraio 2022: «I santi sono amici con cui molto spesso intessiamo rapporti di amicizia. Ciò che noi chiamiamo devozione a un santo è in realtà un modo di esprimere l’amore a partire proprio da questo legame che ci unisce… Tutti noi sappiamo che a un amico possiamo rivolgerci sempre, soprattutto quando siamo in difficoltà e abbiamo bisogno di aiuto. E noi abbiamo degli amici in cielo… È sempre grazie alla comunione dei santi che sentiamo vicini a noi i Santi e le Sante che sono nostri patroni, per il nome che portiamo, per esempio, per la Chiesa a cui apparteniamo, per il luogo dove abitiamo, e così via, anche per una devozione personale. Ed è questa la fiducia che deve sempre animarci nel rivolgerci a loro nei momenti decisivi della nostra vita. Non è una cosa magica, non è una superstizione, la devozione ai santi; è semplicemente parlare con un fratello, una sorella che è davanti a Dio, che ha percorso una vita giusta, una vita santa, una vita esemplare, e adesso è davanti a Dio. E io parlo con questo fratello, con questa sorella e chiedo la sua intercessione per i miei bisogni».

Il santo è sempre l’amico che ci vuole, l’amico che, quantunque in modo non sperimentabile coi sensi, ci sta accanto. «La comunione dei santi riguarda anche quelli che hanno concluso il pellegrinaggio terreno e hanno varcato la soglia della morte. Anche loro sono in comunione con noi. In Cristo nessuno può mai veramente separarci da coloro che amiamo perché il legame è un legame esistenziale, un legame forte che è nella nostra stessa natura; cambia solo il modo di essere insieme a ognuno di loro, ma niente e nessuno può rompere questo legame», diceva ancora il Papa. È il senso col quale dobbiamo leggere l’intero libro.

Sorge una domanda: ma è, questo, un libro scritto a quattro mani, come apparirebbe dal frontespizio? So bene che esistono i repertori per pianoforte a quattro mani, ma è questo il caso?

L’opera è distinta esplicitamente in due parti. La prima riporta «pagine inedite e ritrovate» di cui è autore don Tonino Bello; la seconda è una raccolta di interventi di G. Piccinni collocati in momenti diversi: la visita di Papa Francesco ad Alessano (e poi a Molfetta); il tempo di pandemia e il ricordo del fratello di don Tonino Marcello, anch’egli defunto. Sembra qui di sfogliare le pagine di un album di famiglia e questo non è davvero fuor di luogo, giacché ciascuno di noi non può essere interamente compreso astraendo dalla famiglia dove si è nati e cresciuti. E neppure dal legame con la terra se è vero – di sicuro esistenzialmente lo è – che, come intuiva l’antico binomio homo-humus, dalla terra siamo stati tratti.

Se si volesse, però, riprendere l’immagine musicale, allora direi che nella prima parte lo spartito musicale e il pianista è lo stesso don Tonino; nella seconda parte è Giancarlo Piccinni che interpreta la musica di don Tonino e ce la ripropone con la passione di un amico. Ed è quanto emerge sia nella Introduzione del libro, sia nella Postfazione che è una delicata, breve e bella «biografia».

Un’ultima parola desidero aggiungere sui testi riproposti di mons. Bello, per i quali sono davvero belle le riproduzioni della sua grafia dove, commovente nell’ultima dettata pochi giorni prima morte, si nota la difficoltà nello scrivere la firma. Farò solo due brevi riferimenti.

Il primo è all’articolo che don Tonino dettò per il settimanale diocesano di Lecce in vista dell’arrivo del nuovo vescovo, Michele Mincuzzi. È una testimonianza da leggere anche «tra le righe». Michele Mincuzzi era stato vescovo ad Ugento-Santa Maria di Leuca dal 1974 al 1981 ed è in quel presbiterio diocesano che incontrò e conobbe da vicino don Tonino Bello. Nel 1981 Mincuzzi fu poi inviato a servire la Chiesa di Lecce e lo fece sino al 1988. In un mio precedente intervento presso la Facoltà Teologica di Bologna ebbi modo di rievocare le relazioni tra i due e mi permisi di dire che all’epoca ugentina quei rapporti benché siano stati sempre leali, non sempre furono del tutto facili. È per questo che nel suo intervento don Tonino Bello auspicava: «voglia considerare il suo soggiorno a Ugento come un tunnel, in cui egli ha sperimentato non il brivido del buio, ma la solidarietà, il calore umano, la fede, la passione e le speranze dei tanti compagni di viaggio che per cinque anni hanno camminato con lui».

Fatto è, tuttavia, che fu proprio il vescovo Mincuzzi, una volta conosciuta e apprezzata per diretta esperienza la sua figura umana e sacerdotale, ad avviare e sostenere discretamente la chiamata di mons. Bello al ministero episcopale. Qualcosa di tutto ciò s’intuisce nella rilettura dell’omelia che Mincuzzi pronunciò durante il rito di ordinazione episcopale. Quelli che furono vicini a quel Presule l’intendono bene. Senza tutto ciò, sarebbe rimasto, mons. Bello, confinato nel «Basso Salento», come in quegli anni lo si cominciò a chiamare? Penso di sì. Ciò detto, credo di non sbagliare se aggiungo che don Tonino Bello è divenuto quello ch’è stato non soltanto per le relazioni che ha vissuto durante la sua vita terrena, ma pure per la grazia sacramentale immaginata e desiderata (e poi invocata) per lui da un fratello Vescovo più anziano ed anche (cosa altrettanto decisiva per la sua vicenda terrena) per il dono della purificazione operata dalla dolorosa malattia degli ultimi anni. In effetti «il modo in cui viviamo la malattia […] è indice dell’amore che siamo disposti a offrire» (Francesco, Omelia nel Giubileo degli ammalati e delle persone disabili, 12 giugno 2016).

La seconda, ultima è più breve riflessione, riguarda un’immagine (don Tonino era un maestro nell’uso delle immagini) che compare nella trascrizione di un’omelia del 1984, riproposta in questo volume col titolo L’amore e la legge. In quella circostanza si celebrava per alcuni ragazzi di Alessano il sacramento della Confermazione. Don Tonino augurò loro di essere «feritoia di Gesù Cristo».

L’immagine gli era famigliare, ma non mi pare che sia stata altrove notata. Vi ricorse in una omelia del 1 aprile 1989 tenuta a Roma presso l’Augustinianum. Disse: « Che cosa sono per noi i piedi forati? Il Signore, che ci fa scorgere il senso ultimo delle cose attraverso le feritoie di quella sua carne trasfigurata. È come, per noi, mettere l’occhio in quei fori dei piedi, per vedere se li muove; e farli muovere. Dove va a finire la storia, che senso ha la malignità, che senso ha l’amore?» (Scritti II, 187-188). Un paio d’anni prima, ricordando Mons. Oscar Romero aveva concluso così la sua omelia: « E se la sofferenza per il Regno ci lacererà le carni, fa che le stigmate, lasciate dai chiodi nelle nostre mani crocifisse, siano feritoie attraverso le quali possiamo scorgere fin d’ora cieli nuovi e terre nuove» (Scritti II, 164).

Non insisto con le citazioni. Per don Tonino la categoria della «feritoia» è quella che «dà sempre una visione globale, anche se da un angolo prospettico non totalizzante» (Scritti V, 15). A quei cresimandi di Alessano don Tonino disse: «noi vi auguriamo di essere feritoie di Gesù Cristo: chi guarda voi possa vedere Lui, possa vedere le cose pulite, le cose buone, le cose nobili, l’amicizia, la pace, la giustizia, la libertà, l’impegno, il dialogo… Feritoie da dove si vedono cieli nuovi e terra nuova».

Ho fiducia che quanti leggeranno queste pagine troveranno anche nel venerabile Antonio Bello una «feritoia» da cui scorgere cieli nuovi e terra nuova.

 

Marcello Card. Semeraro