L'amore di amicizia

 

Omelia nella festa di Santa Chiara d’Assisi

 

 

    1. Come ci ricorda il Concilio Vaticano II, uno degli scopi della vita consacrata è anche quello di riprodurre nella Chiesa, con luce tutta speciale, l’immagine di Cristo-Sposo, unito alla Chiesa, sua sposa, con un vincolo indissolubile. Specialmente mediante la professione del voto di castità, i consacrati e le consacrate debbono essere, davanti a tutti i fedeli, «un richiamo di quella mirabile unione operata da Dio e che si manifesterà pienamente nel secolo futuro, mediante la quale la Chiesa ha Cristo come unico suo sposo» (Perfectae caritatis, n. 12; cf. Lumen Gentium, n. 44).

    Certo, la tradizione patristica indica sempre la Chiesa come «sposa di Cristo» e così pure lo è ogni anima cristiana; nel corso del tempo, però, tale immagine nuziale è stata vista realizzata specialmente nella donna consacrata.  alla quale, anche nei testi liturgici, si trova attribuito il titolo di sponsa Christi. Una antifona del Rito di consacrazione delle vergini acclama: «Alleluia. Sono sposa di Cristo. Alleluia. Sposa del re degli angeli. Alleluia. Sposa per sempre del Figlio di Dio. Alleluia, alleluia». A tutto questo ci ha appena richiamati il testo del profeta Osea, proclamato come prima lettura: «Così dice il Signore: «Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore... Ti farò mia sposa per sempre» (cf. Os 2,14-15.19-20).

    Anche il vangelo ci ha richiamati all’intima unione con Cristo, ma questa volta con un’immagine che giunge non dagli spazi delle relazioni sponsali e amorose, bensì dal mondo della natura: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso, se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me» (Gv 15,4). Questo passaggio potrebbe sembrarci una deminutio. Esso, però, specialmente col verbo rimanere in, ci rimanda al momento più alto dell’amore sponsale. Dirà Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Tutto questo noi oggi lo contempliamo nella figura di santa Chiara d’Assisi.

 

    2. Ma la santità è soltanto questo? È sufficiente questa intima unione con Cristo per fare la santità? Non sarà da applicare anche a questo la parola di san Giovanni: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4,20-21)? Non dovrebbe, allora, l’amore verso Dio aprirsi sempre, concretizzarsi e mostrarsi nell’amore verso gli altri? Sto parlando non soltanto dell’amore verso il prossimo che è il comandamento di Gesù, ma pure e specialmente di quello che la teologia scolastica chiama amore di amicizia. Oggi, infatti, se guardiamo a santa Chiara, non possiamo non guardare insieme con lei alla figura di san Francesco.

    Cosa sia questo «amore di amicizia» ce lo spiega san Tommaso d’Aquino con parole che ci riportano al testo del santo Vangelo che è stato proclamato e un po’ lo commentano. In una questione della sua Somma di Teologia e citando 1Gv 4,12: «Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi», egli spiega che «qualsiasi amore fa sì che l’amato sia nell’amante e viceversa». Conclude la sua argomentazione parlando proprio dell’amore di amicizia «secondo una corrispondenza di affetti: in quanto cioè gli amici si amano reciprocamente, e vicendevolmente si vogliono e si fanno del bene» (S. Th. I-II, q. 28, a. 2). L’amicizia tra san Francesco e santa Chiara è stata proprio di questo tipo! Basterebbe, per comprenderlo, rileggere il Testamento di santa Chiara.

    Ma ci sono state nella Chiesa forme simili di amore di amicizia? Mi scorre l’occhio sul Messale e vedo che già domani, 12 agosto, la Chiesa farà memoria di santa Giovanna Francesca de Chantal che, come sappiamo, fu legata da intima e santa amicizia con san Francesco di Sales. Ed è proprio questo santo ad ammaestrarci. Scrive: «È bello poter amare sulla terra come si ama in cielo, e imparare a volersi bene in questo mondo come faremo eternamente nell’altro. Non parlo qui del semplice amore di carità, perché quello dobbiamo averlo per tutti gli uomini; parlo dell’amicizia spirituale, nell’ambito della quale, due, tre o più persone si scambiano la devozione, gli affetti spirituali e diventano realmente un solo spirito» (Introduzione alla vita devota, III, 19).

 

    3. Ora, a questo punto potrebbe esserci utile – se non doveroso chiederci: c’è questo tipo di amore nelle nostre comunità? C’è soprattutto nelle comunità di persone di vita consacrata? Nei monasteri, nelle case religiose…? A volte, purtroppo, accade d’incontrare che ci paiono (o si mostrano) eccellenti nell’amore di Dio, ma poi col prossimo sono scontrose, intrattabili, permalose, suscettibili...  Questo non è possibile; questo non può essere santità! La santità è «a tutto tondo»!

    È vero che nella Chiesa si trovano distinte diverse tipologie di santità: basta, per questo, guardare al nostro Messale e vedere che, nell’ordine del Comune ci sono i martiri, i pastori, i dottori della Chiesa, le vergini, i missionari, gli operatori di misericordia, gli educatori … Se queste sono le categorie dei santi e delle sante, la santità deve essere, come dicevo, «a tutto tondo», perché si mostra nell’esercizio eroico di tutte le virtù, teologali e morali (cardinali). È possibile che nell’esercizio di una virtù si risplenda un po’ di più che nelle altre, ma l’esercizio di una virtù non può mai essere a discapito di un'altra! Di qualcuno, una volta, ho sentito dire (con una certa, valida ironia) che se certo è un confessore della fede, attorno a lui, però, c’è pure una abbondante schiera di «martiri»! In una comunità femminile, ad esempio, si potrà essere «vergini», rendendo però «martiri» le altre consorelle? Questo, vale, ovviamente, anche nelle comunità maschili… Se questo, però, dovesse malauguratamente accadere, è segno chiaro dell’assenza dell’amore di amicizia.

    C’è, sempre secondo san Tommaso d’Aquino, una virtù il cui scopo è proprio quello di regolare e in certo modo armonizzare tutte le altre e si chiama prudenza. Si tratta di ciò che noi oggi torniamo a chiamare discernimento. Richiamando san Bernardo («Est ergo discretio non tam virtus, quam quaedam moderatrix et auriga virtutum, ordinatrixque affectuum, et morum doctrix»: Sermones in Cantica, 49, 4), san Tommaso scrive che prudentia est auriga virtutum, «la prudenza è la virtù che guida tutte le altre» (Super Sent., lib. 2 d. 41 q. 1 a. 1 arg. 3; lib. 4 d. 17 q. 2 a. 2 qc. 4 co.).

    La virtù della prudenza cerca anche nella santità la moderazione, la giusta misura; evita gli eccessi, ad esempio nell’esercizio di opere penitenziali. Ne abbiamo un esempio proprio in santa Chiara, la quale ad Agnese di Boemia riserva espressioni colme di amore di amicizia: la chiama, ad esempio, «sorella degna d’amore più di tutte le creature mortali». Quando, però, viene a conoscenza che ha un po’ ecceduto in rigore e in penitenze, scrive: «Siccome non abbiamo un corpo di bronzo, né la nostra è la robustezza del granito, anzi siamo piuttosto fragili e inclini ad ogni debolezza corporale, ti prego e ti supplico nel Signore, o carissima, di moderarti con saggia discrezione nell’austerità, quasi esagerata e impossibile, nella quale ho saputo che ti sei avviata, affinché, vivendo, la tua vita sia lode del Signore, e tu renda al Signore, un culto spirituale ed il tuo sacrificio sia sempre condito col sale della prudenza» (FF 2895). Ricordo d’aver letto che santa Chiara sapeva rapportarsi con le sue consorelle senza mai perdere il sorriso e senza farlo perdere a loro. È una simpatica espressione che forse dovremmo tenere presente per realizzare esemplarmente nelle nostre comunità l’amore di amicizia. Ci aiutino l’esempio e l’intercessione di san Francesco e di santa Chiara.

 

    Albano Laziale – Monastero Immacolata Concezione, 11 agosto 2021

 

                                                                Marcello Card. Semeraro