Omelia alla Congregazione delle Cause dei Santi per le Ceneri 2022

 

Digiuno corporale e digiuno spirituale

Omelia alla Congregazione delle Cause dei Santi per le Ceneri 2022

 

    «Come è ben risaputo alla vostra carità, tre sono gli esercizi che il Signore ci raccomanda nel suo Vangelo: il digiuno, la preghiera e l’elemosina»: così Aelredo di Rievaulx, abate cisterciense e maestro di spiritualità del XII secolo, iniziava un sermone quaresimale. Di questi atti, poi, spiegava subito il valore: «attraverso il [santo] digiuno l’uomo viene restituito a se stesso, attraverso l’elemosina al prossimo e attraverso la preghiera a Dio» (Sermones 53: CCCM vol. 2B, 58).

    Siamo, allora, chiamati a una triplice reditio, o pure «conversione» delle relazioni fondamentali della nostra vita: con noi stessi, con l’altro e con quell’Altro fondamentale, che è Dio. Siamo chiamati a un gesto non soltanto decisivo, ma pure fondamentale della nostra vita; a una pratica che, considerando specialmente la nostra costitutiva condizione di vulnerabilità, ma, più ancora, le contingenze storiche che ancora ci assillano (e pensiamo, ad esempio, alla pandemia che da due anni è divenuta quasi la «cartina di tornasole» per tante e per lungo tempo nascoste fragilità, personali e collettive), volentieri chiameremo relazioni di cura. Diremo, allora, che i tre «esercizi» raccomandatici da Gesù: «quando fai l’elemosina…  quando tu preghi… quando tu digiuni», sono l’invito alla pratica di una triplice relazione d’aiuto; l’incoraggiamento, insomma, a prendersi cura di sé, degli altri, di Dio.

    Mediante il digiuno, dunque, si pratica la cura di sé. L’espressione potrebbe, certo, essere equivocata, fraintesa col narcisismo; eppure questa appartiene all’antica sapienza socratica ed equivale al processo di migliorare se stessi. È un percorso che comincia col «conoscere se stessi» secondo il precetto delfico dello gnothi seauton; un precetto che in contesto cristiano potremo assimilare alla ricerca dell’uomo interiore. Noli foras ire, in teipsum redi, scriveva Agostino: in interiore homine habitat veritas; «non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell’uomo interiore» (De vera religione 39, 72).

    Potremo anche pensare all’habitare secum con cui san Gregorio magno nei suoi Dialoghi (cf. libro II) descrive il secondo ritiro in solitudine di Benedetto dopo una fase estremamente problematica di vita comunitaria: «Tornò al luogo della sua diletta solitudine e abitò solo con se stesso sotto lo sguardo di colui che dall’alto scruta» (Prolegomena 3: PL 66, 136). Anche qui l’espressione indica un movimento contrario all’uscire da sé (il riferimento è al figlio prodigo che andati via dalla casa paterna finì coll’invidiare i porci che mangiavano le ghiande) e avviare un processo di ripensamento su se stesso e pure di guarigione interiore, di recupero dalla dispersione ritrovando se stessi. E non è cosa facile, giacché si tratta di accettarsi per quel che si è! Per chi di noi questa accettazione non è dolorosa? Non recriminiamo subito, forse, quando qualcuno ci fa una critica, un appunto, una osservazione? Occorre grande umiltà…. E questo è fondamentalmente il «digiuno»!

    C’è poi la cura dell’altro attraverso l’elemosina e su questo dovremmo aprire un altro, grande capitolo giacché la cura del prossimo è la tipicità cristiana segnalata dalla storia evangelica del buon samaritano. È, probabilmente, ciò che dobbiamo nuovamente imparare considerando, ad esempio, gli stili di vita impostici dalla pandemia per due anni: stare lontani, diffidare dell’altro, porre segnali che marcano la distanza e la diffidenza! Si tratterebbe, dunque, di compiere un passo in avanti rispetto alla cura di sé eppure ci sono aspetti per i quali anche la cura dell’altro è una forma di cura di sé.

    Stando, sabato scorso, a Granada per il rito di beatificazione di 16 martiri spagnoli e camminando per le vie mi tornava alla memoria una storia che riguarda san Giovanni di Dio. La prima fase della sua vita terrena fu alquanto complessa e complicata finché nel 1538, proprio a Granada s’imbatté in Giovanni d’Avila (santo ora anche lui e dottore della Chiesa) rimanendo colpito dalla sua predicazione e conquistato dall’idea del soffrire per amore di Gesù Cristo, del patire con Lui. Non entrerò in dettagli biografici per i quali lo fece con gesti che lo fecero rinchiudere in manicomio. Sta di fatto che quando chiedeva l’elemosina diceva così: «Chi fa del bene a se stesso? Fate bene per amor di Dio, fratelli miei in Gesù Cristo!» (Prima biografia, cap. XII). Intendeva che l’aiuto del prossimo e l’elemosina hanno senza dubbio un contraccolpo positivo su se stessi.

    È una cosa che sottolineò anche C. G. Jung, il quale diceva: «Vi ammiro voi cristiani, perché identificate Cristo con il povero e il povero con Cristo e quando date del pane ad un povero sapete di darlo a Gesù. Ciò che mi è più difficile comprendere è la difficoltà che avete di riconoscere Gesù nel povero che è in voi. Quando avete fame di guarigione o di affetto, perché non lo volete riconoscere? Quando vi scoprite nudi, quando vi scoprite stranieri a voi stessi, quando vi ritrovate in prigione e malati, perché non sapete vedere questa fragilità come la persona di Gesù in voi? […]. C’è uno straniero dentro di voi e dovete accoglierlo, non metterlo alla porta, non negare la sua esistenza, sapere che c’è, accoglierlo e vedere in lui Gesù» (in Opere, XI: «Psicologia e religione», Bollati Boringhieri, Torino 1979, 321). Il che ci permette di supporre che pure il prendersi cura di Dio è, come il prendere cura dell’altro, una via per la reditio in se ipsum: quel ritrovare se stessi che, secondo Aelredo, è proprio del digiuno.

    Avrà uguale esito anche il digiuno per la pace, indetto dal Papa per questa giornata? Ne conosciamo le ragioni: «per stare vicino alle sofferenze del popolo ucraino, per sentirci tutti fratelli e implorare da Dio la fine della guerra» ha detto domenica scorsa dopo la preghiera dell’Angelus, aggiungendo: «Chi fa la guerra dimentica l’umanità. Non parte dalla gente, non guarda alla vita concreta delle persone, ma mette davanti a tutto interessi di parte e di potere».

    Avrà questo digiuno per la pace anche l’effetto, mentre ci muoviamo per i fratelli dell’Ucraina e per tutti quelli che patiscono violenza, del farci prendere cura di noi stessi? Francesco, d’altra parte, non ci ha chiamati a una ripetizione numerica del digiuno quaresimale. Ci ha chiesto, piuttosto, di fare proprio di questo digiuno una carità verso il fratello che soffre. Il che esige – e concludo – da parte nostra un discernimento tra digiuno corporale e digiuno spirituale. «Se il digiuno spirituale può giovare senza quello corporale – diceva sempre Aelredo – quello corporale senza quello spirituale può soltanto nuocere».

    La distinzione è classica nella teologia spirituale. Barsanufio di Gaza – grande padre del deserto vissuto nel V secolo – a un fratello ammalato che si trovava nell’impossibilità di digiunare scriveva: «Non affliggerti perché il digiuno corporale non è niente senza quello spirituale» (Epist. 77, 25-26: SC 427, 358). Nell’ascetica cristiana, in altre parole, il digiuno non è un assoluto, ma uno strumento che aiuta il cuore ad essere libero. Lo sia anche il digiuno col quale diamo inizio a questa santa Quaresima.

 

    Roma, san Lorenzo in piscibus, 2 marzo 2022

 

Marcello Card. Semeraro