Omelia di Beatificazione di Livatino

 

Il segreto della santità è rimanere nell’amore di Cristo

 

    «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». È con questa consolante certezza che viviamo oggi il nostro incontro. La consapevolezza cristiana di un amore che ci raggiunge da prima della creazione del mondo, perché nasce dal cuore del Padre e mediante il suo Figlio entra nella storia, vince la cattiveria e la morte e ci entra nel cuore come sorgente di vita nuova: «Io ho amato voi. Rimanete nel mio amore: ecco l’origine di tutte le nostre buone opere», esclamava sant’Agostino (In Jo. Ev. tr. 82: PL 35, 1843). Ed è questo il segreto della santità: rimanere nell’amore di Cristo. È un verbo davvero decisivo, questo rimanere. La fecondità della vita cristiana è condizionata da questo rimanere nell’amore di Cristo ed è il frutto di questo rimanere. Qui, però, per un cristiano c’è anche il grave rischio d’essere all’interno di questo abbraccio amoroso del Signore e, ciononostante, di non portare alcun frutto. Si cade, allora, in quel «nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze», di cui ha scritto papa Francesco (cf. Lettera enciclica Fratelli tutti, n. 188). È una situazione che si fa drammaticamente evidente nei momenti di crisi, nei momenti in cui «essere cristiani» non è più qualcosa di scontato e diventa, anzi, cosa scomoda, schernita, rischiosa, pericolosa.

    È l’ottica nella quale noi possiamo guardare anche al martire Rosario Livatino. Nell’amore di Cristo, infatti, egli si è collocato, «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre», dice il Salmo (131,2). È il senso ultimo di quel motto S.T.D. che ordinariamente s’intende come Sub Tutela Dei e che il nostro beato inseriva, magari sovrastato dal segno della Croce, in pagine speciali dei suoi scritti. I giusti, scriveva un autore del XII secolo, si collocano sotto la Croce, si pongono, cioè, sub tutela divinae protectionis e così si saziano dei frutti dell’albero della vita (Ugo di Fouilloy, De claustro animae, l. IV, c. 35 PL 176, 1174). È quanto è accaduto al giudice Livatino, il quale è morto perdonando come Gesù ai suoi uccisori. È il valore ultimo delle sue estreme parole, dove sentiamo l’eco del lamento di Dio: «Popolo mio, che cosa ti ho fatto?» (Mi 6,3); è il pianto del giusto, che la liturgia del Venerdì santo pone tradizionalmente sulle labbra del Crocifisso, dove non è un rimprovero e neppure una sentenza di condanna, ma un invito sofferto a riflettere sulle proprie azioni, a ripensare la propria vita, a convertirsi.

    C’è una parola di Rosario Livatino su cui stamane vorrei riflettere, davanti a voi; una parola che mi pare possa aiutarci a comprendere non soltanto la sua vita, ma pure la sua santità e il suo martirio. La traggo dalla sua conferenza del 7 aprile 1984 su «Il ruolo del giudice nella società che cambia», dove si legge: «l’indipendenza del giudice è nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività» (Positio super martyrio, 562). Troviamo qui la parola credibilità, che san Tommaso d’Aquino applica direttamente a Gesù, il quale è credibile perché non soltanto predicava, ma pure agiva in maniera coerente (cf. Super Io, cap. 1, l. 15; Catena in Mt. cap. 19, l. 1), sicché quella del Signore era non una vita sdoppiata, ma sempre trasparente, limpida e, perciò, anche affidabile e amabile. Id praedicat quod est: Gesù è credibile perché «predica ciò che è» (cf. Isacco della Stella, Sermones, 30; PL 194, 1789).

    La credibilità è la condizione posta da Gesù per essere suoi amici: «siete miei amici, se fate ciò che io vi comando». È questa la credibilità che san Pietro riconosce come virtù gradita a Dio, il quale, come abbiamo ascoltato, accoglie chi lo teme e pratica la giustizia. L’apostolo Pietro è ormai consapevole che Dio non è più il dio-di-alcuni, ma Dio di tutti. Ai suoi occhi ciò che conta non è la professione di una fede fatta con le parole, bensì la pratica della giustizia: una giustizia che non si limita a dare a ciascuno il suo, secondo la normale legge dell’equità, bensì è sostenuta dalla credibilità di chi per la giustizia si compromette sino a dare la vita nella sua attuazione.

    La credibilità, infatti, è lo specchio della giustizia poiché si è come Giuseppe, lo sposo di Maria, uomo giusto (cf. Mt 1,19), nella costante ricerca della volontà di Dio. Credibilità e giustizia stanno e cadono insieme: senza la giustizia, la credibilità diventa improduttiva; e senza la credibilità, la giustizia rischia di approdare nel giudizio. Giustizia e credibilità sono inseparabili nella condotta del martire poiché entrambe scaturiscono dalla fede e non da una semplice istanza etica: come Abramo, che credette e gli fu accreditato per la giustizia. Modello irraggiungibile per tale cognizione della giustizia è Gesù Cristo che, fu accreditato per la sua fedeltà verso il Padre e ha trasformato la giustizia in compassione o misericordia per gli esseri umani (cf. Eb 2,17).

    Considerando la vicenda di Rosario Livatino ci tornano vivide alla memoria le parole di san Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Evangelii Nuntiandi, n. 41). Il nostro Beato lo fu nel martirio. La sua vita – avrebbe detto il Manzoni – fu il paragone delle sue parole (cf. I promessi sposi, cap. XXII). Credibilità fu per lui la coerenza piena e invincibile tra fede cristiana e vita. Livatino rivendicò, infatti, l’unità fondamentale della persona; una unità che vale e si fa valere in ogni sfera della vita: personale e sociale. Questa unità Livatino la visse in quanto cristiano, al punto da convincere i suoi avversari che l’unica possibilità che avevano per uccidere il giudice era quella di uccidere il cristiano. Per questo la Chiesa oggi lo onora come Martire.

 

Marcello Card. Semeraro