Omelia nel rito di apertura della «Perdonanza bibionese»

 

Cristo, porta della vita

Omelia nel rito di apertura della «Perdonanza bibionese»

 

Sono giunto volentieri a Bibione, per vivere insieme con voi questa rinnovata edizione della «perdonanza» e sono sinceramente grato al carissimo fratello Vescovo Giuseppe (Pellegrini) per l’invito rivoltomi. Saluto con lui il Parroco, d. Enrico (Facca). Ho appena detto: «sono giunto», ma avrei anche potuto dire «sono tornato», giacché qui a Bibione giunsi la prima volta nell’aprile 2008 per il primo Forum nazionale del progetto Portaparola organizzato dal quotidiano Avvenire. Lo inaugurò il giovedì 24 il cardinale Camillo Ruini ed io lo conclusi la domenica successiva celebrando la Santa Messa in questa chiesa parrocchiale. Da allora molte cose sono cambiate, ma è sempre vivo il ricordo della progettualità pastorale, testimoniata pure da questa bella iniziativa, annualmente rinnovata dopo il Giubileo straordinario della Misericordia indetto da Papa Francesco (2015-2016).

Il tema scelto per quest’anno: Cuori in ascolto, richiama una storia presente nella Bibbia, dove si racconta che il giovane re Salomone udì in sogno la voce del Signore che gli diceva: «Chiedimi ciò che io devo concederti». Di fronte a questa divina prodigalità Salomone rispose in un modo che a prima vista ci sorprende: chiese semplicemente un cuore che ascolta! (cf. 1Re 3,9). È una immagine scelta da Papa Francesco per il suo Messaggio in occasione della 56ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali (24 gennaio 2022). Il testo è molto bello e ricco di spunti di riflessione anche per questa vostra Perdonanza. Al tema: Ascoltare con l’orecchio del cuore è dedicato il primo punto del documento; il successivo tratta dell’ascolto come condizione della buona comunicazione. La terza e ultima parte, che s’intitola «Ascoltarsi nella Chiesa», offre un importante spunto di approfondimento per quel «processo sinodale» che vede impegnate in questi mesi le nostre Chiese. Dice fra l’altro che «la comunione non è il risultato di strategie e programmi, ma si edifica nell’ascolto reciproco tra fratelli e sorelle».

Potrei fermarmi con queste indicazioni. È giusto, però, che aggiunga qualche ulteriore indicazione che ci aiuti a collegarci al senso spirituale di quanto stiamo celebrando questa sera.

Dammi Signore un cuore che ascolta! Dobbiamo riconoscere che questa espressione ha un senso se consideriamo ciò che nella mentalità biblica e orientale ha la parola cuore. Nel nostro linguaggio corrente, invece, il cuore non «ascolta», ma pulsa ed è dal suo battito che deduciamo se, ad esempio, siamo affaticati o calmi, emozionati o sereni… Ci sono, allora, altre realtà che possono dirci qualcosa di molto simile alla preghiera di Salomone? Considerando il gesto compiuto poco fa dal parroco quando ha aperto la porta della Chiesa, pensiamo, ad esempio, alla simbologia della porta.

A ben vedere, anche al di là delle nostre abitudini una porta è sempre un simbolo. La porta parla, scriveva R. Guardini. A proposito della porta di una chiesa, ad esempio, scrive: «Spesso siamo entrati per essa in chiesa e ogni volta ci ha detto qualcosa. Lo abbiamo percepito? La porta sta tra l’esterno e l’interno  e quando uno varca la porta della chiesa, essa gli dice: “Lascia fuori quello che non appartiene all’interno…»(I santi segni. La porta).

Non solo quella di una chiesa; ogni porta parla! Una porta sbarrata è un rifiuto, una porta aperta è accoglienza, una porta sbattuta è un’offesa che lascia il segno; una porta delicatamente aperta per non svegliare chi dorme, magari da un padre che rientra tardi dal lavoro, o tenuta socchiusa da una mamma per ascoltare il respiro del figlioletto ammalato, sono segni d’amore. Se ci pensiamo, una porta è sempre qualcosa di più di quel che vediamo. È sempre simbolo: di presenza o di assenza, di un invito o di un respingimento. Perfino in informatica, una «porta», o anche più solennemente un «portale» ti apre a universi inesplorati e a relazioni nuove, ma può anche precipitarti in pozzi oscuri e in rapporti perversi.

Oggi, qui, è stata aperta una «porta». Cosa si è voluto dire con quel gesto? Abbiamo parlato di porta della misericordia. La porta è Cristo! «Io sono la porta delle pecore», ha detto (Gv 10,7). Abbiamo ascoltato una parabola evangelica che nel racconto di Luca ha delle singolarità rispetto alla medesima nel vangelo secondo Matteo. La pecora si sarà pure smarrita per sua colpa, ma – come abbiamo udito – il pastore ha sentito quella perdita come una sua responsabilità: «chi di voi se ha cento pecore e ne perde una», è stato letto! Pensiamo a sant’Agostino, il quale scriverà la notissima frase: «Il nostro cuore è inquieto, finché non trova riposo in te» (Conf. 1,1: PL 31, 661). Qui ad essere inquieto è Dio: egli cerca… finché non la ritrova! Egli ci cerca, finché non ci ritrova.

Questa «inquietudine» di Dio potremmo paragonarla a quella grazia, che il concilio di Trento chiama «grazia preveniente»; quell’amore, cioè, col quale egli ci chiama, ci sollecita e ci aiuta a rivolgerci a Lui; quella grazia con la quale Dio ci «tocca il cuore», insegna quel concilio, «con l’illuminazione dello Spirito Santo, in modo che né l’uomo resterà assolutamente inerte subendo quella ispirazione, che certo può anche respingere, né senza la grazia divina, con la sua libera volontà potrà prepararsi alla giustizia dinanzi a Dio» (Sess. VI, cap. 5: DH 1525).

Torniamo alla parabola: cosa avremmo fatto noi? Cosa avremmo detto? «Se n’è andata da sola! In fin dei conti, di pecore ne ho ben altre novantanove. Vada allora per la sua strada. Evidentemente non era meritevole…». Questo atteggiamento non è solo possibile, ma è purtroppo reale anche nella Chiesa, in certi contesti, e gruppi, ben più di quanto si possa immaginare! C’è il pregiudizio negativo di fronte alla «mela marcia», che deve essere gettata via. Questo Gesù non lo avrebbe mai accettato. Quella pecora si è perduta magari per sua colpa, ma questo suscita nel cuore del pastore un amore più grande. Questo è misericordia.

Nel Vangelo copto di Tommaso (un testo apocrifo di poco cronologicamente successivo ai vangeli canonici) c’è una conclusione inconsueta per questa parabola. Dice: «la cercò fino a trovarla e dopo aver faticato tanto le disse: “Ti voglio bene più di tutte le altre novantanove”» (n. 107: ed. K. Aland, 529). È questo il significato della Perdonanza. Quarantaquattro anni fa, da un papa appena eletto ed ancora giovane e vigoroso che impugnava la croce come un vessillo, la Chiesa sentì dire: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo». Era San Giovanni Paolo II, il 22 ottobre 1978. Fu un grido di grande effetto.

Noi oggi, però, ci sentiamo tanto confusi: una pandemia da cui ancora non siamo del tutto usciti e delle cui ricadute sociali e anche psicologiche cominciamo a essere consapevoli; un conflitto, che sentiamo quasi alle porte delle nostre case e di cui temiamo le conseguenze anche economiche, nonché la consapevolezza di tanti altri, su cui più spesso cade il silenzio ma non sono meno tragici e dolorosi e poi, ancora, tante altre incertezze di vario tipo: personali, famigliari, politiche … rendono deboli le nostre braccia e le nostre mani sono come incapaci di spingere e aprire le porte della speranza, delle speranze.

Rivolgiamo, allora, a Gesù e chiediamogli con fiducia con le parole di un mistico medievale: «O Tu, che hai detto: Io sono la porta, ti preghiamo: apriti a noi!» (per temetipsum te obsecro, aperi nobis temetipsum: Guglielmo di St.-Thierry, Orationes Meditativae VI: PL 180, 223). Cristo si apre a noi. È il senso della Perdonanza.

 

Parrocchia S. Maria Assunta – Bibione, 2 agosto 2022

 

Marcello Card. Semeraro