Omelia nella beatificazione di Gaetano Giménez e altri 15 compagni, martiri

 

È UN SEME IL SANGUE DEI CRISTIANI

Omelia nella beatificazione di Gaetano Giménez e altri 15 compagni, martiri

 

 

    Un inno per le Lodi nella festa dei martiri dell’antica liturgia mozarabica inizia così: Laudes sanctorum martyrum – quos sacra fecit passio – Christi conformes gloriae – puris canamus cordibus (PL 86, 1003). È il canto che anche noi vogliamo oggi elevare al Signore, grati per il dono che egli ha fatto alla Chiesa di questi sedici nuovi beati: «Con cuore puro, cantiamo le lodi dei santi martiri, che la beata passione ha reso somiglianti al Cristo glorioso».

    Gratitudine, dicevo, perché i santi – tutti i santi – sono un dono di Dio; lo sono, però, specialmente i santi martiri a riguardo dei quali la liturgia romana loda il Padre: «tu riveli nei deboli la tua potenza e doni agli inermi la forza del martirio» (Prefazio dei santi martiri). Non è, infatti, una conquista umana, la santità, ma un dono che riceviamo dal Signore. «La santità non è un programma di vita fatto solo di sforzi e rinunce, ma è anzitutto la gioiosa scoperta di essere figli amati da Dio», ci ricorda Papa Francesco, che aggiunge: «E questo ti riempie di gioia. Siamo santi -– perché Dio, che è il Santo, viene ad abitare la nostra vita. È Lui che dà la santità a noi» (Francesco, Angelus del 1 novembre 2021).

    I martiri che noi oggi onoriamo e veneriamo, come tanti altri e altre di questa meravigliosa terra, hanno dato a Cristo la loro testimonianza sopportando grandi sofferenze e subendo la morte stessa nel contesto di vicende tragiche e dolorose dal carattere anticristiano. I sacerdoti e i fedeli che oggi sono stati beatificati sono stati fin dal principio indicati come «martiri di Granada», giacché nella Causa per la loro beatificazione si videro presto coinvolti gli arcivescovi di questa Chiesa e l’intero il popolo cristiano di Granada.

    Tutto si svolse nel 1936, ma già nel 1939 i loro nomi furono scolpiti su due pilastri marmorei della cappella maggiore di questa Cattedrale. Erano in massima parte sacerdoti diocesani. Il primo di loro, Cayetano Giménez Martín, fu parroco, ricordato come uomo contemplativo e semplice che in ogni uomo riconosceva l’immagine di Dio e la rispettava come tale. Fra tanti sacerdoti c’era anche un seminarista, Antonio Caba Pozo: aveva appena ventidue anni e al persecutore che lo minacciava disse: «Uccidimi quando vuoi: io muoio per Cristo» (Summarium, p. 131, doc. 7). Con loro c’era pure un fedele laico, José Muñoz Calvo, presidente del ramo giovanile dell’Azione Cattolica di Alhama di Granada. Incoraggiava i suoi compagni: «Moriamo tranquilli, siamo cattolici e il nostro unico delitto è esserlo. Viva Cristo Re». (Summarium, p. 134, doc. 2).

    Tutti, nel subire la morte violenta, nell’intimo del loro cuore gridarono a Dio: La tua misericordia vale più della vita (Sl 63, 4). È il tema biblico col quale questa Chiesa si è preparata al rito che stiamo celebrando. Cassiodoro – un letterato e politico calabrese vissuto nel VI secolo – commentava così questo versetto del Salmo 63: «Il salmista chiama misericordia i beni che il Signore promette  ai suoi santi con generosa bontà e che sono di gran lunga preferibili alla vita presente. Questa vita è colma di innumerevoli pene, l’altra invece di una serenità eterna. Questa tanto differisce dalla luce del mondo quanto i tormenti possono essere diversi dalla pace eterna. È per tale motivo che moltitudini di martiri accettano volentieri di morire a questo mondo, convinti come sono che, a causa di questa morte temporale, saranno vincitori in eterno» (Expositio in Ps. LXII, 4: PL 70, 435)

    Alla luce del santo vangelo che è stato appena proclamato noi riusciamo a capire il senso di questa scelta paradossale: scegliere la morte per la vita! Se nell’umana considerazione la nostra vita terrena è, come diceva il filosofo M. Heidegger, un «essere per la morte», noi, alla luce della fede in Cristo crocifisso e risorto, riconosciamo che proprio dalla morte nasce la vita. Dice, infatti, Gesù: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

    Gesù – lo capiamo bene – sta parlando di sé. È lui il chicco di grano che sepolto nella terra rinasce come spiga e questa è la Chiesa. La legge richiamata dal Signore, però, vale anche nella Chiesa. Per produrre frutto occorre morire. È pure in questa ottica – dei frutti di vita eterna – che noi guardiamo alla vicenda dei nostri martiri. È uno sguardo che apre l’animo alla speranza di un frutto abbondante. Semen est sanguis christianorum diceva Tertulliano, antico autore cristiano (Apol. 50: PL 1,535).

    L’esempio di fedeltà a Cristo che troviamo nella fine sanguinosa dei nuovi beati sia, allora, premessa e promessa di una nuova seminagione. Spunti da essa il grano sufficiente per avviare una grande moltiplicazione di pane al fine di sfamare la moltitudine degli uomini. La santità dei martiri, infatti, non è mai un evento del passato; è sempre, al contrario, una grazia per la Chiesa. Sant’Ambrogio diceva che noi siamo frutto dei martiri e per questo dobbiamo invocarli. Loro sono per noi come una caparra di vita eterna. Anche se sono stati deboli e hanno commesso peccati, loro sono stati purificati dal loro stesso sangue e adesso possono intercedere per i nostri peccati. I martiri di Dio sono quelli che ci guidano, coloro che ci aiutano a guardare nella nostra stessa vita. Non dobbiamo, dunque, avere paura di mostrare a loro le nostre infermità perché loro stessi, pur avendo conseguito la vittoria, hanno sperimentato la fragilità umana (cf. De viduis IX, 55: PL 16, 251). Così, dunque, noi onoriamo e veneriamo i nuovi beati martiri, consapevoli che in loro, pur fragili e deboli come noi, benché in modo misterioso, Cristo è presente.

    Christus in martyre est, (Tertulliano, De pudicitia, 22: PL 1, 1027). È Cristo la nostra forza sicché, come scrive san Paolo, ciascuno di noi può dire con fiducia: «tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4,13)

 

    Cattedrale di Granada, 26 febbraio 2022

 

Marcello Card. Semeraro

 

 

____________________

 

 

    Un himno de Laudes de la fiesta de los mártires de la antigua liturgia mozárabe comienza así: Laudes sanctorum martyrum – quos sacra fecit passio - Christi conformes gloriae – puris canamus cordibus (PL 86, 1003). Es el canto que también nosotros queremos elevar hoy al Señor, agradecidos por el don de estos nuevos dieciseis beatos, que Él ha hecho a la Iglesia: «Con un corazón puro, cantamos las alabanzas de los santos mártires, que la beata pasión ha hecho semejantes a Cristo glorioso».

    Agradecimiento, decía, porque los santos –todos los santos- son un don de Dios; lo son especialmente los santos mártires, y por ellos la liturgia romana alaba al Padre: «has sacado fuerza de lo debil, haciendo de la fragilidad tu propio testimonio» (Prefacio de los santos mártires). No es, por tanto, la santidad una conquista humana, sino un don que recibimos del Señor.

    La santidad «no es un programa de vida hecho solo de esfuerzos y renuncias, sino que es ante todo el gozoso descubrimiento de ser hijos amados por Dios. Y esto nos llena de gozo... No es una conquista humana, es un don que recibimos: somos santos porque Dios, que es el Santo, viene a habitar nuestra vida. Es Él quien nos da la santidad» (Francisco, Angelus del 1 de noviembre de 2021).

    Los mártires que hoy honoramos y veneramos, como tantos otros de esta maravillosa tierra, han dado su testimonio a Cristo soportando grandes penalidades y sufriendo la muerte misma, en el contexto, de caracter anticristiano, de aquellos trágicos y dolorosos acontecimientos. Los sacerdotes y los fieles que hoy han sido beatificados fueron, desde el inicio, señalados como«mártires de Granada», ya que en su Causa de beatificación se vieron pronto involucrados los arzobispos de esta Iglesia y el entero pueblo cristiano de Granada.

    Todo sucedió en el mil novecientos treinta y seis (1936), pero ya en el mil novecientos treinta y nueve (1939) sus nombres fueron esculpidos en dos pilastras de mármol en la capilla mayor de esta Catedral. Eran la mayor parte sacerdotes diocesanos. El primero de ellos, Cayetano Giménez Martín, fue parroco, recordado como hombre contemplativo y sencillo, que en cada hombre sabía reconocer la imagen de Dios y la respetaba como tal.. Entre tantos sacerdotes, había también un seminarista, Antonio Caba Pozo; tenía apenas veintidos (22) años, y al perseguidor que lo amenzaba le dijo: «matadme cuando queráis; porque yo muero por Jesucristo» (Summarium, p.131, doc.7). Con ellos estaba también un fiel laico, José Muñoz Calvo, Presidente de la rama juvenil de la Acción Católica de Alhama de Granada. Animaba a sus compañeros: «muramos tranquilos, somos católicos y nuestro delito es serlo. Viva Cristo Rey» (Summarium, p.134, doc.2).

    Todos ellos, al sufrir la muerte violenta, en lo íntimo de su corazón gritaron a Dios: tu gracia vale más que la vida; tu misericordia vale más que la vida (Sal 63,4). Es el tema bíblico con el que esta Iglesia se ha preparado para el rito que estamos celebrando. Casiodoro – un literato y político calabrese que vivió en el siglo sexto (VI) - comentaba así este versículo del Salmo 63: «El salmista llama misericordia a los bienes que el Señor promete con generosa bondad a sus santos y que son con mucho preferibles a la vida presente. Esta vida está llena de innumerables penas, en cambio la otra de una serenidad eterna. Esta se diferencia tanto de la luz del mundo como los tormentos pueden ser diversos de la paz eterna. Es por tal motivo que las multitudes de los mártires aceptan gustosamente morir a este mundo, convencidos que, a causa de esta muerte temporal, serán vencedores para la eternidad» (Expositio in Ps. LXII, 4; PL 70, 435).

    A la luz del santo evangelio que acaba de proclamarse, nosotros podemos entender el sentido de esta elección paradójica: ¡escoger la muerte por la vida! Si, en consideración humana, nuestra vida terrena es, como decía el filósofo M. Heidegger, un «ser para la muerte», nosotros, a la luz de la fe en Cristo crucificado y resucitado, reconocemos que propiamente de la muerte nace la vida. De hecho, dice Jesús: «En verdad, en verdad os digo: si el grano de trigo no cae en tierra y muere, queda infecundo; pero si muere, da mucho fruto» (Jn 12, 24).

    Jesús, lo hemos entendido bien, está hablando de sí mismo. Es Él el grano de trigo que sepultado en la tierra renace como espiga y ésta es la Iglesia. La ley enunciada por el Señor vale también en la Iglesia. Para producir fruto es necesario morir. Y es también en esta óptica –de los frutos de vida eterna- con la que nosotros miramos a lo sucedido a nuestros mártires. Es una mirada que abre el ánimo a la esperanza de un fruto abundante. Semen est sanguis christianorum decía Tertuliano, antiguo autor cristiano (Apol. 50; PL 1, 535).

    El ejemplo de fidelidad a Cristo que encontramos en el sangriento fin de la vida de los nuevos beatos sea, entonces, premisa y promesa de una nueva siembra. Surja de ella el grano suficiente para comenzar una gran multiplicación del pan, para saciar el hambre de la multitud de los hombres.

    La santidad de los mártires, de hecho, no es nunca un evento del pasado; es siempre, al contrario, una gracia para la Iglesia. San Ambrosio decía que nosotros somos fruto de los mártires y por eso debemos invocarlos. Ellos son para nosotros como una prenda de vida eterna. Aún cuando han sido débiles o han cometido pecados, han sido purificados por su propia sangre, y ahora pueden interceder por nuestros pecados.

    Los mártires de Dios son aquellos que nos guían, los que nos ayudan a mirar nuestra propia vida. No debemos, por tanto, tener miedo de mostrarles nuestras enfermedades, porque ellos mismos, aún habiendo conseguido la victoria, han experimentado la fragilidad humana (cf. De viduis IX, 55; PL 16, 251). Así pues, honoramos y veneramos a los nuevos beatos mártires, conscientes de que en ellos, aún frágiles y débiles como nosotros, Cristo está presente, aunque en modo misterioso.

    Christus in martyre est (Tertuliano, De pudicitia, 22; PL 1, 1027). Es Cristo nuestra fuerza y así, como escribe San Pablo, cada uno de nosotros puede decir con confianza: «todo lo puedo en aquel que me conforta» (Fil 4, 13).