Omelia nella beatificazione di Maria Costanza Panas, clarissa cappuccina

 

Fare della vita una eucaristia

Omelia nella beatificazione di Maria Costanza Panas, clarissa cappuccina

 

Dieci, i lebbrosi guariti, ma soltanto «uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano» (17,16). È la seconda volta che nel vangelo di Luca è nominato un samaritano. La prima era stata nella ben conosciuta parabola: un sacerdote e un levita erano passati davanti a un uomo percosso e lasciato mezzo morto sul ciglio della strada ed erano passati oltre; «invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione» (10,33). Nella concezione ebraica al tempo di Gesù essere samaritano non era solo l’indicazione di un’appartenenza etnica, ma più ancora la designazione di uno scismatico, un nemico e, perfino, idolatra. Al samaritano della parabola, dunque, l’evangelista attribuisce la compassione, facendo ricorso a un verbo greco (splanchnizomai), che abitualmente è attribuito a Gesù e nell’AT a Dio, che si prende cura degli umiliati e dei miseri. Al samaritano guarito del racconto di questa domenica, poi, San Luca attribuisce la lode e il ringraziamento e per fare questo ricorre a un verbo che nell’uso cristiano indicare ormai il gesto più alto della vita: l’Eucaristia (euchariston).

Sembra, allora, che nel titolo estraneo di «samaritano» l’evangelista Luca abbia come riassunto i due movimenti fondamentali della storia della salvezza: quello di Dio, anzitutto, che ha avuto compassione sino a scendere dal cielo verso di noi e che per noi uomini e per la nostra salvezza si è fatto uomo, umiliandosi sino alla morte, e alla morte di croce (cf. Fil 2,8). L’altro movimento, di risposta, è quello nostro di lode innalzata verso Dio, come scrive san Paolo: «ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (Col 1,12). Quel samaritano guarito ringrazia e perciò è ammesso nella comunità dei redenti: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». Ci domandiamo, allora: quale tipo di ringraziamento vuole da noi il Signore? In un suo sermone sul pessimo vizio dell’ingratitudine, San Bernardo dirà: «Davvero beato, quel samaritano, il quale riconobbe di non avere nulla che non l’avesse ricevuto e perciò tornò a ringraziare il Signore e anche noi mostriamoci grati con Dio, ringraziandolo non soltanto a parole, ma soprattutto con opere veraci, in opere e verità (cf. De diversis 27,8: PL 193, 616).

Dal racconto del vangelo non sappiamo cosa abbiano fatto gli altri nove lebbrosi guariti. Erano giudei: saranno andati, o no al tempio di Gerusalemme? Per loro era quello il luogo della lode a Dio. Quanto al samaritano, sappiamo che egli non soltanto non andò al tempio per presentarsi ai sacerdoti, ma non andò neppure al monte Garizim, ossia il luogo dove i Samaritani celebravano il loro culto (cf. Gv 4,20). Egli va da Gesù: aveva compreso che il «luogo» del culto vero e gradito a Dio sono i piedi di Gesù e così annunciava a tutti noi che l’espressione vera del culto si chiama, rendimento di grazie, eucaristia.

In tale contesto spirituale della misericordia di Dio e dell’umana, grata, gioiosa e pronta risposta a Lui, consideriamo ora la vita terrena della beata Maria Costanza Panas, la sua risposta alla vocazione monastica e la sua spiritualità. Ella ci ha lasciato molti scritti spirituali da cui attingere, benché destinati soprattutto alle sue consorelle nel Monastero, dove fu abbadessa praticamente sino alla fine della vita.

In un manoscritto del 1936 intitolato La Santa Messa, ella ne parla come «il racconto dell’infinita bontà del Padre celeste per le sue povere creature … [che] raccoglie tutto l’amore di Gesù per noi e noi, per compensarlo di pari amore, quanto possiamo, dobbiamo fare della nostra Vita una continua imitazione della Messa» (Positio – Estratto degli scritti – Scritti spirituali, p. 729). Non ci è difficile ritrovare il duplice movimento, che ho pensato di cogliere dal racconto evangelico: l’amore di Gesù per noi (la compassione) e l’espressione della nostra gratitudine espressa con tutta la vita. Fare della propria vita una eucaristia. L’altare, diceva alle sue monache, è «la scuola di tutte le virtù», il luogo dove, insieme con Gesù si trova Maria, la Madre e l’altra Madre, la Chiesa. «L’onore della Chiesa è la santità dei suoi figli», diceva, e aggiungeva: «Siate sante per essere vere figlie della Chiesa, per onorare ed amare la Chiesa, che è il grande amore, la tenerezza squisita del Cuore del nostro Gesù» (Ivi, p.751-752).

Può dirsi, in conclusione, che il programma della vita della nostra Beata è contenuto nell’epigrafe posta sulla sua tomba: «Si donò a Dio e per Lui a tutti, credendo sempre nel suo amore». La fede della madre Maria Costanza Panas fu, dunque, come ebbe a dichiarare un testimone nel processo per la beatificazione e canonizzazione, una «fede viva che la spingeva a donarsi con tutto il cuore a Dio… Donarsi e credere era il programma della sua vita» (Positio – Summarium: test. 8, p. 53).

Abbiamo ascoltato: «Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo». In realtà, è soltanto la gratitudine che dona pienezza alla nostra vita. «Non tralasciamo di ringraziare: se siamo portatori di gratitudine, anche il mondo diventa migliore, magari anche solo di poco, ma è ciò che basta per trasmettergli un po’ di speranza. Il mondo ha bisogno di speranza e con la gratitudine, con questo atteggiamento di dire grazie, noi trasmettiamo un po’ di speranza» (Francesco, Catechesi del 30 dicembre 2020.

 

Fabriano – Basilica Cattedrale, 9 ottobre 2022

 

Marcello Card. Semeraro