Omelia nella festa di san Roberto Bellarmino

 

Fedeli nel poco per essere fedeli nel molto

Omelia nella festa di san Roberto Bellarmino

 

All’inizio di questa Santa Messa vi ho rivolto il saluto liturgico con le parole di Gesù risorto ai suoi discepoli e voi avete risposto: … e con il tuo spirito! Ciascuno di noi, da quel momento, è divenuto membro di questa assemblea del Signore: assemblea domenicale! Ora, dopo avergli chiesto perdono per i nostri peccati, avergli innalzato la nostra lode, rivolto la nostra preghiera e ascoltato la sua Parola sono chiamato ad aiutarvi a fargli eco con l’omelia. Prima, però, permettetemi di ringraziare il Parroco don Antonio (Magnotta), per l’invito a vivere con tutti voi questo momento, col quale si mette come un sigillo sull’anno bellarminiano che avete iniziato il 17 settembre dell’anno scorso per il quarto centenario della morte di san Roberto, titolare di questa Comunità parrocchiale.

Non si tratta, certamente, di un santo «facile». Il suo nome, difatti, è coinvolto in momenti in cui la Chiesa avvertiva forte il bisogno di difendersi da questioni e teorie che ella avvertiva non conformi alla propria fede. Nella storiografia, pertanto, san Roberto Bellarmino spesso è ancora ricordato solo per essere messo in antitesi ai nomi di Galileo e di Giordano Bruno e questo nonostante non manchino studi seri che rileggono con equità quelle antiche questioni.

Del suo episcopato a Capua fu scritto che amabatur a populo et ipse amabat populum, «era amato dal popolo ed egli stesso amava quel suo popolo». Egli fu pure maestro di vita spirituale e per questo basterà dire che ebbe come allievo prediletto san Luigi Gonzaga sì da lasciare scritto nel suo testamento: «avrei molto caro che il mio corpo fosse collocato ai piedi del Beato Luigi Gonzaga, già mio figliuolo spirituale». Tra quanti lo ammiravano per la dottrina, la prudenza e la santità della vita ci sono san Carlo Borromeo, che volentieri l’avrebbe voluto accanto a sé a Milano come primo collaboratore, e san Francesco di Sales. In occasione delle sue esequie nel «Registro dei Concistori» si scrisse: «fu un uomo di prestigio, eminente teologo, impavido difensore della fede cattolica, martello degli eretici e fu, al tempo stesso, uomo pio, prudente, umile e molto caritatevole». Non è, però, l’elogio di san Roberto Bellarmino che io devo farvi stamane. Nell’anno bellarminiano avete di sicuro avuto molte occasioni per conoscerlo bene. È doveroso, invece, che io vi proponga qualche riflessione sulla parabola di un amministratore disonesto, che abbiamo ascoltato dalla proclamazione del Santo Vangelo (cf. Lc 16,1-13).

È, in verità, una parabola che può, almeno all’inizio, lasciare sconcertati. È opportuno, allora, chiedersi: Gesù ha davvero lodato un comportamento disonesto? E se non è così, dov’è l’insegnamento sotteso a quella storia? Penso che in definitiva Gesù abbia voluto insegnarci qual è il modo migliore di utilizzare il denaro e le ricchezze materiali. Cosa, dunque, occorre fare? Gesù ci dice: con chi è, in vario modo, indebitato con voi (e non intendo per denaro, ma per altre cose, come un’offesa, uno sgarbo, una trascuratezza…) non siate esattori inflessibili, ma fategli «sconto»; siate generosi, sappiate perdonare.

Questo, però, per Gesù è soltanto un test, ossia una prova per verificare qualcosa di ancora più importante. Dice: chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose maggiori! Il «poco» che l’uomo è chiamato ad amministrare sono i beni terreni; quello che, però, Gesù s’attende dal suo discepolo è che sappia bene «amministrare», ossia bene guidare la propria vita; di farlo, cioè, corrispondentemente all’amore di Dio, alla sua misericordia, alla sua volontà di Dio. Sia fatta la tua volontà… recitiamo nel Pater.

Non possiamo, però, sorvolare sulla questione riguardante l’uso delle ricchezze. Al riguardo, carissimi, vorrei dirvi poche cose, ma serie. Anzitutto che non bisogna dire troppo male della ricchezza perché, considerata in se stessa, essa merita lode. Il suo scopo, difatti, è aiutare l’uomo a realizzare, a essere se stesso e quindi entrare nelle vedute dello spirito, a realizzare i progetti dello spirito e così condurre tutte le cose al loro proprio fine, ossia la crescita spirituale e morale della persona umana. Anche la propria indipendenza, che ordinariamente è una condizione preziosa dell’attività, potrà essere favorita da un po’ di ricchezza, perché essa permette le iniziative e così agevola pure la virtù.

Il giudizio in questa materia rimane, tuttavia, ambiguo da un duplice punto di vista: quello dell’origine, anzitutto, perché c’è un denaro che è figlio dell’iniquità, e un altro che invece è figlio dell’intelligenza, dell’esperienza, della moderazione e dell’applicazione onesta al lavoro. C’è poi il fatto che anche il denaro buono nella sua origine deve poi restarlo nel suo impiego. È questa l’ambiguità che, in fin dei conti, il Vangelo ci domanda di risolvere con le nostre scelte di vita.

Sta di fatto che la ricchezza, pur non essendo «disonesta» in se stessa, più di ogni altra cosa può chiudere l’uomo in un cieco egoismo. Chi, infatti, si prefigge come unico scopo quello di costruirsi un capitale, non ha né il tempo di pensare a Dio, né gli occhi per accorgersi dei poveri. E poiché tutti siamo in questo rischio, tutti abbiamo bisogno di conversione. Il nostro modello sarà Gesù il quale, come abbiamo ascoltato da san Paolo nella seconda lettura, ha dato se stesso! In 2Cor 8,9 l’Apostolo dice di più: «da ricco che era [Gesù] si fece povero per arricchire noi con la sua povertà». Ecco la vera logica che oggi il Vangelo ci propone.

Quand’ero ragazzo sentivo dire dalla mia mamma che solo chi è povero riesce ad aiutare un altro povero. Divenuto grande ho letto in sant’Agostino che «perfino i poveri hanno la possibilità di dar qualcosa l’uno all’altro; uno presti i propri piedi allo zoppo, un altro offra al cieco i propri occhi per guidarlo; un altro visiti chi è infermo, un altro dia sepoltura a chi è morto. Tutti possono rendere tali servizi, sicché è del tutto difficile trovare uno che non abbia qualcosa da dare a un altro» (Serm. 91, 7, 9: PL 38, 571). Mia madre non ha mai letto sant’Agostino, eppure lo conosceva!

 

Parrocchia San Roberto Bellarmino – Roma, 18 settembre 2022

 

Marcello Card. Semeraro