Omelia nella Messa della notte - Natale 2020

OMELIA NELLA MESSA DELLA NOTTE - NATALE 2020

(Basilica Cattedrale di Albano, 24 dicembre 2020)

 

Un Bambino avvolto in fasce

1. Per due volte, durante il racconto evangelico di questa Messa natalizia, abbiamo sentito richiamare un gesto molto particolare: «avvolgere nelle fasce». Abbiamo, infatti, ascoltato che Maria che «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia» (Lc 2,7). Questo del fasciare il neonato è un gesto testimoniato fin dalla più remota antichità ed io stesso già da bambino l’ho veduto compiere tante volte. Mi pare che, poi, sia caduto in desuetudine; oggi, però, si torna a raccomandarlo perché, ricreando la sensazione familiare dell’utero materno, offrirebbe al neonato una situazione confortevole, rassicurante e rilassante.

Lo stesso evangelista ci narra pure che l’angelo del Signore invitò i pastori, che nella notte custodivano le greggi, ad andare fino a Betlemme per vedere il neonato. Per questo lasciò loro un segno: «troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2,12). A noi rimane la domanda: perché un gesto tanto abituale e comune (almeno in quei tempi), è indicato ai pastori come un «segno»? Evidentemente quel gesto, se compiuto da Maria, racchiude un significato e lascia un messaggio, che va oltre l’apparenza esteriore. Ma quale?

Una prima risposta è sicuramente questa: il «Figlio dell'Altissimo», il «Figlio di Dio» (Lc 1,32.35), una volta divenuto pure «figlio di Maria» (cf. Lc 2,7) assume la condizione umana comune a noi tutti: una condizione segnata dal limite e dall’incompiutezza la quale, per crescere, svilupparsi e maturare ha sempre bisogno di cura. All’inizio e per poi per non poco tempo, delle cure di mamma e papà. Assume, infine, una condizione destinata a concludersi con la morte. Ed è così che la fasciatura della nascita già annuncia quella del sepolcro: anche quella sarà un segno per la fede (cf. Gv 20,4-8). In breve, la «gloria del Signore», che spetta al Figlio di Dio, ora si nasconde nella povertà delle «fasce». Nella liturgia bizantina del 24 dicembre le fasce sono chiamate «teofore», ossia portatrici di Dio: «santissima è la mangiatoia, teofore le fasce: la vita, in esse avvolta, spezzerà le catene della morte, stringendo i mortali per renderli incorruttibili, o Cristo, Dio nostro». È nelle «fasce», allora, che dobbiamo cercare e riconoscere la gloria di Dio.

2. Il senso che questa notte vogliamo cogliere nei pannolini coi quali Maria, dopo averlo partorito, rivestì il suo piccino ci rimandano all’insieme delle «cure» che lei, insieme con Giuseppe, prestò a Gesù, perché potesse crescere e raggiungere la sua maturità umana. In quanto vero uomo, infatti, Gesù ebbe bisogno di tutto ciò di cui ciascuno di noi, fin da piccolo, ha bisogno: ossia di «cura». Senza «cura» molto presto l’uomo muore, sicché tutto ciò che per qualcuno è bisogno, per tutti quelli che lo incontrano diventa dovere. Nessuno, ancor meno un discepolo di Gesù, davanti a chi è nel bisogno può dire: «non è compito mio»! Ce lo ricorda la parola del Signore sul giudizio universale riferita dal vangelo secondo Matteo: lo avete fatto a me (cf. 25,31-46). Occorre, certo, oggi specialmente, ben discernere la povertà e le povertà: la mentalità consumistica e individualista impostasi negli ultimi decenni ce lo domanda e nelle nostre Caritas questo è compito precipuo dei «centri d’ascolto».

È, tuttavia, principio generale, maturato anche in tanta parte della filosofia contemporanea, che la presenza dell’altro accanto a me è fonte di responsabilità. Essa non può nel modo più assoluto essere percepita come fonte di «fastidio», ostacolo alla mia realizzazione; come figura estranea (lo «straniero») da allontanare. È importante osservare pure in alcune correnti filosofiche che l’alterità non è più considerata solo occasione di dialogo, ma anche parametro per la scoperta di sé.

3. Per comprendere tutto questo ci viene in aiuto proprio il «segno» della fasciatura: quando i pastori, per verificarlo, si recarono a Betlemme «trovarono Maria e Giuseppe e il Bambino, che giaceva nella mangiatoia» (Lc 2,16): le «fasce» non sono più ricordate e subentrano, al loro posto, Maria e Giuseppe. È una sostituzione casuale? Nelle ultime pagine della lettera pastorale Abbi cura di lui (2019) ho individuato questa risposta: «Fasce è l’amore fra due persone, Maria e Giuseppe, una “sponsalità”, una relazione che si prende cura di Gesù». Questo, ho aggiunto, è un modello forte per tutti noi, per le nostre comunità, per la Chiesa stessa.

Da qui ho tratto quella proposta che, di fatto, è divenuta quella conclusiva del mio episcopato nella Chiesa di Albano: la proposta della cura come stile della pastorale. Nella lettera pastorale Non alia charitas (2020) ho scritto: «sto chiedendo di fare un passo avanti in quella pastorale generativa che sta al cuore del cammino intrapreso ormai da diversi anni. La «cura», infatti, è ciò che nella prassi generativa segue in forma connaturale al desiderio e alla generazione: la cura è la generazione che prosegue per tutta la vita» (n. 23).

Sia il Natale l’appello a questo stile; a vivere le nostre relazioni come relazioni di cura. Forse proprio la pandemia che ci affligge ci aiuta a considerare seriamente questo progetto. Dobbiamo trasformare la crisi – anche quella provocata dalla pandemia: che non è solo sanitaria, ma pure sociale, economica… – in provocazione, in vocazione! «Questo flagello – ha detto il Papa lunedì scorso parlando alla Curia romana – è stato un banco di prova non indifferente e, nello stesso tempo, una grande occasione per convertirci e recuperare autenticità». In quel discorso Francesco ha pure richiamato la sua enciclica Fratelli tutti, dove ha scritto: «Desidero tanto che, in questo tempo che ci è dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità» (n. 8). Il Santo Natale ci sia d’incoraggiamento a far maturare in noi questa aspirazione.