Omelia nella solennità del «rinvenimento delle reliquie»

 

Stefano protomartire, evangelizzatore e testimone

Omelia nella solennità del «rinvenimento delle reliquie»

 

Voi, carissimi fratelli e amici di Concordia, celebrate oggi la festa di Santo Stefano, che non è solo il titolare della vostra Cattedrale, ma è pure il patrono principale della Diocesi. Sono ben lieto di condividere questo momento di festa, grato al Vescovo per l’invito che mi ha rivolto per questa celebrazione.

Quando Eusebio di Cesarea – il primo storico della Chiesa – ricorda nella sua Storia ecclesiastica il nostro Santo, annota che dopo la morte di Gesù egli è il primo ad essere stato ucciso da quegli stessi che avevano ucciso il Signore; lo chiama quindi «degnissimo di onore», perfetto martire e aggiunge che, proprio come dice il suo nome, egli ha pienamente meritato la corona del martirio (cf. Hist. Eccl. II, 1: PG 20, 137). Se, ora, volessimo rispondere alla domanda sul perché di questo elogio, alla luce degli Atti degli Apostoli dovremmo guardare alla vita del Protomartire e alla missione da lui svolta. Si tratta, sostanzialmente, di due punti.

Stefano è anzitutto un annunciatore, un evangelizzatore, un missionario. Possiamo dire che egli è stato il primo ad avere avviato quella che sarà poi chiamata «inculturazione del vangelo». È un fatto molto importante, questo. Il Concilio Vaticano II ha trattato esplicitamente del rapporto tra vangelo e cultura ed ha affermato che la Chiesa, «fedele alla propria tradizione e nello stesso tempo cosciente dell’universalità della sua missione, può entrare in comunione con le diverse forme di cultura; tale comunione arricchisce tanto la Chiesa stessa quanto le varie culture» (Gaudium et spes, n. 58).

Stefano, dunque, si rivolse anzitutto ai suoi connazionali (i cosiddetti ellenisti) e nel nome del Signore presentò loro una nuova interpretazione della figura di Mosè e della stessa Legge mosaica. Egli fece come Gesù, quando s’affiancò ai discepoli che andavano verso Emmaus: dimostrò loro che il mistero della Croce è al centro della storia della salvezza narrata nell’Antico Testamento e mostrò che il Crocifisso-Risorto è il punto d’arrivo di tutta questa storia. Logica conseguenza era che il culto del tempio era finito, perché il nuovo e vero «tempio» è Gesù (cf. Gv 2,19-21). Per i giudei questo era davvero il colmo! Percepirono le parole di Stefano come una bestemmia (cf. At 6,11-14) e per questo non c’era altra via che la sua eliminazione.

Santo Stefano, però, non fu soltanto un evangelizzatore. Il libro degli Atti, difatti, lo inserisce come primo in quel gruppo di «sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza», ai quali i Dodici affidarono l’incarico dell’assistenza verso i poveri (cf. At 6,2-4). Stefano fu, diremmo oggi, un operatore di carità.

Carità e annuncio del Vangelo vanno sempre insieme. Abbiamo il modello in Gesù, la cui opera san Luca la condensò nel binomio: fare e insegnare. Anzi, prima «fare» e quindi «insegnare» (cf. Lc 24,19; At 1,1). San Gregorio Magno commenterà dicendo che «tutto quello che ha insegnato, Gesù lo ha mostrato nella sua stessa persona» (cf. Homiliae in Ezechielem II, 1, 10: PL 76, 943). Questo, egli, diceva, è valido per ogni cristiano e spiegava che «il cuore è penetrato meglio da quella parola che è confermata dalla vita di chi parla» (Epist. I, 24: PL 77, 470).

In proposito, mi torna alla memoria un documento antico della Conferenza Episcopale Italiana: antico, ma non per questo da dimenticare. S’intitola Evangelizzazione e testimonianza della carità (8 dicembre 1990) e costituiva il progetto pastorale per gli anni novanta. Sarà da buttar via nel 2022? Certo che no. Nelle prima pagine è scritto che «la verità cristiana non una teoria astratta. È anzitutto la persona vivente del Signore Gesù, che vive risorto in mezzo ai suoi. Può quindi essere accolta, compresa e comunicata solo all’interno di un’esperienza umana integrale, personale e comunitaria, concreta e pratica, nella quale la consapevolezza della verità trovi riscontro nell’autenticità della vita» (n. 9). Non sono meritevoli di attenzione, queste parole, anche oggi?

Ora, un primo insegnamento che possiamo cogliere dalla vita di Santo Stefano è proprio questo di non tenere mai separati l’impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. «La carità evangelica – continua quel documento della CEI – è caratterizzata dalla concretezza. L’amore, se è tale, si fa gesto e storia - come nella vita di Gesù e sulla croce – raggiungendo l’uomo sia nella singolarità della sua persona che nell’interezza delle sue relazioni con gli altri uomini e con il mondo… la carità cristiana ha in se stessa una grande forza evangelizzatrice. Nella misura in cui sa farsi segno e trasparenza dell’amore di Dio, apre mente e cuore all’annuncio della parola di verità» (nn. 23-24).

Dal martirio di Santo Stefano ci giunge però anche un altro insegnamento e lo ricordo con alcune espressioni di Benedetto XVI: «La Croce rimane sempre centrale nella vita della Chiesa e anche nella nostra vita personale. Nella storia della Chiesa non mancherà mai la passione, la persecuzione. E proprio la persecuzione diventa, secondo la celebre frase di Tertulliano, fonte di missione per i nuovi cristiani» (Udienza del 10 gennaio 2007).

Anche questo l’apprendiamo dalla storia di Santo Stefano. Il libro degli Atti ci riferisce che la sua uccisione fu seguita da una dolorosa persecuzione contro i discepoli di Gesù subito dopo, però, aggiunge che «quelli che si erano dispersi andarono di luogo in luogo, annunciando la Parola» (8,1.4). La violenza, la cattiveria degli uomini non riesce a imbrigliare e soffocare la Parola del Signore. Anche nelle odierne difficoltà, forse, abbiamo bisogno di recuperare la fiducia nella potenza della Parola, che salva. A volte abbiamo maggiore fiducia in altre realtà: magari la nostra capacità organizzativa, le nostre strutture pastorali, la forza dei mezzi di comunicazione… Ma queste cose, pur giuste, sono mezzi e non possono prendere il sopravvento sul fine, che è l’annuncio della Parola che ci salva.

Gli Atti degli Apostoli ci narrano che Stefano, come Gesù, morì implorando il perdono per i suoi uccisori. Potremmo chiederci: serve a qualcosa perdonare? Una risposta la troviamo proprio nel martirio di Santo Stefano. Tra quelli per i quali egli implorò il perdono c’era un giovane di nome Saulo, il quale perseguitava la Chiesa e cercava di distruggerla (cf. At 8,3). Dopo non molto tempo Saulo divenne Paolo, l’apostolo delle genti. Aveva ricevuto il perdono di Stefano. Non soltanto, allora, il sangue dei martiri è seme di cristiani, come diceva Tertulliano. Altri cristiani possono nascere anche dal loro perdono.

 

Cattedrale di Concordia, 3 agosto 2022

 

Marcello Card. Semeraro