Omelia nella solennità di san Bassiano

 

In una carovana «solidale»

Omelia nella solennità di san Bassiano, patrono principale della città e della diocesi di Lodi

 

    1. Sono sinceramente grato al vescovo Maurizio, perché col suo invito fraterno a celebrare oggi, qui nella Chiesa di Lodi, la festa del vostro Patrono e Protettore, mi ha anzitutto offerto un’occasione per vivere con lui e gli altri amici vescovi concelebranti un momento di gioiosa fraternità. Li saluto con fraterno affetto. Ugualmente rivolgo il mio saluto al Presbiterio diocesano, con il Reverendo Capitolo Cattedrale e i seminaristi. Con tutti voi, fedeli presenti a questo sacro rito saluto con deferente ossequio tutte le Autorità presenti: civili, militari e di polizia.

    Invitandomi, poi, il vostro Vescovo mi ha pure dato la possibilità di conoscere san Bassiano della cui biografia – ve lo confesso, ma sono certo che scuserete questa mia ignoranza – non conoscevo nulla. Ne ho letto, per questo, anzitutto la breve sintesi scritta per il «messale proprio» della Chiesa laudense ed ho fatto pure ricorso all’elogio del Martirologio romano, dove si legge: «A Lodi, commemorazione di san Bassiano, vescovo, che, per difendere il suo gregge dall’eresia ariana in quel luogo ancora viva, lottò strenuamente insieme a sant’Ambrogio di Milano». Si tratta di brevi righe, ma sufficienti a farmi sorgere nell’animo una certa curiosità. Forse mi domanderete: «quale»?

    Lo dirò con semplicità: la sua amicizia con sant’Ambrogio e, di quel legame, la dimensione di carità, che indusse il vescovo Bassiano a rimanere vicino all’amico nella fase più dolorosa della malattia che lo condusse alla morte. Un autore anonimo, nella biografia riportata dai Bollandisti scrive che, per divina ispirazione, gli preannunciò l’arrivo del Signore, non lo lasciò solo nell’ora di agonia e poi, dopo la morte, ne accompagnò le esequie, compose le sue spoglie nel sarcofago e, una volta tornato a Lodi, parlava sempre con gioia delle virtù dell’amico, ne conservava nel cuore il volto, pregava per lui, lo rivedeva spesso nei suoi sogni e frequentemente tornava a Milano per andare alla sua tomba (cf. Acta Sanctorum. Ianuarii II, ed. Anversa 1643, 224-225).

    Ecco: è questa amicizia fedele che mi ha dato da pensare; un’amicizia che per Bassiano era anche forma di discepolato. Si trattava, insomma, di relazioni che non avevano soltanto una dimensione affettiva, ma pure un carattere spirituale e anche pastorale, che non deve essere sottovalutato. Ho sentito un vescovo amico, invitato a presiedere l’Eucaristia in un’altra diocesi per la festa del Patrono (un po’ come me oggi), dire all’inizio della sua omelia queste parole: «i fedeli dovrebbero sapere e soprattutto vedere che i vescovi si vogliono bene, uniti non solo per ragioni pratiche e organizzative, ma anche di amicizia e di affetto… ». Sono parole che sottoscrivo pienamente, anche alla luce dell’amicizia tra san Bassiano e sant’Ambrogio.

 

    2. Alla luce di quanto abbiamo ascoltato dalla pagina del santo vangelo dobbiamo pure dire che si tratta di relazioni pastorali. Nella trama narrativa del buon pastore c’è anche la reciprocità: «conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me». E c’è il sapore delle relazioni schiette, generose, amicali: «Il pastore dà la propria vita per le pecore». C’è, da ultimo, il senso della vigilanza, della difesa, della protezione dell’altro. Gesù, difatti (lo abbiamo sentito) ha messo in guardia da quelli che «vengono a voi in vesti da pecore, ma dentro soni lupi rapaci» (Mt 7,15). Se volessimo descrivere i tratti del pastore evangelico dovremmo fuor di dubbio aggiungere dell’altro. Ad esempio, il fatto che egli è uno che entra dalla porta e non dalla finestra, il che significa che il pastore tenuto in conto da Gesù è uno che non cerca sotterfugi, scorciatoie, strade buie e contorte; egli non va per le giravolte. In lui, al contrario, c’è la rettitudine del pensare e la linearità dell’agire. È la linearità a fare della vita – della nostra vita – un cammino coerente.

    Nei giorni scorsi in due Diocesi della mia terra di origine ho presentato la figura del venerabile Servo di Dio il vescovo Antonio Bello (don Tonino, come è familiarmente conosciuto). Egli dettò una volta una meditazione ai politici della sua Diocesi e, ricorrendo all’immagine del pastore evangelico, disse parole che potremo ascoltare tutti noi: sacerdoti e fedeli, ma pure chiunque porta la responsabilità del fratello. E chi non ha questa incombenza? Un genitore, un insegnante, un datore di lavoro, un educatore, un «adulto»… Disse: «io credo che le cose cambierebbero molto nelle nostre città se ognuno applicasse a sé le parole che Gesù attribuiva alla sua persona: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece… vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge… egli è un mercenario e non gli importa delle pecore”. Coraggio! Riconsiderate su questo archetipo biblico la vostra missione. Riscoprite i volti. Usate tenerezza per gli agnelli appena nati e conducete pian piano le pecore madri. Non abbiate paura che vi accusino di parzialità se partite dai più deboli».

    Nel suo discorso mons. Bello portò anche l’esempio del sindaco La Pira (egli pure dichiarato venerabile da Papa Francesco nel luglio 2018) il quale in un discorso indirizzato ai Consiglieri comunali di Firenze il 24 settembre 1954 disse: «Voi avete nei miei confronti un solo diritto: quello di negarmi la fiducia! Ma non avete il diritto di dirmi: Signor Sindaco, non si interessi delle creature senza lavoro (licenziati o disoccupati), senza casa (sfrattati), senza assistenza (vecchi, malati, bambini)… È mio dovere fondamentale. Se c’è uno che soffre, io ho un dovere preciso: intervenire in tutti i modi, con tutti gli accorgimenti che l’amore suggerisce e che la legge fornisce, perché quella sofferenza sia o diminuita o lenita. Altra norma di condotta per un sindaco in genere e per un sindaco cristiano in specie non c’è» (in Scritti, VI, p. 83).

    In questa linea si svolse la vita di san Bassiano. L’anonimo autore che ho già citato prima parlando di lui scrive che egli preparava sempre per i poveri e i pellegrini una mensa dove potessero rifocillarsi ed egli stesso li serviva a tavola. Anche dopo la sua morte non mancò d’intervenire con eventi prodigiosi per aiutare quanti, rivolgendosi al Signore, confidavano nella sua intercessione. Se, però, vogliamo ulteriormente comprendere la figura del pastore evangelico dobbiamo almeno spiegare qual era l’idea che ne avevano i semiti all’epoca di Gesù. Per loro il pastore non era una semplice guida che sa scegliere i pascoli più nutrienti e i sentieri meno pericolosi. No, egli era «soprattutto il costante compagno di viaggio per cui le ore del suo gregge sono le sue stesse ore, stessi i rischi, stessa la sete e la fame, il sole batte ugualmente implacabile su di lui e sul gregge. Solo lui sa dare certezza e sicurezza perché i sentieri dispersivi o erronei sono con precisione scartati dal suo bastone. Il pastore è perciò il salvatore, la sua capacità di condurre ad uno spiazzo erboso decide il destino delle pecore» (cf. G. Ravasi, Il libro dei salmi, I, p. 435). Il salmo 23 (22) inizia così: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla…». Il beato Ch. de Foucauld – che sarà prossimamente canonizzato da Papa Francesco – esclamava: «Quanto siamo felici di essere nelle mani di un tale pastore… Egli cerca il nostro vero bene e ci sa dare ad ogni ora l’alimento necessario».

 

    3. Ho appena accennato alla figura del pastore-compagno di viaggio e questa potrebbe anche risultare un’allusione al cammino sinodale che voi avete intrapreso nella Chiesa di Lodi e che ora è sui percorsi conclusivi. Questo, poi, all’interno di un percorso sinodale avviato in tutte le altre Chiese, sicché il vostro Sinodo diocesano risulta ottimo tirocinio per il nuovo, comune impegno. Il vostro Vescovo ha in principio riferito un testo di sant’Ignazio di Antiochia, che è uno dei padri apostolici: «La fede è la vostra leva e la carità la strada che vi conduce a Dio. Siete tutti compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito Santo, in tutto ornati dei precetti di Gesù Cristo» (IX, 2: SC 10, 78-79).

    Richiamo, allora, l’attenzione su due sole espressioni. Anzitutto sul fatto che Ignazio chiama i cristiani compagni di viaggio, che in greco è detto synodoi. Anche sant’Ireneo di Lione ricorse a simile terminologia, dicendo che la chiesa è una synodia (cf. Adv. Haer. III, 4 §3; 15 §1: PL 7, 857. 917): abitualmente tradotto con «comunità», ma bene potrebbe tradursi pure con carovana. Come in Lc 2,44 dove leggiamo che Maria e Giuseppe «credendo che egli fosse nella carovana, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti. Così emerge meglio il volto di una Chiesa popolo di Dio pellegrinante, come vuole Lumen gentium (cf. nn. 8. 68), e che Francesco una volta ha così descritto: «Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (Evangelii gaudium, n. 87). Immagine suggestiva della «sinodalità»!

    In tale ottica, il sinodo è un’azione ecclesiale, un convenire per riflettere sulla vita della Chiesa, un discernimento comunitario che porta idealmente a delle scelte e a delle decisioni pastorali, diremmo oggi. Un sinodo, però, si fa solo a condizione che siamo noi i primi «sinodi», ossia i «compagni di viaggio»! Non serve fare un «sinodo» senza volere essere, noi per primi, dei sinodi. E d’altra parte, non ha efficacia un sinodo, se non produce «sinodali», cioè fratelli che vogliono stare e operare insieme: non soltanto come persone – che già è un inestimabile dono –, ma anche nelle scelte pastorali e nelle azioni ecclesiali. Il termine «sinodalità, a ben vedere, è solo da qualche anno entrato nel linguaggio comune, ma il concetto noi l’avevamo già, per molti aspetti. Ad esempio, quando anni or sono parlavamo di «pastorale integrata», nella quale il Convegno ecclesiale di Verona (2007) si ravvisava «un disegno complessivo richiesto dal ripensamento missionario in atto nelle nostre comunità», avvertendo, però, che «alla base della pastorale integrata… sta quella spiritualità di comunione che precede le iniziative concrete e purifica la testimonianza dalla tentazione di cedere a competizioni e personalismi» (Nota pastorale Rigenerati per una speranza viva, n. 25).

    A volte, però, ci accade di andare avanti per slogan, senza tener conto dei contenuti. È un rischio nel quale non possiamo e non dobbiamo cadere: usare gli slogan (e «sinodalità» rischia di diventare uno di questi) dimenticando i contenuti! Se si tratta fondamentalmente di «persone che si incontrano», la sinodalità non è anzitutto il prendere delle decisioni, ma piuttosto l’avvio di percorsi, processi (spesso lunghi, lenti e anche faticosi) di condivisione e di maturazione personali; è rispetto paziente delle tappe di crescita, senza affrettare i tempi, o cedere all’efficientismo. Per questo talvolta quella «carovana» di fratelli può somigliare alla fatica della fuga di Maria, Gesù e Giuseppe in Egitto. Anche quella fu una carovana; dolorosa sì, ma necessaria perché il Figlio non cadesse tra gli artigli di Erode.

    La sinodalità è discernimento messo in comune, il cui scopo è anzitutto il cercare la volontà Dio quale si fa conoscere dal suo stile, che appare dalla storia della salvezza. In tal senso san Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II hanno parlato di lettura dei segni dei tempi. Il mondo diventa libro traduceva efficacemente san Paolo VI (cf. Udienza generale del 16 aprile 1969). Discernimento in comune, che esige la volontà seria di mettere in comune ciò che della voce dello Spirito è stato colto nel silenzio del proprio cuore, avendo l’intelligenza di proporre, l’umiltà di non imporre; la generosità del donare, ma anche l’umiltà del domandare; l’intima gioia di partecipare, ma pure la modestia di non volersi vincitore a tutti i costi. Ormai, però, ho superato i limiti di un’omelia e me ne scuso. Questo, tuttavia, è ciò che io auguro al vostro Sinodo: camminare insieme, proseguendo nel pellegrinaggio che san Bassiano ha iniziato con la sua santa amicizia, ed è per questo che io oggi prego insieme con voi.

 

    Basilica Cattedrale di Lodi, 19 gennaio 2022

 

Marcello Card. Semeraro