Omelia ricordando il vescovo Dante Bernini nel centenario della nascita

 

Ci accoglieva quasi fossimo Cristo

Omelia ricordando il vescovo Dante Bernini nel centenario della nascita

 

      1. Il racconto di Emmaus, che la liturgia pasquale di questo giorno ci ha fatto riascoltare, è tra i più commentati e raffigurati del vangelo: non solo dagli esegeti, ma anche dai pittori, dai poeti e altri nelle varie arti. Lo stesso mons. Bernini, nel suo progetto di Sinodo degli anni ’90, indicò al cammino della Chiesa di Albano «tre vie» da percorrere: insieme con la via di Damasco, ossia dell’annuncio e con la via di Gerico, ossia del servizio, egli pose la via di Emmaus intendendo con essa spingere «ad una nuova consapevolezza del dono custodito nella liturgia». Divenuto suo successore, volli subito incamminarmi anch’io sulle stesse vie, affiancando ad esse la via Gerusalemme, ossia della comunione, e della Galilea, come via della missione.

Intuizioni anticipatrici, le sue e le mie? Non lo so. Il cammino «per una Chiesa sinodale», che in questi mesi vede impegnate tutte le comunità diocesane non indica, forse, in «comunione, partecipazione e missione» il trittico-guida? Per me, in verità, si trattava anzitutto di adesione a una paternità – quella di don Dante – di cui ammiravo l’esemplarità. I fili generativi non vanno solo da padre in figlio, ma pure da padre a padre! Forse, però, la vera questione è il sensus Ecclesiae, ma… sembra facile?

Il racconto evangelico, però, ci riporta alla via di Emmaus. Il vescovo Dante ora non è più nella condizione di quei due discepoli, dalla cui vista il Signore sparì dopo avere spezzato per loro il pane. Neppure è nella condizione di noi, che con le parole di san Tommaso d’Aquino davanti all’Eucaristia preghiamo: Iesu, quem velatum nunc aspicio… «Oh Gesù, che ora contemplo come nascosto, adempi il mio desiderio di contemplarti faccia a faccia e godere per sempre di te». Per altri aspetti, poi, siamo noi a ritrovarci nello stato d’animo smarrito, confuso e dolorante dei due di Emmaus.

 

    2. Nella scorsa Veglia Pasquale il Papa iniziava la sua omelia dicendo: «Molti scrittori hanno evocato la bellezza delle notti illuminate dalle stelle. Invece le notti di guerra sono solcate da scie luminose di morte». Il nostro pensiero corre senz’altro al dramma che ormai da lungo tempo si svolge in Ucraina; il Papa, però, evocando questa «Pasqua di guerra», come l’ha chiamata nel successivo messaggio urbi et orbi, ha ricordato che esistono pure «altre situazioni di tensione, sofferenza e dolore, che interessano troppe regioni del mondo e non possiamo né vogliamo dimenticare». Il Papa ci esorta a lasciarci vincere tutti dalla pace di Cristo.

In tale difficile e dolorosa situazione storica, vorrei cogliere dal racconto evangelico un aspetto particolare: quello dell’ospitalità. «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto», dicono i due di Emmaus all’ancora ignoto viandante. Il vangelo conclude: «Egli entrò per rimanere con loro». Perché scelgo proprio questo particolare? Lo faccio perché esso mi pare di una certa attualità in rapporto alla situazione di guerra, che ho evocato. J. Danielou – uno dei maggiori teologi del Novecento – in un suo importante saggio sulla teologia dell’ospitalità, riflettendo sulla radice latina (hos-) dei due termini, scrisse che un passo decisivo della civiltà fu quando lo straniero, da nemico (hostis) divenne ospite (hospes). E noi a che punto siamo? È ancora questa la nostra «civiltà»?

Il nemico diventa amico? Bello, ma non c’è da fare dell’irenismo, perché «accogliere l’altro» è sempre cosa estremamente complessa, affascinante e rischiosa; anche quando si tratta di innamoramento, di sponsalità. Accogliere l’altro, infatti, vuol dire sempre esporsi, rendersi vulnerabili. È il dramma che ha vissuto lo stesso Gesù nella sua passione: «l’amico in cui confidavo, che con me divideva il pane, contro di me alza il suo piede» (Sl 41,10; cf. Gv 13,18). Gesù lo vive ancora con noi, quando tradiamo la sua amicizia. Il Salmo 41, però, prosegue, ricordandoci che Dio ama, guarisce, sostiene la nostra debolezza.

 

    3. Diversi Padri della Chiesa si sono lasciati interrogare dalla proposta (ma sembra quasi una supplica, un’invocazione) dei due discepoli: Rimani con noi! Ed è singolare che mentre noi, magari in eccesso di pietismo, avremmo forse insistito sulle personali condizioni morali per accogliere Cristo, i Padri della Chiesa le hanno subito tradotte come dovere di ospitalità verso lo straniero, lo sconosciuto, il lontano.

Commentando il nostro testo evangelico Gregorio magno narra di un uomo che ogni giorno accoglieva alla mensa dei pellegrini; una volta ne accolse uno mai visto, ma proprio mentre gli lavava i piedi, quello scomparve. Gli apparve, però, la notte nel sonno e gli disse: «Tutti gli altri giorni mi hai accolto nelle mie membra, ma ieri hai ospitato proprio me». Commenta san Gregorio: «Quando, prima del giudizio, è ospitato nelle sue membra, è lui stesso che prende l’iniziativa di recarsi a trovare chi lo accoglie. Offrite, dunque, ora ospitalità a Cristo pellegrino, per non essere poi stranieri per lui nel giorno del giudizio finale» (Hom. in Evangelia XXIII, 2: PL 76, 1183).

Molto tempo dopo, Alano di Lilla, monaco cisterciense del XII secolo, così esortava: «O uomo, Cristo bussa alla tua porta e ti chiede ospitalità per le sue membra. Accoglilo pellegrino in terra, perché egli poi ti accolga nella gioia della patria. Se tu, uomo, ti riconosci davvero straniero e pellegrino in questo tempo, allora non rifiutare l’ospitalità. Se tu, infatti, escludi dall’ospitalità il prossimo, allora sappi che Cristo non verrà mai nel tuo petto» (De arte praedicatoria, XXXVII: PL 210, 181-182). Ricordiamolo quando fra poco reciteremo: Domine, non sum dignus

Ecco: io penso che ricevendoci qui tante volte nella sua casa, il caro don Dante ci abbia sempre accolti quasi ospitasse Cristo. Lo diceva col suo sorriso, con le sue braccia aperte. E penso pure che quando ci chiedeva di rimanere con lui a mensa, era come se ci dicesse: «Beati gli invitati alla mensa dell’Agnello» (cf. Ap 19,7.9).

 

    Basilica Santuario Santa Maria della Quercia – Viterbo, 20 aprile 2022

 

Marcello Card. Semeraro