Omelia nella festa di san Gabriele dell’Addolorata
Alla proclamazione del Vangelo abbiamo appena risposto innalzando a Cristo la nostra lode. Adesso, però, è il momento di interiorizzare la parola del Signore. Conosciamo bene, infatti, la reazione di Gesù, quando, udendo dalla folla levarsi la voce di una donna, che lo lodava dicendo: «Beato il grembo che ha portato e il seno che ha allattato!». Il Signore precisò: «Bea piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,27-28). Gesù, evidentemente, non amava essere lodato, ma ascoltato e accolto. Per noi, dunque, adesso è il momento di fare nostro ciò che abbiamo udito e in questo abbiamo come modelli i santi. Da loro, infatti, come ci ha ricordato il Concilio Vacano II, noi «impariamo la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità» (Lumen gentium, n. 50).
Ed oggi siamo qui proprio per apprendere da san Gabriele dell’Addolorata come mettere in pratica quello che Gesù ci ha detto. Anche questa è l’esortazione che ci giunge dal Papa, il quale così ha scritto: «Auspico che le manifestazioni programmate per il Centenario possano ravvivare l’affetto e la devozione di quanti vedono in questo Santo così amato un esemplare testimone del Vangelo e un intercessore presso Dio». Sono parole tratte dalla Lettera che, in occasione del centenario della canonizzazione di san Gabriele (13 febbraio 2021), Francesco ha scritto al vostro vescovo, il carissimo mons. Lorenzo Leuzzi.
Mentre lo saluto con affetto fraterno, lo ringrazio vivamente per l’invito che mi ha rivolto a vivere insieme con tutti voi questa annuale festa popolare di San Gabriele. Saluto di cuore anche il Rev.do P. Provinciale e la Comunità del Padri Passionisti, che cura la vita di questo Santuario. Mi unisco pure al saluto verso tutte le Autorità civili, militari e di polizia che sono presenti.
Il racconto del Vangelo ci ha presentato alcuni atteggiamenti fondamentali del discepolo di Gesù. Anzitutto lasciare a Gesù l’iniziava. La storia inizia con la raffigurazione di un tale che addirittura, con gesto alquanto inusuale, corre verso Gesù e gli si inginocchia davanti; quindi lo elogia col titolo di maestro buono, che qui vuol dire grande maestro, anzi: il più grande di tutti ai quali prima si era rivolto, ma le cui risposte non lo avevano soddisfatto. A questo punto Gesù gli risponde con un po’ di ironia: il maestro grande ce l’hai già ed è Dio con la sua legge (cf. Mc 10,18-19). E quell’altro gli replica: tutto questo io l’ho fatto già!
Il nodo, però, è proprio qui: nel fare! Gesù cerca, allora, di fargli capire che l’essere suoi discepoli non si identifica con la normale osservanza dei comandamenti della legge; Gesù vuole fargli capire che per «ereditare la vita eterna» non deve cominciare col fare, ma deve semplicemente essere. Essere figlio, come lui – Gesù – è Figlio! È ciò, che invece, capì san Paolo quando scrisse: «se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8,17). Per ereditare occorre anzitutto essere figli e quindi agire come tali.
Questo quell’uomo non riuscì a capirlo. Sant’Ambrogio commenterà: Deum sibi non sufficere iudicavit (Comm. in Cant. Cant. VI, 2: PL 15, 1940; Expositio in psalmum David CXVIII, Sermo XII, 37: PL 15, 1374). Dio non gli bastava; gli occorrevano pure i beni terreni! Ed è così che quell’uomo non riuscì a lasciare tuo quello che aveva e, come scriverà subito dopo l’evangelista, «si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni».
L’anonimato di quest’uomo nel racconto evangelico richiederebbe almeno un confronto, un esame. Penso anch’io come lui? Ad esempio, diciamo: non ho ucciso nessuno, non ho rubato ecc. Gesù, però, ci avverte che il non fare non basta. Per questo aggiunge a quel tale: «Va’, vendi quello che hai, dallo ai poveri… poi vieni e seguimi». Gesù gli indica la strada giusta per essere felice e gli offre la possibilità di non essere ricco per sé, ma di essere ricco per gli altri. «È questa l’unica perdita che felicemente fa guadagnare, è questo il dono che fa acquistare il regno dei cieli», Ipsa est dispersio quae feliciter congregat; ipsa erogatio quae coelorum regna mercatur (Cassiodoro, Expositio in Ps. 111, 9: PL 70, 807).
Questa fu l’esperienza di sant’Agostino, del quale appena ieri abbiamo celebrato la memoria. Scriveva: «ho amato ardentemente la perfezione, di cui parla il Signore, quando disse al giovane ricco: Va, vendi tutto quello, che hai, dà il ricavato ai poveri ed avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi; e l’ho fatto non con le mie forze, ma con l'aiuto della sua grazia» (Epist. 157, 4, 39: PL 33, 691). Questa fu pure l’esperienza di san Gabriele dell’Addolorata, al quale oggi noi stiamo guardando. Egli non era propriamente ricco; la sua dove nacque, però, era certamente una famiglia benestante. Il papà era governatore civile nell’amministrazione degli Stati Pontifici di allora; più ancora, però, la sua era una famiglia ricca di virtù. Ed è proprio nel contesto della famiglia che maturò, con gradualità e con riservatezza, la sua scelta di dedicarsi totalmente al Signore.
Ci furono, indubbiamente, delle situazioni che lo spinsero in tal senso, come la morte prematura di una sorella, vittima del colera che imperversava a Spoleto. Ma fu soprattutto uno «sguardo» che lo aiutò nella scelta finale e fu quello della Madre di Dio. Per solennizzare l’ultimo giorno dell’ottava dell’Assunzione, il 22 agosto 1856, a Spoleto si celebrava una grande processione. Anche Francesco era presente e inginocchiato tra la folla attendeva il passaggio della Sacra Icona. Francesco volge ad essa lo sguardo e gli pare che anche la Vergine lo guardi e quasi gli parli, invitandolo alla sequela di Cristo.
Anche il racconto evangelico ci ha parlato di uno sguardo. Del giovane ricco abbiamo udito che «Gesù fissatolo, lo amò». Al giovane Francesco lo sguardo di Gesù giunse attraverso la Madre. Ad Jesum per Mariam, scriveva san Luigi Grignion de Monfort: Maria ci porta a Gesù. E il nostro santo le fu grato avendo per lei un profondo, costante amore. Maria a sua volta lo aiutò ad accostarsi sempre di più a Gesù. Il nostro san Gabriele sperimentò così il mistero di Cana di Galilea, dove la Madre disse ai servitori nel banchetto di nozze: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). Ed egli fece qualsiasi cosa gli indicava Gesù. «Per piacere di Maria – scrive il postulatore della Causa di beatificazione – egli si spogliò totalmente del suo giudizio e della propria volontà, rendendosi docile e pieghevole a chicchessia; imparò a sopportare i disagi con allegrezza, le noie e le tentazioni con coraggio e confidenza; si studiò insomma di ricopiare in sé, quanto gli fu possibile, l’immagine di Gesù per amor di Maria» (P. Germano di S. Stanislao, Vita del B. Gabriele dell’Addolorata studente passionista, Tipografia Ponficia dell’Istituto Pio IX, Roma 1908, 174-175).
Fra tutti i titoli mariani il nostro san Gabriele predilesse quello di Addolorata al punto da esclamare: «Il mio paradiso sono i dolori della cara Madre mia» (Ivi, 176). In questo non sbagliava, perché collocandosi sul Calvario accanto a Maria egli si collocava proprio sul luogo dove la maternità di Maria si è allargata sino a divenire universale. Per questo poteva chiamarla Madre mia. Stando sotto la Croce, infatti, Maria partecipò al sacrificio redentivo del Figlio in modo così intimo da meritare di essere da lui proclamata madre non solo del discepolo Giovanni, ma del genere umano da lui in qualche modo rappresentato (cf. Paolo VI, Esort. Apost. Signum magnum I, 1). Sotto la Croce Maria non è più solo la madre del Capo, ma di tutto il suo corpo che è la Chiesa.
C’è un’ultima cosa che desidero sottolineare. Ho già ricordato che l’uomo di cui abbiamo sentito nella storia evangelica, quando udì il seguimi di Gesù, «si fece scuro in volto e se ne andò rattristato». Come fu la sequela del nostro san Gabriele? Le testimonianze nel processo per la sua beatificazione lo descrivono come giovane dolce e amorevole, ma pure vivace, ardente e amante del riso e dello scherzo. Egli aveva un animo gioviale. Una testimonianza dice che «i suoi compagni non rare volte pendevano rapiti ed attontiti all’ilarità del suo volto» ed anche quando fu colpito dalla malattia che lo condusse alla morte, «la sua giovialità può dirsi che era l’amo, che a lui tirava i correligiosi per tenergli compagnia presso il letto» (Vita del B. Gabriele cit., 105).
Nella sua esortazione Gaudete et exsultate sulla vocazione alla santità, papa Francesco ha messo in evidenza che «il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza» (n. 122). Queste parole possono ben applicarsi al nostro san Gabriele, come pure queste altre, sempre di papa Francesco: «Ci sono momenti duri, tempi di croce, ma niente può distruggere la gioia soprannaturale, che “si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto”. È una sicurezza interiore, una serenità piena di speranza che offre una soddisfazione spirituale incomprensibile secondo i criteri mondani» (n. 125).
Ed è così che, col «viso tutto ridente e tutto devoto» come ci dicono i testimoni, san Gabriele lasciò per il Paradiso questa terra (cf. Vita del B. Gabriele cit., 200).
Una santa nostra contemporanea, madre Teresa di Calcutta, diceva che la vera santità consiste nel fare la volontà di Dio con il sorriso.
Santuario di san Gabriele dell’Addolorata
Isola del Gran Sasso, 29 agosto 2021
Marcello Card. SEMERARO