Giacinta Marescotti

Giacinta Marescotti

(1585-1640)

Beatificazione:

- 14 luglio 1726

- Papa  Benedetto XIII

Canonizzazione:

- 24 maggio 1807

- Papa  Pio VII

- Basilica Vaticana

Ricorrenza:

- 30 gennaio

Vergine del Terz’Ordine regolare di San Francesco, che, dopo quindici anni passati tra vani piaceri, abbracciò una vita durissima e istituì a Viterbo confraternite per l’assistenza degli anziani e per l’adorazione della santa Eucaristia

  • Biografia
  • discorso giovanni paolo II
“O Dio, ti supplico, dai un senso alla mia vita, dammi la speranza, dammi la salvezza!”

 

Clarice Marescotti nacque a Vignanello, Viterbo, il 16 marzo 1585.

Quando si è belle, ricche e per di più di nobile nascita, si pensa di poter avere tutto. La pensava così anche Clarice, la figlia dei principi Marescotti di Vignanello: fin da piccola sognava una vita agiata e un buon matrimonio, ma non erano questi i piani che il Signore aveva per lei. A un certo punto, però, pensò di poterli realizzare: aveva conosciuto il giovane marchese Capizucchi e se ne era innamorata, ma ben presto questi fu destinato ad altre nozze, con la sorella minore di lei, Ortensia.

La delusione di Clarice fu talmente forte che decise di non perdonare il padre per averle preferito la sorella e iniziò a rendergli la vita impossibile. Il principe, per tutta risposta, la spedì a Viterbo nel monastero di San Bernardino dove aveva studiato da piccola e dove si era già fatta suora l’altra sorella, Ginevra.

Clarice non si perse d’animo: prese il nome di Giacinta, si sottomise alla vita di preghiera della comunità, abbracciò il voto di castità, ma si fece Terziaria francescana per non sottostare alla clausura. Neppure i voti di obbedienza e povertà facevano per lei: continuò a vestirsi con abiti raffinati, ad abitare in un appartamento ben arredato dove molti amici venivano a farle visita e a farsi servire da due novizie. Nobile era e come tale voleva continuare a vivere.

Nonostante lo scandalo che dava, Giacinta visse così per 15 anni. Poi si ammalò gravemente. E capì. Era nella sofferenza della malattia che il Signore la aspettava, paziente. “O Dio, ti supplico, dai un senso alla mia vita, dammi la speranza, dammi la salvezza!”, pregava. Una volta guarita chiese perdono alle consorelle e si spogliò di tutto. I successivi 24 anni della sua vita furono anni di privazioni e di dedizione al prossimo, specialmente ai poveri e agli ammalati.

Grazie all’aiuto finanziario degli amici di un tempo, dalla clausura riuscì a organizzare l’operato di due istituti assistenziali: i Sacconi (così chiamati per il sacco che indossavano i confratelli durante il loro servizio) infermieri che davano aiuto ai malati, e gli Oblati di Maria, che portavano conforto alle persone anziane e abbandonate. Lei stessa donava tutto quel che riceveva ai poveri e il suo esempio fece ritornare alla fede anche molti che si erano allontanati.

Giacinta morì nel 1640 e subito fu venerata dalla gente tra i Santi, in particolare tra quelli che erano stati grandi peccatori, poi convertiti dalla grazia. Durante la sua veglia funebre tutti vollero portarsi via un pezzetto della sua veste per conservarlo come reliquia e così il suo corpo dovette essere vestito tre volte. Sarà Papa Pio VII a canonizzarla nel 1807.

VISITA  PASTORALE A VITERBO

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
ALLE AUTORITÀ E AI CITTADINI

Piazza del Plebiscito - Viterbo
Domenica, 27 maggio 1984

 

Onorevole signor ministro!
Signor sindaco!

1. Ringrazio vivamente per le fervide espressioni che mi sono state rivolte a nome anche del governo italiano e del presidente della Repubblica come pure di tutti i cittadini di Viterbo, illustre capoluogo della Tuscia, e di quelli di Tuscania, Montefiascone, Acquapendente e Bagnoregio, strettamente uniti tra loro da profondi vincoli ecclesiali, oltre che da legami storici e geografici. Ringrazio parimenti le autorità civili e militari, dei comuni, della provincia e della regione del Lazio, per la calorosa accoglienza riservatami in questa mia visita che avviene nel quadro di importanti anniversari: di santa Rosa, celeste patrona di questa città; di santa Giacinta Marescotti, che tanta parte ebbe nella storia della società viterbese del secolo XVIII; e del ritorno del venerato corpo di san Crispino, che ho avuto la gioia di elevare alla gloria degli altari nel 1982.

A tutti e a ciascuno di voi rivolgo il mio affettuoso saluto, unitamente ai più calorosi voti di pace, di letizia e di prosperità spirituale e materiale.

2. Nel giungere in questa terra che fu il cuore dell’antica Etruria, sale al mio pensiero una lunga sequenza di vicende storiche, le quali, affondando le radici nel vetusto ceppo etrusco, si sono arricchite attraverso i secoli col susseguirsi di generazioni e di popoli nuovi, quali i romani, i longobardi e i franchi, e hanno impresso nell’animo di questo popolo un’indole propria, fatta di apertura mentale e culturale e di un grande senso del rispetto dell’uomo e dei suoi valori.

La nota forse più caratteristica di questa terra è la sua viva adesione alla fede cristiana, alimentata e consolidata da pastori, prelati e religiosi insigni per dottrina e santità.

È superfluo ricordare i nomi dei cardinali Brancaccio, del teologo e filosofo Egidio da Viterbo, di santa Lucia Filippini e della beata Rosa Venerini, fondatrici delle Maestre pie, perché, insieme con i santi già menzionati, sono a voi ben noti e formano il vostro vanto.

Terra cristiana, questa, che è stata anche onorata dalla presenza di alcuni miei predecessori, i quali furono qui eletti alla cattedra di Pietro o qui sostarono per un determinato periodo di tempo o qui riposarono nella pace del Signore. Tra questi miei venerati predecessori, mi piace ricordare Gregorio X che fu qui eletto papa, e che venne poi elevato agli onori dei beati; e Clemente IV, il quale - come ha ricordato il signor ministro Giulio Andreotti - canonizzò in questa città santa Edvige, duchessa di Polonia.

3. Il ricordo di questa ricca trama di storia e di fede si fonde con la realtà presente del Viterbese, il quale è ben inserito nel concerto degli sforzi che la cara nazione italiana sta compiendo per una sempre maggiore elevazione morale, culturale, civile e sociale dei suoi abitanti. Tale impegno costruttivo ha portato - dopo i gravi danni provocati dal bombardamento aereo dell’ultimo conflitto mondiale e, nel 1971, dal terremoto di Tuscania - a una rinascita e ha fatto registrare una ripresa nei vari settori della vita pubblica e dell’economia.

Ma accanto a questi confortanti traguardi raggiunti, non mancano, purtroppo, talune situazioni che attendono ancora una conveniente soluzione. Penso a quanti sono ancora privi di un lavoro sicuro e ben rimunerato o di una casa dignitosa; penso ai lavoratori dei campi che abitano in casolari isolati e ancora non hanno in misura sufficiente il conforto di un’adeguata assistenza sociale, culturale e religiosa; penso a coloro che sono afflitti dal triste fenomeno della droga e a quanti sono portatori di handicap.

Il dramma di questi nostri fratelli forma il mio dramma interiore: desidero assicurarli che sono vicini al mio cuore e che prego perché i loro problemi e le loro dolorose situazioni trovino presto adeguata soluzione.

Nell’attesa di poter deporre ai piedi dell’antica statua della Vergine santissima della Quercia le intenzioni, le necessità e le ansie di tutti i viterbesi, invoco su ciascuno di voi una grande benedizione con l’auspicio che essa discenda su questa città e su tutto l’Alto Lazio fecondatrice di abbondanti favori celesti.