Maria Antonia de San José (Antonia de Paz y Figueroa) detta Mama Antula

Maria Antonia de San José (Antonia de Paz y Figueroa) detta Mama Antula

(1730-1799)

Beatificazione:

- 27 agosto 2016

- Papa  Francesco

Canonizzazione:

- 11 febbraio 2024

- Papa  Francesco

-

Ricorrenza:

- 7 marzo

Vergine, laica consacrata, fondatrice della Casa di Esercizi di Buenos Aires, chiamata dal popolo Mama Antula. Dopo l’espulsione dei Gesuiti dal Paese girò di città in città nelle regioni povere del nord-est argentino promuovendo gli esercizi spirituali secondo lo spirito ignaziano, confidando unicamente nella Provvidenza. In soli 8 anni riesce a offrire gli esercizi spirituali per 70.000 persone.

  • Biografia
  • Omelia
  • dall'omelia di beatificazione
  • Angelus
"Andare dove Dio non fosse conosciuto per farLo conoscere"

 

María Antonia de Paz y Figueroa nacque nel 1730 nella provincia di Tucumán, Argentina, in una famiglia patrizia e benestante. Sin da fanciulla fu educata secondo i valori ed i principi cristiani ed entrò ben presto in contatto con la spiritualità ignaziana. Nel 1745 vestì l’abito di “beata” gesuita emettendo i voti privati e, ritiratasi nel cosiddetto locale “Beaterio”, iniziò a condurre un’esistenza comunitaria insieme ad altre donne consacrate.

Nel 1767, dopo l’espulsione della Compagnia di Gesù dai territori della Corona di Spagna, Maria Antonia maturò l’intenzione di proseguire l’apostolato degli esercizi spirituali, considerati un bene prezioso per le persone di ogni livello sociale. Per tale progetto ricevette il pieno consenso del confessore e del Vescovo della città di Santiago del Estero, dove aprì una casa. Il metodo seguito dalla Serva di Dio era molto semplice. Ella, infatti, appena arrivava in una città o in un villaggio indicati come sede per gli esercizi, si presentava subito alle diverse autorità per ottenere i relativi permessi.

Una volta affissi gli avvisi, si preoccupava di invitare qualche sacerdote zelante e in grado di predicare gli esercizi spirituali e di cercare un ambiente consono e sufficiente per poter ospitare, per circa una decina di giorni, un centinaio di persone. In queste occasioni, riuscì sempre a reperire tutto il necessario per il mantenimento gratuito dei partecipanti, nonché a risolvere tutti i molteplici problemi logistici che le si presentarono. I frutti che la Serva di Dio colse alla fine e alla chiusura di ogni corso furono molteplici: si assistette in molti casi alla riforma dei costumi, ad un profondo cambiamento di vita, all’estirpazione di vizi, alla conversione di molti peccatori, all’abbandono delle vanità del mondo e al miglioramento dello stato sacerdotale e della vita religiosa sia maschile che femminile.

Maria Antonia diventò per molti partecipanti ai diversi eserciti spirituali un esempio di umile e spontanea semplicità, capace di edificare attraverso la sua disponibilità e saggezza. Nel 1779, dopo un periodo di viaggi tra le città di Jujuy, Salta, Tucumán, Catamarca, La Rioja e Córdoba (tremila chilometri a piedi!) per preparare gli esercizi spirituali, la Serva di Dio si stabilì nella città di Buenos Aires (percorrendo a piedi altri mille e cinquecento chilometri circa), dove ben presto ottenne la stima e la fiducia del Vescovo, che le concesse diverse e ampie facoltà. Introdusse la devozione a San Gaetano, attualmente molto diffusa in Argentina.

La sua ferma fede, la sua straordinaria speranza e la sua immensa carità verso Dio e verso il suo prossimo resero Maria Antonia un autentico strumento nelle mani del Signore e, attraverso il suo fulgido apostolato, segnò in profondità la vita cristiana dell’ambiente. Donna convinta ed entusiasta, affrontò con fiducia ogni circostanza della sua esistenza, soprattutto quelle più avverse. Fu amante della preghiera, del sacrificio e della penitenza, al punto che era solita camminare a piedi nudi e indossare il cilicio. La Serva di Dio fu, inoltre, stimata per la sua eccezionale prudenza, dimostrata soprattutto nel chiedere consigli, prima di prendere qualsiasi tipo di decisione, a persone sagge e alle autorità religiose.

Grazie alla sua amabilità fu in grado di affratellare le persone ricche con quelle povere senza creare malcontenti. Tutto ciò le procurò la stima di molti benefattori che diedero sostegno alla sua opera. Tra gli anni 1790 e 1792, si recò fino alle terre dell’attuale Uruguay per poter promuovere e diffondere il suo apostolato. Di ritorno a Buenos Aires, si dedicò alla costruzione di un edificio più ampio dove svolgere le sue attività, realizzando una casa di esercizi spirituali ancora oggi in funzione. Il suo apostolato venne affidato ad un gruppo di “beate”, che successivamente costituiranno l’Istituto delle Figlie del Divin Salvatore.

Nei primi giorni del marzo 1799 la Serva di Dio si ammalò gravemente. Si spense il 7 marzo 1799, completamente e serenamente abbandonata nelle mani del Signore. Il suo corpo fu sepolto in povertà assoluta nel Cimitero accanto alla chiesa della Pietà di Buenos Aires e, in seguito, trasferito all’interno della medesima, dove oggi è meta di pellegrinaggi.  

 

Cappella Papale presieduta da Papa Francesco con il Rito di Canonizzazione della Beata Maria Antonia di San Giuseppe de Paz y Figueroa

 

Alle ore 9.30 di questa mattina, VI Domenica del Tempo Ordinario, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco ha presieduto la Celebrazione Eucaristica e il Rito di Canonizzazione della Beata Maria Antonia di San Giuseppe de Paz y Figueroa (1730–1799), Fondatrice della casa di esercizi spirituali a Buenos Aires. Era presente alla Santa Messa il Presidente della Repubblica Argentina, che il Santo Padre ha salutato prima e a conclusione del rito, successivamente ha lasciato la Basilica.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato dopo la proclamazione del Vangelo:

 

La prima Lettura (cfr Lv 13,1-2.45-46) e il Vangelo (cfr Mc 1,40-45) parlano della lebbra: una malattia che comporta la progressiva distruzione fisica della persona e a cui spesso, purtroppo, vengono ancora oggi associati, in alcuni luoghi, atteggiamenti di emarginazione. Lebbra ed emarginazione: sono due mali da cui Gesù vuole liberare l’uomo che incontra nel Vangelo. Vediamo la sua situazione.

Quel lebbroso è costretto a vivere fuori della città. Fragile per la sua malattia, invece di essere aiutato dai suoi concittadini è abbandonato a sé stesso, anzi è ferito ulteriormente dall’allontanamento e dal rifiuto. Perché? Per paura, prima di tutto, la paura di essere contagiati e di fare la sua stessa fine: “Che non accada anche a noi! Non rischiamo, stiamo alla larga!”. La paura. Poi per pregiudizio: “Se ha una malattia tanto orribile – era l’opinione comune – certamente è perché Dio lo sta punendo per qualche colpa che ha commesso: e allora se lo merita, ben gli sta!”. Questo è il pregiudizio. E infine per falsa religiosità: a quel tempo, infatti, si riteneva che toccare un morto rendesse impuri, e i lebbrosi erano gente a cui la carne “moriva addosso”. Dunque – si pensava – sfiorarli voleva dire diventare impuri come loro: ecco una religiosità distorta, che alza barriere e affossa la pietà.

Paura, pregiudizio e falsa religiosità: ecco tre cause di una grande ingiustizia, tre “lebbre dell’anima” che fanno soffrire un debole, scartandolo come un rifiuto. Fratelli, sorelle, non pensiamo che siano solo cose del passato. Quante persone sofferenti incontriamo sui marciapiedi delle nostre città! E quante paure, pregiudizi e incoerenze, pure tra chi crede e si professa cristiano, continuano a ferirle ulteriormente! Anche nel nostro tempo c’è tanta emarginazione, ci sono barriere da abbattere, “lebbre” da curare. Ma come? Come possiamo farlo? Cosa fa Gesù? Gesù compie due gesti: tocca e guarisce.

Primo gesto: toccare. Gesù, al grido di aiuto di quell’uomo (cfr v. 40), sente compassione, si ferma, stende la mano e lo tocca (cfr v. 41) pur sapendo che, facendolo, diventerà a sua volta un “rifiutato”. Anzi, paradossalmente, le parti si invertiranno: il malato, quando sarà guarito, potrà andare dai sacerdoti ed essere riammesso nella comunità; Gesù, invece, non potrà più entrare in nessun centro abitato (cfr v. 45). Il Signore poteva allora evitare di toccare quella persona, sarebbe bastato “guarirla a distanza”. Ma Cristo non è così, la sua via è quella dell’amore che si fa vicino a chi soffre, che entra in contatto, che ne tocca le ferite. La vicinanza di Dio. Gesù è vicino, Dio è vicino. Il nostro Dio, cari fratelli e sorelle, non è rimasto distante in cielo, ma in Gesù si è fatto uomo per toccare la nostra povertà. E di fronte alla “lebbra” più grave, quella del peccato, non ha esitato a morire in croce, fuori dalle mura della città, rigettato come un peccatore, come un lebbroso, per toccare fino in fondo la nostra realtà umana. Un santo scriveva: “Si è fatto lebbroso per noi”.

E noi, che amiamo e seguiamo Gesù, sappiamo fare nostro il suo “tocco”? Non è facile e dobbiamo vigilare quando nel cuore si affacciano gli istinti contrari al suo “farsi vicino” e al suo “farsi dono”: ad esempio quando prendiamo le distanze dagli altri per pensare a noi stessi, quando riduciamo il mondo alle mura del nostro “star bene”, quando crediamo che il problema siano sempre e solo gli altri… In questi casi stiamo attenti, perché la diagnosi è chiara, è “lebbra dell’anima”: malattia che ci rende insensibili all’amore, alla compassione, che ci distrugge attraverso le “cancrene” dell’egoismo, del preconcetto, dell’indifferenza e dell’intolleranza. Stiamo attenti, fratelli e sorelle, anche perché, come per le prime macchioline di lebbra, che compaiono sulla pelle nella fase iniziale del male, se non si interviene subito, l’infezione cresce e diventa devastante. Davanti a questo rischio, alla possibilità di questa malattia dell’anima nostra, qual è la cura?

Ci aiuta il secondo gesto di Gesù, che guarisce (cfr v. 42). Il suo “toccare” infatti non indica solo vicinanza, ma è l’inizio della guarigione. E la vicinanza è lo stile di Dio: Dio sempre è vicino, compassionevole e tenero. Vicinanza, compassione e tenerezza. Questo è lo stile di Dio. E noi siamo aperti a questo? Perché è lasciandoci toccare da Gesù che guariamo dentro, nel cuore. Se ci lasciamo toccare da Lui nella preghiera, nell’adorazione, se gli permettiamo di agire in noi attraverso la sua Parola e i Sacramenti, il suo contatto ci cambia realmente, ci risana dal peccato, ci libera dalle chiusure, ci trasforma al di là di quanto possiamo fare da soli, con i nostri sforzi. Le nostre parti ferite – quelle del cuore e dell’anima nostra – le malattie dell’anima vanno portate a Gesù: la preghiera fa questo; ma non una preghiera astratta, fatta solo di formule da ripetere, bensì una preghiera sincera e viva, che depone ai piedi di Cristo le miserie, le fragilità, le falsità, le paure. Pensiamoci e chiediamoci: io faccio toccare a Gesù le mie “lebbre” perché mi guarisca?

Al “tocco” di Gesù, infatti, rinasce il meglio di noi stessi: i tessuti del cuore si rigenerano; il sangue delle nostre spinte creative riprende a fluire carico di amore; le ferite degli errori del passato si rimarginano e la pelle delle relazioni ritrova la sua consistenza sana e naturale. Ritorna così la bellezza che abbiamo, la bellezza che siamo; la bellezza di essere amati da Cristo, riscopriamo la gioia di donarci agli altri, senza paure e senza pregiudizi, liberi da forme di religiosità anestetizzanti e prive della carne del fratello; riprende forza in noi la capacità di amare, al di là di ogni calcolo e convenienza.

Allora, come dice una bellissima pagina della Scrittura (cfr Ez 37,1-14), da quella che sembrava una valle di ossa inaridite risorgono dei corpi viventi e rinasce un popolo di salvati, una comunità di fratelli. Ma sarebbe ingannevole pensare che questo miracolo richieda forme grandiose e spettacolari per realizzarsi. Esso avviene principalmente nella carità nascosta di ogni giorno: quella che si vive in famiglia, al lavoro, in parrocchia e a scuola; per strada, negli uffici e nei negozi; quella che non cerca pubblicità e non ha bisogno di applausi, perché all’amore basta l’amore (cfr S. Agostino, Enarr. in Ps. 118, 8, 3). Lo sottolinea Gesù oggi, quando ordina all’uomo guarito di «non dire niente a nessuno» (v. 44): vicinanza e discrezione. Fratelli e sorelle, Dio ci ama così e se ci lasciamo toccare da Lui, anche noi, con la forza del suo Spirito, potremo diventare testimoni dell’amore che salva!

E oggi pensiamo a María Antonia de San José, “Mama Antula”. È stata una viandante dello Spirito. Ha percorso migliaia di chilometri a piedi, attraverso deserti e strade pericolose, per portare Dio. Oggi è per noi un modello di fervore e audacia apostolica. Quando i Gesuiti furono espulsi, lo Spirito accese in lei una fiamma missionaria basata sulla fiducia nella Provvidenza e sulla perseveranza. Invocò l’intercessione di San Giuseppe e, per non stancarlo troppo, pure quella di San Gaetano Thiene. Per questo motivo introdusse la devozione a quest’ultimo, e la sua prima immagine arrivò a Buenos Aires nel secolo XVIII. Grazie a Mama Antula questo santo, intercessore della Divina Provvidenza, si fece strada nelle case, nei quartieri, nei trasporti, nei negozi, nelle fabbriche, e nei cuori, per offrire una vita dignitosa attraverso il lavoro, la giustizia, il pane quotidiano sulla tavola dei poveri. Preghiamo oggi María Antonia, Santa María Antonia de Paz de San José, che ci aiuti tanto. Il Signore ci benedica tutti.

Traduzione in lingua francese

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Traduzione in lingua araba

«Pellegrina del bene». Con questa immagine semplice ed eloquente il cardinale Angelo Amato ha sintetizzato la figura di María Antonia de San José — in Argentina da tutti conosciuta come Mama Antula — alle migliaia di fedeli riuniti a Santiago del Estero, la mattina di sabato 27 agosto, per la beatificazione di questa «donna straordinaria e coraggiosa» che, nella seconda metà del Settecento, supplì all’allontanamento dei gesuiti dal Paese attraversando l’Argentina per invitare l’avvicinamento a Gesù attraverso la pratica degli esercizi spirituali ignaziani.

Durante l’omelia della messa presieduta nel grande parco cittadino di Aguirre in rappresentanza di Papa Francesco, il prefetto della Congregazione delle cause dei santi ha tratteggiato la vicenda biografica e spirituale di María Antonia de Paz y Figueroa: «A quindici anni veste l’abito di beata gesuita ed emette i voti privati, prendendo il nome di María Antonia di San José. Si dedica alla preghiera, alla penitenza e all’apostolato, insegnando il catechismo ai bambini e distribuendo le elemosine ai poveri». Dopo l’espulsione dei gesuiti nel 1767, María Antonia — ha ricordato il cardinale Amato — «iniziò l’apostolato degli esercizi spirituali, prima a Santiago del Estero e dintorni e poi a Buenos Aires, dove aprì la prima casa di esercizi nel 1780» e dove fondò il “Beateario” «destinato a dare continuità alla sua opera».

L’impatto della sua predicazione fu notevole grazie alla «straordinaria intraprendenza apostolica e vita santa»: Mama Antula, «donna sconosciuta, senza nessun potere e credito, si sentì ispirata a continuare l’opera dei padri, consacrandosi con tutte le sue forze a chiamare i fedeli alla conversione mediante la pratica degli esercizio spirituali. Scalza, con indosso una semplice tunica e un cilicio e con un bastone a forma di croce, viaggiava per valli e monti esortando alla penitenza». Instancabile «missionaria e pioniera della formazione dei laici e dei sacerdoti», venne seguita da un numero straordinario di fedeli, «le sue lettere tradotte in italiano, francese e latino vennero conosciute e diffuse in tutta Europa a edificazione di religiosi e laici».

María Antonia, ha ricordato il cardinale Amato, viveva di elemosine con le quali manteneva anche coloro che seguivano gli esercizi spirituali: «in tal modo il rinnovamento spirituale da lei promosso si estese da Santiago del Estero a Jujuy, Salta, Tucumán, Catamarca, La Rioja, fino a Córdoba. A Córdoba, ad esempio, all’inizio del 1778, in tre mesi e mezzo parteciparono agli esercizi, dando buoni frutti, circa 3000 persone, uomini e donne, giunte anche da parrocchie lontane». Nel 1791 estese il suo apostolato in Uruguay, ma fu Buenos Aires, la capitale argentina, «il teatro privilegiato della sua testimonianza di carità». Qui fondò nel 1797 la Santa casa di esercizi spirituali. Qui, «sfinita dalla fatica e gravemente inferma», morì il 7 marzo 1799 all’età di 69 anni. E qui il suo corpo riposa, nella basilica di Nostra Signora della Pietà.

Proseguendo l’omelia, il rappresentante del Papa è andato al cuore della spiritualità della beata, definita — richiamando le parole usate dal Pontefice nella lettera scritta per l’occasione — «docile strumento della Provvidenza e zelante missionaria al servizio del Vangelo». La vita interiore di Mama Antula era infatti «nutrita di grande fede in Dio e nella sua provvidenza». Anche i sacerdoti, ha ricordato il cardinale, «uscivano trasformati» dall’incontro con lei. Tanto che, ha raccontato il porporato citando alcune testimonianze storiche, «lo stesso parroco della cattedrale di Buenos Aires, dopo aver partecipato agli esercizi come cappellano, desiderava rinunciare al suo incarico e ai suoi beni per dedicarsi ad accompagnare María Antonia nel suo ministero».

«Era — ha proseguito il porporato — una innamorata di Gesù Cristo e amava profondamente l’Eucaristia». Nutriva una speciale devozione per il Bambino Gesù, il Manuelito, come lo chiamava affettuosamente», alla cui provvidenza si affidava per qualsiasi necessità. Sembrava che in lei «rivivesse lo spirito di sant’Ignazio di Loyola. Molti la ritengono una donna forte che, sotto lo stendardo del Loyola, ha assicurato a Cristo gran parte dell’America meridionale». Con la sua «umiltà esemplare», la beata «metteva pace nelle controversie familiari e intraecclesiali», dava conforto ai carcerati, «trattava allo stesso modo i grandi e i piccoli, il nobile e il plebeo», e infondeva a tutti «fiducia e serenità». Gli esercizi da lei predicati «furono la terapia miracolosa che guarì schiere di laici e di sacerdoti dalla tiepidezza, trasformandoli in fedeli discepoli di Cristo e in apostoli del suo Vangelo». Una figura, ha concluso il cardinale, che insieme al beato Gabriel Brochero — che sarà canonizzato il prossimo 16 ottobre — è «un altro gioiello prezioso della corona dei santi argentini che sono stati missionari instancabili del Vangelo».

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 28 agosto 2016

 

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

L’episodio del Vangelo di oggi ci mostra Gesù nella casa di uno dei capi dei farisei, intento ad osservare come gli invitati a pranzo si affannano per scegliere i primi posti. È una scena che abbiamo visto tante volte: cercare il posto migliore anche “con i gomiti”. Nel vedere questa scena, egli narra due brevi parabole con le quali offre due indicazioni: una riguarda il posto, l’altra riguarda la ricompensa.

La prima similitudine è ambientata in un banchetto nuziale. Gesù dice: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedigli il posto!”…Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto» (Lc 14,8-9). Con questa raccomandazione, Gesù non intende dare norme di comportamento sociale, ma una lezione sul valore dell’umiltà. La storia insegna che l’orgoglio, l’arrivismo, la vanità, l’ostentazione sono la causa di molti mali. E Gesù ci fa capire la necessità di scegliere l’ultimo posto, cioè di cercare la piccolezza e il nascondimento: l’umiltà. Quando ci poniamo davanti a Dio in questa dimensione di umiltà, allora Dio ci esalta, si china verso di noi per elevarci a sé; «perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (v. 11).

Le parole di Gesù sottolineano atteggiamenti completamente diversi e opposti: l’atteggiamento di chi si sceglie il proprio posto e l’atteggiamento di chi se lo lascia assegnare da Dio e aspetta da Lui la ricompensa. Non dimentichiamolo: Dio paga molto di più degli uomini! Lui ci dà un posto molto più bello di quello che ci danno gli uomini! Il posto che ci dà Dio è vicino al suo cuore e la sua ricompensa è la vita eterna. «Sarai beato – dice Gesù – … Riceverai la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti» (v. 14).

È quanto viene descritto nella seconda parabola, nella quale Gesù indica l’atteggiamento di disinteresse che deve caratterizzare l’ospitalità, e dice così: «Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi e ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (vv. 13-14). Si tratta di scegliere la gratuità invece del calcolo opportunistico che cerca di ottenere una ricompensa, che cerca l’interesse e che cerca di arricchirsi di più. Infatti i poveri, i semplici, quelli che non contano, non potranno mai ricambiare un invito a mensa. Così Gesù dimostra la sua preferenza per i poveri e gli esclusi, che sono i privilegiati del Regno di Dio, e lancia il messaggio fondamentale del Vangelo che è servire il prossimo per amore di Dio. Oggi, Gesù si fa voce di chi non ha voce e rivolge a ciascuno di noi un accorato appello ad aprire il cuore e fare nostre le sofferenze e le ansie dei poveri, degli affamati, degli emarginati, dei profughi, degli sconfitti dalla vita, di quanti sono scartati dalla società e dalla prepotenza dei più forti. E questi scartati rappresentano in realtà la stragrande maggioranza della popolazione.

In questo momento, penso con gratitudine alle mense dove tanti volontari offrono il loro servizio, dando da mangiare a persone sole, disagiate, senza lavoro o senza fissa dimora. Queste mense e altre opere di misericordia – come visitare gli ammalati, i carcerati… – sono palestre di carità che diffondono la cultura della gratuità, perché quanti vi operano sono mossi dall’amore di Dio e illuminati dalla sapienza del Vangelo. Così il servizio ai fratelli diventa testimonianza d’amore, che rende credibile e visibile l’amore di Cristo.

Chiediamo alla Vergine Maria di condurci ogni giorno sulla via dell’umiltà, Lei che è stata umile tutta la vita, e di renderci capaci di gesti gratuiti di accoglienza e di solidarietà verso gli emarginati, per diventare degni della ricompensa divina.

Dopo l'Angelus:

Cari fratelli e sorelle,

desidero rinnovare la mia vicinanza spirituale agli abitanti del Lazio, delle Marche e dell’Umbria, duramente colpiti dal terremoto di questi giorni. Penso in particolare alla gente di Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto, Norcia. Ancora una volta dico a quelle care popolazioni che la Chiesa condivide la loro sofferenza e le loro preoccupazioni. Preghiamo per i defunti e per i superstiti. La sollecitudine con cui Autorità, forze dell’ordine, protezione civile e volontari stanno operando, dimostra quanto sia importante la solidarietà per superare prove così dolorose. Cari fratelli e sorelle, appena possibile anch’io spero di venire a trovarvi, per portarvi di persona il conforto della fede, l’abbraccio di padre e fratello e il sostegno della speranza cristiana. Preghiamo per questi fratelli e sorelle tutti insieme:

Ave Maria…

Ieri a Santiago del Estero, in Argentina, è stata proclamata Beata Suor Maria Antonia de San José; il popolo la chiama Mama Antula. La sua esemplare testimonianza cristiana, specialmente il suo apostolato nella promozione degli Esercizi Spirituali, possano suscitare il desiderio di aderire sempre più a Cristo e al Vangelo.

Giovedì prossimo, 1° settembre celebreremo la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, insieme con i fratelli ortodossi e di altre Chiese: sarà un’occasione per rafforzare il comune impegno a salvaguardare la vita, rispettando l’ambiente e la natura.

Saluto adesso tutti i pellegrini provenienti dall’Italia e da diversi Paesi, in particolare i chierichetti di Kleinraming (Austria); los Marinos de la Nave Escuela “Fragata Libertad” - l’ho detto in spagnolo perché la terra attira!; i fedeli di Gonzaga, Spirano, Brembo, Cordenons e Daverio; i giovani di Venaria, Val Liona, Angarano, Moncalieri e Tombelle.

A tutti auguro una buona domenica e, per favore non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!