Nunzio Sulprizio

Nunzio Sulprizio

(1817-1836)

Beatificazione:

- 01 dicembre 1963

- Papa  Paolo VI

Canonizzazione:

- 14 ottobre 2018

- Papa  Francesco

- Piazza San Pietro

Ricorrenza:

- 5 maggio

Laico, orfano, malato di cancrena a una gamba e debole nel corpo, tutto sopportò con animo sereno e gioioso; di tutti si prese cura, consolò benevolmente i compagni di sofferenza e, nonostante la sua povertà, cercò di alleviare in ogni modo la miseria dei poveri.

  • Biografia
  • Omelia
  • omelia di beatificazione
  • Lettera Apostolica
Tutta dedicata a Dio, la vita di questo giovane fu segnata da due grandi amori: “l’Eucaristia e la Madonna”

 

 

VITA  E  OPERE

 

 

    Nunzio Sulprizio nacque il 13 aprile 1817 a Pescosansonesco, in provincia di Pescara. I genitori, il papà Domenico di professione calzolaio e la mamma Rosa, filatrice, erano persone di grande dignità, devoti e timorati di Dio. Lo stesso giorno della nascita fu battezzato.

    Nunzio fu l’unico frutto di questo amore. Al terzo anno di età ricevette la cresima. Dopo soli tre mesi da questa data, il papà morì: questa fu la prima ferita al cuore di Nunzio, la cui vita si preannunciava tutt’altro che facile.

    La madre, anche per assicurare una certezza economica al figlio, passò a nuove nozze con Giacomo Antonio De Fabiis di Corvara (Pescara).

    A Corvara, il bambino venne mandato per la prima volta a scuola da don Giuseppe De Fabiis, dove apprese le prime nozioni della fede cristiana. Una nuova tragedia però era alle porte: il 5 marzo 1823 muore la madre. Rimasto orfano, Nunzio fu mandato dalla nonna materna a Pescosansonesco. Da lei imparò l’amore per l’Eucarestia, per i sacerdoti e per la Santissima Vergine.

    Riprese a frequentare la scuola presso don Nicola Fantacci, distinguendosi subito per la mitezza, la bontà e la spiccata intelli­genza. Proprio alla nonna rivelò per la prima volta il desiderio di ricevere la Santissima Eucarestia; desiderio purtroppo allora irrealiz­zabile a causa della prassi ivi diffusa di ammettere alla mensa eucaristica i ragazzi di 14 anni.

    Nel 1826, anche la nonna morì e Nunzio, che nel frattempo aveva compiuto nove anni, rimase solo.

    Fu così che uno zio materno, Domenico Luciani, fabbro ferraio, burbero e dedito al vino, uomo violento e per niente timorato di Dio, prese Nunzio con sé. Lo zio gli vietò di continuare la scuola e gli impose di recarsi ogni giorno presso la bottega per imparare il mestiere di fabbro ferraio, ma, più che insegnargli il mestiere, egli aveva intenzione di sfruttarlo come garzone della sua officina. Nella bottega il povero Nunzio, di debole costituzione, fu sottoposto ai lavori più faticosi. Il lavoro duro non era adatto né alla sua età né alla sua costituzione fisica tutt’altro che robusta. Fu proprio durante una delle consegne di ferro che lo zio gli impose di fare durante una gelida giornata d’inverno, che si manifestarono i segni evidenti del male che nel frattempo, silenziosamente, stava scavando nelle sue ossa e che inesorabilmente lo avrebbe condotto nel giro di pochi anni alla morte.

    La sua povertà era evidente: Nunzio indossava cenci scoloriti e strappati, scarpe grosse e rotte, e quanti lo incontravano erano stupiti dal sorriso che egli mostrava e col quale salutava le persone. Era “adulto” nella pratica del bene, un testimone della gioia che nasce dalla preghiera e dall’incontro con Cristo sofferente. Nel frattempo sul collo del piede sinistro si era ormai formata una piaga purulenta, che dava al povero giovane dolori lancinanti. La sera, terminato il lavoro all’officina, egli sempre più stanco e denutrito si recava presso il torrente per lavare le bende e ripulire la piaga.

    In questo luogo Nunzio non solo lavava la ferita, ma elevava anche la mente a Dio, intrattenendosi in preghiera con la Vergine Maria alla quale era devoto fin da bambino.

    I dolori divenivano sempre più violenti ma non imprecava né si spazientiva: lo si udiva solo dire Madonna mia, aiutami. La piaga purulenta non curata si allargava sempre di più e le sue forze diminuivano a causa di un’alimentazione scarsa, così che venne ricoverato all’ospedale de L’Aquila alla fine di aprile del 1831. Nell’ospedale aquilano, Nunzio trovò un poco di ristoro alla sua sofferenza morale e fisica.

    Sebbene molto sofferente, egli amava andare al capezzale degli altri ammalati per recare loro il conforto della preghiera e qualche piccolo sollievo che era in grado di offrire. Il contatto con il mondo della sofferenza non spaventò il giovanetto, ma suscitò nel suo cuore il desiderio di servire gli altri.  I medici, accertata la gravità del suo male, lo dichiararono inguaribile, e poiché quell’ospedale non era per malati cronici, fu dimesso alla fine di maggio del 1831.

    Ritornato a Pescosansonesco, uno zio paterno, caporale del primo Reggimento Granatieri di stanza a Napoli, informò sulle condizioni di salute del nipote il suo colonnello, il cavalier Felice Wochinger, uomo di nobile rango, stimato per la sua pietà verso gli ultimi, il quale mosso a compassione per il ragazzo decise di prenderlo sotto la sua protezione. Si stabilì che Nunzio si trasferisse a Napoli. Non aveva un bagaglio con sé, le uniche cose che possedeva erano quelle che indossava: la corona del rosario al polso e il libricino della Beata Vergine Maria.

    Il colonnello fu per lui un buon papà tenero e premuroso. Visto che il viaggio da Pescosansonesco a Napoli aveva aggravato le condizioni di Nunzio, si decise di ricoverarlo a Santa Maria del Popolo detta “degl’Incurabili”.

    Anche qui, nonostante le sue condizioni fossero gravi, egli aiutava gli altri ricoverati portando loro anche un semplice bicchiere d’acqua. Tante volte digiunava volontariamente, pregava per gli altri oppure donava il pasto, che il colonnello gli faceva portare dal castello, con chi era più solo e povero di lui. Appena avvenne il ricovero ospedaliero Nunzio chiese di poter ricevere la prima Comunione.

    Da quel giorno, Nunzio non volle più privarsi del Corpo di Cristo che sempre ricevette con grande devozione e un buon tempo di preparazione. Nonostante la sua scarsa istruzione anche religiosa, era mosso da una conoscenza profonda delle cose di Dio, ne parlava in modo convincente e riusciva a toccare le corde dei cuori più induriti; sentiva nel cuore il desiderio di portare le anime a Dio e riusciva ad avvicinare alla confessione quanti ne erano lontani da molti anni.

    Spesso durante la sua permanenza all’ospedale lo si trovava in preghiera disteso per terra nonostante gli avessero proibito di pregare in quel modo perché non giovava alla sua salute. Istruiva egli stesso i bambini ricoverati sulle verità della fede, insegnando loro ad amare Gesù e la Madonna.

    Purtroppo il male fisico avanzava e durante i cambiamenti climatici soffriva in modo atroce. Tutte le cure ricevute agl’Incu­rabili si rivelarono insufficienti e il colonnello Wochinger decise di riprenderlo in casa con sé. Fu così che nell’aprile del 1834, venne dimesso dall’ospedale e fu ospitato presso la casa del colonnello che in quel frangente storico si trovava nel Maschio Angioino, sede a quei tempi di una guarnigione militare.

    Nei primi tempi la sua salute migliorò, tanto che abbandonò quasi del tutto il bastone. Al castello si fece chiara in lui la certezza della chiamata al sacerdozio, e allora chiese e ottenne di cominciare a studiare con questa prospettiva. Il colonnello gli fece conoscere un santo sacerdote di Secondigliano (Napoli) che stava maturando la decisione di fondare una Congregazione religiosa, don Gaetano Errico, che sarà canonizzato nel 2008. Al solo vedere Nunzio, il sacerdote trasalì di gioia e gli promise che appena avesse aperto la congregazione l’avrebbe accolto di sicuro.

    Intanto la malattia e il dolore diventavano sempre più acuti e Nunzio capì che la sua speranza di entrare nell’ordine religioso veniva meno; trasformò così la sua stanza in una cella, si diede una regola di preghiera e decise di indossare un abito marrone, che venne benedetto da un padre carmelitano. La sua giornata era scandita dalla preghiera; talvolta si faceva accompagnare nella vicina chiesa di santa Brigida dove trascorreva lunghe ore in preghiera. Ma con l’avanzare della malattia, dovette privarsi di queste uscite e quindi pregava solo nella sua camera davanti a un’immagine del Sacro Cuore di Gesù Bambino.

    Molte erano le persone che lo conoscevano e gli attribuivano fama di santità, andavano da lui anche solo per vederlo.

    Verso la metà del 1835, la salute di Nunzio si aggravò: alla carie ossea, si aggiunse l’idropisia, si pensò all’amputazione della gamba, ma le sue condizioni fisiche non l’avrebbero tollerato.

    Nel mese di maggio del 1836, Nunzio era ridotto a letto senza potersi più muovere con fortissimi dolori. Un pomeriggio, destatosi dalla preghiera profonda in cui era immerso, chiese al colonnello di porgergli il crocifisso per poterlo abbracciare, poi domandò di ricevere i sacramenti e accolse Gesù Sacramentato dicendo: Venite Padre mio, Signore mio, Sposo mio, amor mio. Dopo due ore esclamò: la Madonna! vedete come è bella! e spirò.  Era il 5 maggio 1836: Nunzio aveva solo 19 anni.

    In poche ore la notizia si diffuse per tutta la città, e la gente si affollò per baciare la salma che nel frattempo era stata composta e rivestita di quegli abiti marroni, indossati da Nunzio. La salma rimase esposta nella cappella del castello per cinque giorni senza mostrare alcun segno di decomposizione, ma anzi dal corpo del giovane usciva grande profumo.

    Alcuni giorni dopo la sepoltura, il colonnello sentì la voce di Nunzio che lo chiamava e gli diceva: Papà mio, svegliatevi, il castello va a fuoco. Il colonnello, alzatosi dal letto, vide le fiamme alte attorno al castello e con il tempestivo intervento dei soldati si evitò il peggio. Seguirono altri segni prodigiosi, come il profumo che si sentiva nella sua stanza e anche sulle pezzuole con le quali aveva medicata la piaga del piede.

    Ma un fatto fu determinante. Durante una battuta di caccia, una dama di compagnia della regina cadde da cavallo battendo il ginocchio a terra; le venne diagnosticata una frattura, ma la frattura all’indomani risultava completamente sparita dopo l’applicazione di una delle pezzuole che il colonnello aveva apposto sul ginocchio della nobildonna. Il re per l’accaduto chiese che venisse aperto il processo canonico del giovane.

    Attualmente i resti mortali del Beato riposano nella chiesa parrocchiale di San Domenico Soriano in Napoli, dove ogni giorno egli accoglie centinaia di fedeli che chiedono la sua intercessione e la sua celeste protezione.

 

 

"ITER" DELLA CAUSA

 

 

a) In vista della Beatificazione

 

    Il 3 luglio 1843 fu aperto il processo informativo nella diocesi di Napoli, chiuso poi il 5 settembre 1856 dopo aver interrogato 29 testimoni.

    Il 14 luglio 1859 la Sacra Congregazione dei Riti promulgò il Decreto sulla Introduzione della Causa e così il Servo di Dio venne decorato col titolo di venerabile, come si usava a quel tempo.

    A causa delle vicende storico-politiche che seguirono, solo il 21 giugno 1891 Papa Leone XIII promulgò il Decreto sulla eroicità delle virtù, definendo Nunzio la copia esatta di san Luigi Gonzaga e additandolo come modello ai giovani.

    Il 7 marzo 1963 si pervenne al riconoscimento di due miracoli, con relativo Decreto di Papa Giovanni XXIII.

    Il rito di Beatificazione, presieduto dal Papa Paolo VI, si tenne in Roma il 1° dicembre 1963.

 

b) In vista della Canonizzazione

 

    Dal 19 giugno al 15 luglio 2015, presso la Curia di Taranto, si svolse l’Inchiesta diocesana sulla presunta guarigione miracolosa di un giovane, da “trauma cranio-encefalico grave, coma, stato vege­tativo”, causato da politrauma provocato da incidente stradale con moto di grossa cilindrata (2004).

    Il 22 marzo 2018 la Consulta Medica dichiarò inspiegabile dal punto di vista scientifico la guarigione.

    Il 26 aprile 2018 il Congresso Peculiare dei Consultori Teologi ha espresso il suo parere positivo sull’asserito evento miracoloso.

    Il 5 giugno 2018, nella Sessione Ordinaria, i Cardinali e Vescovi riconobbero che la guarigione del giovane fu un vero miracolo da attribuire all’intercessione del Beato.

    Sua Santità Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il Decretum super Miraculo.

SANTA MESSA E CANONIZZAZIONE DEI BEATI:
PAOLO VI, OSCAR ROMERO, FRANCESCO SPINELLI, VINCENZO ROMANO, 
MARIA CATERINA KASPER, NAZARIA IGNAZIA DI SANTA TERESA DI GESÙ, NUNZIO SULPRIZIO

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro
Domenica, 14 ottobre 2018

 

La seconda Lettura ci ha detto che «la parola di Dio è viva, efficace e tagliente» (Eb 4,12). È proprio così: la Parola di Dio non è solo un insieme di verità o un edificante racconto spirituale, no, è Parola viva, che tocca la vita, che la trasforma. Lì Gesù in persona, Lui che è la Parola vivente di Dio, parla ai nostri cuori.

Il Vangelo, in particolare, ci invita all’incontro con il Signore, sull’esempio di quel «tale» che «gli corse incontro» (cfr Mc 10,17). Possiamo immedesimarci in quell’uomo, di cui il testo non dice il nome, quasi a suggerire che possa rappresentare ciascuno di noi. Egli domanda a Gesù come «avere in eredità la vita eterna» (v. 17). Chiede la vita per sempre, la vita in pienezza: chi di noi non la vorrebbe? Ma, notiamo, la chiede come un’eredità da avere, come un bene da ottenere, da conquistare con le sue forze. Infatti, per possedere questo bene ha osservato i comandamenti fin dall’infanzia e per raggiungere lo scopo è disposto a osservarne altri; per questo chiede: «Che cosa devo fare per avere?».

La risposta di Gesù lo spiazza. Il Signore fissa lo sguardo su di lui e lo ama (cfr v. 21). Gesù cambia prospettiva: dai precetti osservati per ottenere ricompense all’amore gratuito e totale. Quel tale parlava nei termini di domanda e offerta, Gesù gli propone una storia di amore. Gli chiede di passare dall’osservanza delle leggi al dono di sé, dal fare per sé all’essere con Lui. E gli fa una proposta di vita “tagliente”: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri […] e vieni! Seguimi!» (v. 21). Anche a te Gesù dice: “vieni, seguimi!”. Vieni: non stare fermo, perché non basta non fare nulla di male per essere di Gesù. Seguimi: non andare dietro a Gesù solo quando ti va, ma cercalo ogni giorno; non accontentarti di osservare dei precetti, di fare un po’ di elemosina e dire qualche preghiera: trova in Lui il Dio che ti ama sempre, il senso della tua vita, la forza di donarti.

Ancora Gesù dice: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri». Il Signore non fa teorie su povertà e ricchezza, ma va diretto alla vita. Ti chiede di lasciare quello che appesantisce il cuore, di svuotarti di beni per fare posto a Lui, unico bene. Non si può seguire veramente Gesù quando si è zavorrati dalle cose. Perché, se il cuore è affollato di beni, non ci sarà spazio per il Signore, che diventerà una cosa tra le altre. Per questo la ricchezza è pericolosa e – dice Gesù – rende difficile persino salvarsi. Non perché Dio sia severo, no! Il problema è dalla nostra parte: il nostro troppo avere, il nostro troppo volere ci soffocano, ci soffocano il cuore e ci rendono incapaci di amare. Perciò San Paolo ricorda che «l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10). Lo vediamo: dove si mettono al centro i soldi non c’è posto per Dio e non c’è posto neanche per l’uomo.

Gesù è radicale. Egli dà tutto e chiede tutto: dà un amore totale e chiede un cuore indiviso. Anche oggi si dà a noi come Pane vivo; possiamo dargli in cambio le briciole? A Lui, fattosi nostro servo fino ad andare in croce per noi, non possiamo rispondere solo con l’osservanza di qualche precetto. A Lui, che ci offre la vita eterna, non possiamo dare qualche ritaglio di tempo. Gesù non si accontenta di una “percentuale di amore”: non possiamo amarlo al venti, al cinquanta o al sessanta per cento. O tutto o niente.

Cari fratelli e sorelle, il nostro cuore è come una calamita: si lascia attirare dall’amore, ma può attaccarsi da una parte sola e deve scegliere: o amerà Dio o amerà la ricchezza del mondo (cfr Mt 6,24); o vivrà per amare o vivrà per sé (cfr Mc 8,35). Chiediamoci da che parte stiamo. Chiediamoci a che punto siamo nella nostra storia di amore con Dio. Ci accontentiamo di qualche precetto o seguiamo Gesù da innamorati, veramente disposti a lasciare qualcosa per Lui? Gesù interroga ciascuno di noi e tutti noi come Chiesa in cammino: siamo una Chiesa che soltanto predica buoni precetti o una Chiesa-sposa, che per il suo Signore si lancia nell’amore? Lo seguiamo davvero o ritorniamo sui passi del mondo, come quel tale? Insomma, ci basta Gesù o cerchiamo tante sicurezze del mondo? Chiediamo la grazia di saper lasciare per amore del Signore: lasciare ricchezze, lasciare nostalgie di ruoli e poteri, lasciare strutture non più adeguate all’annuncio del Vangelo, i pesi che frenano la missione, i lacci che ci legano al mondo. Senza un salto in avanti nell’amore la nostra vita e la nostra Chiesa si ammalano di «autocompiacimento egocentrico» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 95): si cerca la gioia in qualche piacere passeggero, ci si rinchiude nel chiacchiericcio sterile, ci si adagia nella monotonia di una vita cristiana senza slancio, dove un po’ di narcisismo copre la tristezza di rimanere incompiuti.

Fu così per quel tale, che – dice il Vangelo – «se ne andò rattristato» (v. 22). Si era ancorato ai precetti e ai suoi molti beni, non aveva dato il cuore. E, pur avendo incontrato Gesù e ricevuto il suo sguardo d’amore, se ne andò triste. La tristezza è la prova dell’amore incompiuto. È il segno di un cuore tiepido. Invece, un cuore alleggerito di beni, che libero ama il Signore, diffonde sempre la gioia, quella gioia di cui oggi c’è grande bisogno. Il santo Papa Paolo VI scrisse: «È nel cuore delle loro angosce che i nostri contemporanei hanno bisogno di conoscere la gioia, di sentire il suo canto» (Esort. ap. Gaudete in Domino, I). Gesù oggi ci invita a ritornare alle sorgenti della gioia, che sono l’incontro con Lui, la scelta coraggiosa di rischiare per seguirlo, il gusto di lasciare qualcosa per abbracciare la sua via. I santi hanno percorso questo cammino.

L’ha fatto Paolo VI, sull’esempio dell’Apostolo del quale assunse il nome. Come lui ha speso la vita per il Vangelo di Cristo, valicando nuovi confini e facendosi suo testimone nell’annuncio e nel dialogo, profeta di una Chiesa estroversa che guarda ai lontani e si prende cura dei poveri. Paolo VI, anche nella fatica e in mezzo alle incomprensioni, ha testimoniato in modo appassionato la bellezza e la gioia di seguire Gesù totalmente. Oggi ci esorta ancora, insieme al Concilio di cui è stato il sapiente timoniere, a vivere la nostra comune vocazione: la vocazione universale alla santità. Non alle mezze misure, ma alla santità. È bello che insieme a lui e agli altri santi e sante odierni ci sia Mons. Romero, che ha lasciato le sicurezze del mondo, persino la propria incolumità, per dare la vita secondo il Vangelo, vicino ai poveri e alla sua gente, col cuore calamitato da Gesù e dai fratelli. Lo stesso possiamo dire di Francesco Spinelli, di Vincenzo Romano, di Maria Caterina Kasper, di Nazaria Ignazia di Santa Teresa di Gesù e anche del nostro ragazzo abruzzese-napoletano, Nunzio Sulprizio: il santo giovane, coraggioso, umile che ha saputo incontrare Gesù nella sofferenza, nel silenzio e nell'offerta di sé stesso. Tutti questi santi, in diversi contesti, hanno tradotto con la vita la Parola di oggi, senza tiepidezza, senza calcoli, con l’ardore di rischiare e di lasciare. Fratelli e sorelle, il Signore ci aiuti a imitare i loro esempi.

ALLOCUZIONE DI PAOLO VI
PER LA BEATIFICAZIONE DI NUNZIO SULPRIZIO,
 PERFETTO ESEMPIO PER I LAVORATORI

Domenica, 1° dicembre 1963

       

Oggi si conclude felicemente una causa di beatificazione, che si protrae da oltre un secolo, ma che la fama di santità, dalla quale il nuovo Beato, Nunzio Sulprizio, in vita ed in morte fu subito circondato, aveva già positivamente risolto. 

Nunzio Sulprizio chiudeva santamente la sua vita mortale a Napoli, il 5 maggio 1836, a soli diciannove anni. Fin dal luglio 1859 Pio IX lo dichiarava venerabile emanando il Decreto, che introduceva il processo ora giunto a buon termine, mentre nel 1891 Leone XIII riconosceva eroiche le virtù del giovane abruzzese e ne associava la figura a quella di San Luigi Gonzaga, nella memoria del terzo centenario della morte di questo Santo, per la devozione di Nunzio Sulprizio verso di lui, e per la breve età, in cui si compi per entrambi il ciclo degli anni terreni: diversissimi nell’aspetto storico e sociale, i due giovani recano alla Chiesa la gioia e la gloria d’una somigliante virtù, quella della santità giovanile. 

Gode di questa proclamazione la terra d’origine del nuovo Beato, l’Abruzzo, terra feconda di Santi, illustre e venerabile per la pietà tradizionale del suo popolo, pronto ad esprimere in canti, in riti, in costumi l’emozione commossa ed austera della sua anima religiosa. 

Gode specialmente la diocesi, in cui Nunzio Sulprizio ebbe i natali, quella di Penne-Pescara, che siamo lieti di vedere qui degnamente rappresentata dal suo zelante Pastore, circondato dalle Autorità, dal Clero, dalle associazioni di quella stessa diocesi e da alcune migliaia di fedeli, di là venuti per acclamare con fierezza e con compiacenza il nuovo fratello celeste. Gode parimente Napoli, dove il Beato terminò il suo breve pellegrinaggio terreno, e dove la festa del Beato Vincenzo Romano, che abbiamo testé elevato all’onore degli altari, si unisce a quella di questo nuovo suo «figlio d’acquisizione». Salutiamo cordialmente questi cari Abruzzesi e Napoletani, e facciamo voti che la loro fortunata naturale parentela con così degni rappresentanti delle loro regioni si traduca in parentela spirituale, nella imitazione delle virtù cristiane di quelli. 

Questo Nostro augurio Ci obbliga ad accennare agli aspetti caratteristici della vita che la beatificazione, oggi decretata, offre al culto e alla imitazione della Chiesa. E, come si sa, tali aspetti sono principalmente due; quello offerto dalla corta durata della vita del Beato Nunzio Sulprizio, e quello che sembra delineato dal fatto che egli fu, per alcuni tristi e duri anni della sua adolescenza, operaio, un povero e semplice apprendista in una squallida officina di fabbro ferraio. Giovane ed operaio, ecco il binomio che sembra definire il nuovo Beato; ed è binomio di tale splendore e di tale importanza, che basta per riempire d’interesse la breve e scolorita biografia di lui. 

Nulla diciamo ora di questa biografia, anche perché pensiamo che per la sua brevità e per la sua semplicità, se già non fosse da tutti conosciuta, potrà esserlo assai facilmente. Ci preme invece, con questo sguardo complessivo e fugace, assicurarci che quelle due prerogative di Nunzio Sulprizio - d’essere giovane e d’essere operaio - sono associabili alla santità. Può un giovane essere Santo? Può un operaio essere Santo? Anzi più interessante ancora sarà, se riusciremo a scoprire che questo caro nostro eletto non solo fu degno di beatificazione quantunque giovane e quantunque operaio, ma proprio perché giovane e perché operaio.

Qui bisogna, una volta ancora, ricordare quali siano oggi le nostre condizioni di spirito, quando presumiamo (e Dio voglia che sia abituale a noi questa non riprovevole presunzione! ) conoscere, cioè misurare, quei tipi umani singolari, anzi eccezionali, che chiamiamo Beati o Santi. Se bene osserviamo, quando studiamo con l’interesse della psicologia moderna la loro vita, noi inconsciamente studiamo la nostra. I Beati, i Santi, gli Eroi, i Perfetti oggi ci servono di specchio per conoscere noi stessi. Il loro culto ci educa ad uno studio su l’uomo, sulla storia, sulla coscienza umana di tale efficacia e penetrazione che basta di per sé a raccomandarlo come provvido e sapiente. Lo studio della santità vissuta ci porta alla scoperta delle manifestazioni umane più alte e più caratteristiche, e perciò più degne di attenzione e di assimilazione. Ed è un studio meraviglioso, perché, da un lato, riscontra negli eletti proposti alla nostra venerazione e alla nostra imitazione una fondamentale identità: la natura umana. Si isti et istae, cur non ego? viene spontaneo di esclamare con S. Agostino; e tale studio mette in evidenza un unico principio di perfezione, il quale può essere a tutti comune, la grazia, che orienta la nostra vita verso un unico archetipo, Gesù Cristo, come c’insegna S. Paolo, là dove dice che i Santi, i chiamati da Dio alla salvezza, debbono «essere conformi all’immagine del Figlio suo» (Rom. 8, 29). E da un altro lato lo studio agiografico ci mostra che tutti i Santi sono differenti gli uni dagli altri. Ciascuno è distinto e ciascuno ha una sua inconfondibile fisionomia; ognuno dimostra uno sviluppo proprio, in un certo senso libero e originale, della propria personalità; è ancora S. Paolo, che ce lo ricorda: «Una stella differisce per il diverso splendore da un’altra stella» (2 Cor. 15, 41). 

Ed ecco allora perché noi oggi siamo tanto proclivi a dare all’eletto un nome che a noi lo avvicini e dagli altri santi lo distingua; una qualifica che lo faccia entrare nelle nostre categorie sociali o psicologiche, ed insieme lo separi da altre forme della vita umana. Vogliamo trovare nei Santi dei colleghi, diciamo così, qualificati; una santità astratta e generica oggi meno ci attrae; la vogliamo definire con termini concreti, nostri, e inconfondibili. 

Perciò è sembrato facile e felice ai biografi di Nunzio Sulprizio chiamarlo giovane e chiamarlo operaio. Questa nomenclatura gli assicura due strette parentele con la vita del nostro tempo, nella quale il giovane ed il lavoratore occupano posizioni rappresentative ed operative di prima importanza. 

E l’elogio del nuovo Beato potrebbe fermarsi qui; ed avrebbe titoli indiscutibili e stupendi per essere ascoltato da voi, giovani, da voi, operai. 

Nunzio Sulprizio dirà a voi, giovani, come la vostra età è stata da lui illuminata e santificata; egli è una gloria vostra. Egli vi dirà come la gioventù non dev’essere considerata l’età delle libere passioni, delle inevitabili cadute, delle crisi invincibili, dei pessimismi decadenti, degli egoismi dannosi; egli vi dirà piuttosto come l’essere giovani è una grazia, è una fortuna. S. Filippo ripeteva: Beati voi, giovani, che avete tempo di far bene. È una grazia, è una fortuna essere innocenti, essere puri, essere lieti, essere forti, essere pieni di ardore e di vita, come appunto sono e dovrebbero essere gli uomini che ricevono il dono dell’esistenza fresca e nuova, rigenerata e santificata dal battesimo; ricevono un tesoro che non va sciupato follemente, ma conosciuto, custodito, educato, sviluppato, e rivolto a produrre frutti vitali, benefici per sé e per gli altri. Egli vi dirà che nessuna età come la vostra, giovani, è idonea ai grandi ideali, ai generosi eroismi, alle coerenti esigenze di pensiero e di azione. Egli v’insegnerà come voi, giovani, potete rigenerare in voi stessi il mondo in cui la Provvidenza vi ha chiamato a vivere, e come tocca a voi, per primi, consacrarvi alla salvezza d’una società che ha appunto bisogno di animi forti e impavidi. V’insegnerà la suprema parola di Cristo, essere il sacrificio, la croce, la salvezza nostra e del mondo. I giovani comprendono. questa suprema vocazione. 

Ed a voi, lavoratori, questo povero e sofferente vostro collega porta un messaggio di molti capitoli. Dice il messaggio di Nunzio Sulprizio beatificato, innanzi tutto, come la Chiesa pensi a voi, come abbia di voi stima e fiducia, come veda nella vostra condizione la dignità dell’uomo e del cristiano, come il peso stesso della vostra fatica sia titolo per la vostra promozione sociale, e per la vostra grandezza morale. Dice ancora il messaggio di Nunzio Sulprizio come il lavoro abbia sofferto, e come tuttora abbia bisogno di protezione, di assistenza e di aiuto per essere libero ed umano, e per consentire alla vita la sua legittima espansione. Vi dirà ancora come il lavoro non possa separarsi da quel suo grande complemento, che è la religione; la religione che dà la luce, cioè le ragioni supreme della vita e che determina perciò la scala dei veri valori della vita stessa; è la religione che dà il respiro, cioè l’interiorità, la purificazione, la nobiltà, il conforto alla fatica fisica e all’attività professionale; è la religione, che umanizza la tecnica, l’economia, la socialità; è la religione, che fa grandi e buoni e giusti e liberi e santi gli uomini laboriosi. E allora Nunzio Sulprizio vi dirà come sia ingiusto privare la vita del lavoratore della sua superiore nutrizione ed espressione spirituale, ch’è la preghiera; vi dirà come nulla sia più nocivo per il vostro spirito, per la vostra vita familiare e sociale che ignorare Cristo, nulla di più indebito e pericoloso e fatale che dichiararsi a Lui, il grande Amico, indifferenti o ostili; e come nessuno infine sia chiamato ad essergli vicino, ad accogliere il suo Vangelo e a godere della sua salvezza più d’un lavoratore dal cuore forte e onesto. 

Potrebbe, dicevamo, fermarsi la nostra lode dl nuovo Beato, fermarsi a questo duplice riconoscimento, che vede associata la santità al fatto ch’egli era giovane e fu lavoratore. I suoi biografi si sono infatti, per lo più, accontentati di questa bella apologia. 

Ci sia concesso di notare, con coloro che hanno studiato più addentro la vita di questo umile servo di Dio, come tale apologia sia suscettibile di approfondimenti, i quali ci porterebbero a riconoscere in Nunzio Sulprizio aspetti nuovi, appena avvertiti nelle narrazioni ordinarie della sua breve esistenza, ma forse più penetranti, più misteriosi e più reali; anche perché qualcuno potrebbe osservare che la qualifica di giovane conviene a Nunzio Sulprizio piuttosto per la breve durata della sua vita, che per lo spirito proprio d’un giovane; e quella di operaio non presenta che elementi parziali della psicologia e della problematica del lavoratore moderno.

E non sarà difficile scoprire nel Beato, che oggi la Chiesa propone alla nostra considerazione, temi fecondi e profondi di studio e di simpatia. La sua infanzia, ad esempio, orfana e povera, segnata da tanta tristezza, non ci invita alla meditazione immensa, conturbante per chi non è della scuola di Cristo, sul mistero del dolore innocente? e come da un’infanzia, sulla quale dev’essersi accumulato il senso pesante della solitudine, della miseria, della brutalità, non è scaturita, come di solito avviene, una psicologia malata e ribelle, un’adolescenza insolente e corrotta? come mai tutta questa vita giovanile infelice e mancata fiorisce fin dai primi anni in innocente, paziente e sorridente bontà? Poi v’è il problema fondamentale della sua religiosità: donde una pietà così viva, così sicura, così perseverante, così personale? basta a spiegarla quel po’ d’educazione religiosa che poteva dare a quel tempo una parrocchia abruzzese perduta sui monti? o vi è una religiosità di popolo, connaturata ed inconscia, che in Nunzio Sulprizio si manifesta con ingenua pienezza? ovvero fu grande maestra l’umile nonna paesana, ch’ebbe cura per alcun tempo dell’orfano e senza forse saperlo svelò a quell’animo sofferente e sensibile le prime note del divino colloquio? Resta davvero da esaminare la formazione religiosa del giovane illetterato; e può darsi che l’esame ci porti a riconoscere la ricchezza spirituale della tradizione religiosa locale, ch’è poi quella di gran parte della gente italiana, tradizione tanto degna di rispetto, anche se talora manifestata in forme ora discutibili di culto popolare. E può darsi ancora, e sarà la scoperta migliore, che ci capiti di avvertire l’azione del divino Maestro invisibile, che, come in molte altre vite di Santi s’incontra, fa lui dell’anima pura e iniziata dal dolore al raccoglimento l’alunna privilegiata, che non dai libri, non dalla voce di maestro esteriore, ma da certa nascente scienza interiore impara le verità della fede ed i misteri del regno di Dio. Cosi vi sarà il problema della capacità di questo giovanetto malato e infelice a capire oltre il proprio bisogno quello degli altri, oltre il proprio dolore il dolore altrui.

La pazienza, la mansuetudine, la carità premurosa e servizievole di questo adolescente incurabile e zoppicante si possono, sì, narrare e descrivere; la comparsa d’ un Colonnello dal cuore d’ oro fa grande figura nella sua breve storia; ma, umanamente parlando, quella bontà resta inesplicabile; essa ci avverte cioè che anche qui siamo davanti al segreto dell’ ottimo Nunzio, il segreto che appunto noi cercavamo, quello della sua santità. 

Così che, se la glorificazione, che oggi celebriamo di questa singolare virtù, davvero ci appare meritata e a noi stessi esemplare e benefica, sarà bene fare amicizia con questo caro Beato, e pensare umilmente come dobbiamo avvicinare la sua celeste conversazione e come possiamo seguire anche noi il suo terrestre itinerario. 

Con questi voti, invocando l’ intercessione di Nunzio Sulprizio e a lui tributando l’omaggio della Nostra devozione, tutti, venerati Fratelli e diletti Figli, di cuore vi benediciamo.

 

 

LITTERAE APOSTOLICAE

de peracta Beatificatione

 

PAULUS  PP. VI

ad perpetuam rei memoriam

 

 

    Nuntium salubre afferens huius aetatis hominibus, testimonium dicimus pietatis, castimoniae, patientiae, operis christiano animo facti, Nuntius Sulprizio meritis hodie celebratur praeconiis. Adulescens enim opifex et laicorum ordine et vulgo sollemni Ecclesiae ritu iis accensetur, qui summa gloria, Beatorum Caelitum propria, affluunt. Cuius quidem terrestris incolatus brevi undeviginti annorum spatio computatur, sed erat senectus mentis immensa[1]; palmam victoriae tulit, qui in palaestram vix erat ingressus: mirentur viri, non desperent parvuli[2]; non igitur spes eorum infringatur, qui ab innocentia Famuli Dei se longius confitentur abesse, habent, quem sequantur, paenitentem; habent, cuius fortitudinem imitentur, qui aerumnis premuntur; habent, de quo capiant exemplum, qui labori insudant, maxime e subole iuventutis, ut vitae rationibus consulant. Italia, filiorum sanctimoniae laude illustrium parens fecunda et altrix, quae Aloisium Gonzagam, Gabrielem a Virgine Perdolente, Dominicum Savio quasi candidos flagrantesque protulit flores, hoc quoque suavissimum edidit germen. Humilis sutor Dominicus Sulprizio eiusque uxor Dominica Rosa Luciani, tenui laborantes fortuna sed christianae vitae divitiis locupletes, filium sibi die tertia decima mensis Aprilis anno millesimo octingentesimo septimo decimo natum in remoto pago Aprutino Pesculo Sampsonisco, eadem die, dominica in albis, christianae familiae per regenerationis lavacrum inserendum curarunt. Tunc Nuntii nomen ei est impositum ob religionem augustae Virginis Mariae, quae ab angelo salutata mirabile nuntium se Dei Matrem fore accepit. Domestica usus disciplina, pietatis didicit rudimenta et, tertium agens annum, iam chrismate sancto fuit inunctus. Sed ei non diu riserunt parentes: pater enim, pauperis domus praesidium, immatura morte mox est ademptus, qua de causa mater ad secundas transiit nuptias. Nec multo post, cum sortitus esset vitricum asperum, tenellus pusio, carissima parente e vivis erepta, maternis est destitutus blanditiis. In tanto luctu iacentem pupillum piissima avia, Anna Rosaria, curis amantibus fovit; at brevi iterum lumen, quo parvulus calefiebat, est exstinctum; illa enim defuncta, Nuntius veluti tertio est redditus orphanus. Memoria eiusdem egregiae mulieris, quae eum ad cultum divinum virtutisque exercitationem studiose induxit, semper menti eius haerebat. Quem postea, anno millesimo octingentesimo vicesimo sexto, domum suam receptum avunculus, faber ferrarius, vir saevus et violens, duriori pro aetate operi in officina addixit, impediens, ne inchoatis se dederet litterarum disciplinis, cibo victuque eum fraudans necessario, conviciis obruens, afficiens plagis. Cuius iussu puer, nimio pondere onustus, per montium salebrosos calles hieme gelida ac nivosa enitebatur, ut ferra iis, qui mandaverant, traderet. Quae omnia sine ulla querimonia quin immo patienti hilarique animo pertulit, qui nullum apud homines inveniebat solacium, sed unum sibi patrem esse Deum sentiebat. Tamen improbo labore vires eius attritae sunt et crus carie infestatum, ita ut baculo inniti cogeretur. Augebant malum scintillae et ferro candefacto erumpentes, quae nudos pedes miseri tironis opificis verberabant. Nihilominus crudelis erus, nullam levationem con-cedens, ut infirmus fabrilia tractaret, imperavit. Cum quadam die vulnus in fonte purgaret, infortunatus adulescentulus a mulieribus aquam haurientibus vestesque lavantibus est petitus lapidibus, quod lympham inquinaret. Aufugit ille anhelitum ducens et populare cecinit carmen «Vivat Maria». In devium locum, quo tunc se abdiderat quique «Ripa rubra» appellabatur, saepe in posterum redibat, ut in parvo puteo ulcus ablueret et, abstractus ab hominum frequentia, totum se piis precibus cum Deo coniungeret. Tandem avunculus sibi persuasit puerum corpore exhausto et e vulnere verminoso laborantem, quod ossa ipsa erodebat, nihil sibi utilitatis praebere. Quam ob rem is in publicum valetudinarium Aquilanum est deductus, ubi aliquandiu, pacis perfruens bono, decubuit. Sed, cum vulnus insanabile esse medici pronuntiassent, inde dimissus, in patrium pagum revertit, ubi non a miserente sui familiari est exceptus sed a maledicta in se congerente avunculo. Nuntius vero, immensis doloribus obnoxium Christum considerans, se non merere putavit, ut loco meliore haberetur, et in hanc est locutus sententiam: «Paulum refert me cruciatu divexari, dummodo animam meam possim salvare». Itaque ad sanctimoniam celeri gradu contendit, qui crucis mysterium penitus habebat comprehensum, adeo ut recte in eum cadant haec verba Divini Magistri: Confiteor tibi, Pater, Domine caeli et terrae, quia abscondisti haec a sapientibus et prudentibus, et revelasti ea parvulis[3]. Tandem patruo Francisco Sulprizio auctore, qui Neapoli faciebat stipendia, lacrimabili statui Famuli Dei est aliquo modo prospectum; nam rogatus ab illo Felix Wochinger, praefectus militum, vir caritate spectatissimus, infelicium hospitium, ea in urbe, infelici iussit patere. Nuntius igitur, avunculo fabro supremum osculum ferens et gratias agens – mireris sane adule­scentis animum simplicem et iniuriarum immemorem – anno millesimo octingentesimo trigesimo secundo Neapolim se contulit, ut se in valetudinarium Sanctae Mariae a populo, degli Incurabili vulgo appellatum, in quo infirmi egeni degebant, reciperet. Ibi pietatis, patientiae, caritatis, studii salutis alienae specimina dedit rarissima. Quis enim verbis exprimere potest, quanto dilectionis ardore incensus Deum amaverit et interdiu noctuque, sevocata etiam a corpore mente, sit precatus, quanta cum laetitia spirituali ibi Eucharisticum epulum sumpserit primum eoque pasci perrexerit, quanta cum sedulitate Virginem Matrem omnibus coluerit officiis filii? Immutabili cum aequitate aegritudinis molestias tolerans, munus etiam quoddam apostolicum obiit, id est solator exstitit iis, qui erant doloris consortes. Videres ergo claudum iuvenem lectos circumeuntem, ut afflictorum erigeret animos, religionis neglegentes ad caelestem Patrem reduceret, peccatores ad paenitentiam agendam componeret, iis, quibus opus erat, remedia porrigeret et quovis ministerio etiam humillimo inserviret. Quidquid doni a patrono suo, exercitus praefecto, acceperat, volens distribuit, ut inops inopum subievaret miseriam. Sua aliorumque deflens admissa, castigatio­ni­bus ultro susceptis in se animadvertit nihilque iam praeter sanctita­tem expetivit; castimoniae decus servans illibatum, odorem Christi quoquoversus sparsit, ita ut «sanctum» eum passim vocitarent.

    Ingravescente morbo, quo dolores immensum augescebant, Famulus Dei in Aenaria insula aliquandiu est moratus, ut salubris fontibus aquae corpori mederetur; sed cum nihil profecisset, Neapo­litanum illud hospitium, divinae voluntati se plane permittens, repetiit. Praefectus deinde militum, non solum ut efficentiorem curationem adhiberet pupillo, sed etiam ut hoc exemplum virtutis praesens continenter intueretur, in «Arcem Novam» seu «Andeca­vinam», opere rebusque gestis nobilem et caerulei maris prospectu amoenam, ubi ipse habitabat, eum traduxit. Qui iis in aedibus coepit meliusculus esse, ita ut spes affulgeret eum e morbo esse evasurum. Cum in Aenaria insula, qua saepius valetudinis causa est missus, aliquid temporis transigeret iterum, ad sacerdotium ardentius aspiravit et linguae Latinae studia exercuit ingenio facili, sibi proponens austerioris vitae instituto in religiosa familia sese astringere. Tamen vehemens aegritudo rursus eum oppressit. In Arcis illius cubiculo sibi attributo coram imagine Iesu Infantis et almae Deiparae precationibus faciendis horas duxit permultas, ita ut milites aliique «claudicantem puerum sanctum» communi extollerent laude.

    Servorum etiam animos, quorum incuriam atque despectionem, assuetus Christi dolores in se effingere, mitissime ferebat, sibi conciliavit. Sed, muneribus supernaturalibus pollens, cui vires naturae fere nullae suppetebant, et in coelo defixus, qui saeculi sordes non noverant, ad exoptatam illam sedem supernam iam properavit. Cum ingens vis morbi eum esset adorta, ita ut nullus requiei locus, nulla motus ei daretur facultas, medicae artis periti crus amputandum esse censuerunt; cui quidem rei fidelis Dei Famulus haudquaquam obnisus, vitae tamen exitum sibi instare praesensit. Non temperabant a lacrimis, quotquot eum tum aspiciebant doloribus excruciatum sed animo tranquillo et pacato Iesu amplexum praestolantem. Die igitur quinta mensis Maii, Deiparae Virgini sacri, anno millesimo octingentesimo trigesimo sexto, Eucharistica dape summa cum pietate refectus, lectissimus adulescens brevis aevi vitam ea in urbe finivit, ut sempiternam eamque beatissimam in caelo inchoaret; lumina clausurus, haec effatus est verba suprema: «Beata Maria Virgo! Videte quam pulchra sit!» – et angelus ad angelos evolavit. Funus «claudicantis pueri sancti» populus Neapolitanus perfrequens est prosecutus, qui singularem virtutem illius mira alacritate praedicavit. Hac fama in dies percrebrescente, quam Deus miraculis visus est comprobare, Causa de Beatorum Caelitum honoribus Famulo Dei decernendis coepta est agi, atque post ordinarios, quos vocant, processus, Commissio introductionis Causae a Pio Pp. IX, Decessore Nostro rec. mem., die quarta decima mensis Iulii anno millesimo octingen­tesimo undesexagesimo obsignata. Apostolicis deinde inquisitionibus absolutis, de virtutibus theologalibus et cardinalibus Venerabilis Nuntii Sulprizio est disceptatum; quas, omnibus perspectis et expensis, a Famulo Dei heroum in modum cultas esse Leo Pp. XIII, item Decessor Noster, die vicesima prima mensis Iunii anno millesimo octingentesimo nonagesimo primo edixit. Exercita deinde quaestione de miraculis, quae, eiusdem nomine invocato, a Deo ferebantur patrata, omnique re in suetis comitiis diligenter exquisita, Ioannes Pp. XXIII, lato Decreto die septima mensis Martii hoe anno millesimo nongentesimo sexagesimo tertio, de duobus pronuntiavit constare. Unum igitur superfuit discutiendum, num Famulus Dei inter Beatos Caelites tuto foret recensendus. Quod quidem factum est; Purpurati enim Patres sacris Ritibus tuendis praepositi, Praelati Officiales Patresque Consultores id fieri posse cunctis sententiis affirmarunt. Quorum exceptis suffragiis Deoque enixis adhibitis precibus, Nos die sexta mensis Septembris anno millesimo nongentesimo sexagesimo tertio ad Venerabilis Famuli Dei Nuntii Sulprizio sollemnem Beatificationem tuto procedi posse ediximus. Quae cum ita sint, Nos, vota Christifidelium, maxime ex Italia, implentes, harum Litterarum vi et auctoritate Nostra Apostolica facultatem facimus, ut Venerabilis Famulus Dei Nuntius Sulprizio, adulescens laicus, Beati nomine in posterum appelletur, eiusque cor­pus et lipsana, seu reliquiae, non tamen in sollemnibus supplica­tioni­bus deferendae, publicae Christifidelium venerationi proponantur, atque etiam, ut eiusdem Beati imagines radiis decorentur. Praeterea eadem auctoritate Nostra concedimus, ut de illo quotannis recitetur Officium de Communi Confessorum non Pontificum cum lectionibus propriis per Nos approbatis, et Missa de eodem Communi cum orationibus propriis approbatis celebretur iuxta Missalis et Breviarii Romani rubricas. Huiusmodi vero Officii recitationem Missaeque celebrationem fieri dumtaxat largimur in dioecesi Pinnensi-Piscariensi, cuius intra fines Beatus ipse ortus est, et in archidioecesi Neapolitana, in qua diem obiit supremum, ab omnibus Christifi­delibus, qui horas canonicas recitare teneantur, et, quod ad Missas attinet, ab omnibus sacerdotibus, ad templa seu sacella, in quibus Beati eiusdem festum agatur, convenientibus. Largimur denique, ut sollemnia Beatificationis Venerabilis Nuntii Sulprizio, servatis servandis, praedictis in templis seu sacellis celebrentur, diebus legitima auctoritate statuendis, intra annum postquam sollemnia eadem in Sacrosancta Patriarchali Basilica Vaticana fuerint peracta. Non obstantibus Constitutionibus et Ordinationibus Apostolicis ac Decretis de non cultu editis ceterisque quibuslibet contrariis.

    Volumus autem, ut harum Litterarum exemplis, etiam impressis, dummodo manu Secretarii Sacrae Rituum Congregationis sint subscripta eiusdemque Congregationis sigillo munita, etiam in iudicialibus disceptationibus eadem prorsus fides adhibeatur, quae Nostrae voluntatis significationi, hisce ostensis Litteris, haberetur.

    Datum Romae, apud Sanctum Petrum, sub anulo Piscatoris, die I mensis Decembris, dominica I Adventus, anno MCMLXIII, Pontificatus Nostri primo.

 

Hamletus I. Card. Cicognani

a publicis Ecclesiae negotiis

 

Loco Sigilli

AAS, LVI (1964), 17-22

 

[1] Cfr. Off. S. Agnetis.

[2] Cfr. S. Ambros., De virg. I, 2; PL 16, 200.

[3] Matth. 11, 25.