Siméon-François Berneux e compagni

(†1866)

Beatificazione:

- 06 ottobre 1968

- Papa  Paolo VI

Ricorrenza:

- 7 marzo

Siméon-François Berneux (1814-1866), vescovo, Simon-Marie-Just Ranger de Bretenières (1838-1866)Bernard-Louis Beaulieu (1840-1866) e Pierre-Henry Dorie (1839-1866), sacerdoti della Società per le Missioni Estere di Parigi, e 20 compagni, martiri che, per avere risposto fiduciosi ai loro persecutori di essere venuti in Corea per salvare le anime nel nome di Cristo, morirono decapitati; Martiri della Corea

  • Biografia
  • omelia di beatificazione
“Che gioia poter soffrire per il nostro grande Dio!”

 

Siméon-François Berneux nacque a Château-du-Loir (Sarthe, Francia) il 14 maggio 1814, divenne prete diocesano nel 1837, per poi entrare nella Società Parigina per le Missioni Estere nel 1839.

Padre Berneux partì il 13 gennaio 1840 per l’Estremo Oriente. A Manila incontrò monsignor Retord, vicario apostolico della regione vietnamita del Tonchino. Il 17 gennaio 1841 monsignor Retord ed i padri Berneux, Galy e Taillandier arrivarono nel Tonchino. Dopo alcune peripezie, i missionari partirono in ordine sparso. Padre Berneux fisso la propria residenza a Yen Moi, nei pressi di un piccolo convento di suore “Amanti della Croce”. Qui si dedicò allo studio della lingua annamita. Scriveva: “Benchè non possa fare più di sei passi, che riceva la luce del sole soltanto da una piccola apertura a quindici centimetri dal suolo, e che, per scrivere, sia costretto a stendermi completamente sulla stuoia, sono il più felice degli uomini”. Pericolose minacce incombevano tuttavia sul giovane missionario, che dovette trasferirsi continuamente da un nascondiglio all’altro. Monsignor Retord prese a cuore tale situazione e chiede a Berneux e Galy di raggiungere padre Masson nella provincia di Nghe An.

La messa in sicurezza dei giovani missionari operata dal vescovo era però giunta troppo tardi: la loro presenza era già stata purtroppo denunciata a Nam Dinh, residenza del mandarino. Nella notte del Sabato Santo cinquecento soldati circondarono gli asili dei due missionari. In quella sera padre Berneux aveva ricevuto alcune confessioni, che amava definire così: “Erano, dice, gli albori del mio apostolato in terra annamita, furono anche la fine. I disegni di Dio sono impenetrabili, ma sempre degni di essere adorati”.All’alba della festa di Pasqua, appena terminata la celebrazione quotidiana della Messa, i soldati invasero la capanna e lo catturarono. “Provai una grande gioia - scrisse più tardi - quando mi vidi trascinato, come fu trascinato un tempo il nostro adorabile Salvatore, dall’Orto degli Ulivi a Gerusalemme”. Venne immediatamente sequestrato con padre Galy. Chiusi in gabbie ed incatenati, furono portati a Nam Dinh, ove si dimistrarono lieti di poter manifestare la loro fede in Gesù Cristo. “Qui - dissero i pagani - quando si porta la catena si è tristi, ma voi perchè sembrate tanto contenti?”. “E’ che, - rispose padre Berneux - noi che seguiamo la vera Religione, che è quella di Gesù, possediamo un segreto che voi non conoscete. Questo segreto cambia il dolore in gioia. E’ perché vi amiamo che veniamo ad insegnarvelo”. Il segreto a cui alludeva il missionario è la luce della fede, fonte di speranza e di gioia.

Ebbero ben presto inizio gli interrogatori. Il mandarino sperava di ottenere qualche denuncia, ma padre Berneux non tradì nessuno di coloro che lo avevano aiutato a nascondersi. Fatti entrare tre giovani Annamiti cristiani che erano stati imprigionati, il mandarino affermò: “Ecco uomini che stanno per morire. Consigliate loro di abbandonare la vostra religione per un mese. Potranno, in seguito, praticarla nuovamente e saranno sani e salvi tutti e tre”. Ma padre Berneux rispose: “Mandarino, non si incita un padre ad immolare i propri figli; e lei vorrebbe che un sacerdote della Religione di Gesù consigliasse l’apostasia ai propri cristiani?” e girandosi verso i neofiti: “Amici, un solo consiglio: pensate che le vostre sofferenze stanno per finire, mentre la felicità che vi attende in Cielo è eterna. Siatene degni con la vostra costanza”. “Sì, Padre!” promisero. “Che cos’è dunque quest’altra vita di cui parlate loro? Tutti i cristiani hanno dunque un’anima?” chiese sogghignando il mandarino. “Sicuramente, ed anche i pagani ne hanno una. Ne avete una anche voi, mandarino”.

Il 9 maggio 1841 padre Berneux fu trasferito nella prigione di Hué, capoluogo dell’Annam. Ripresero gli interrogatori: “Calpestate questa croce!”. “Quando si tratterà di morire – esclamò – presenterò la testa al carnefice. Ma quando mi ordinerete di rinnegare il mio Dio resisterò sempre”. “Vi farò picchiare a morte!” minacciò il mandarino. “Picchiate, se volete!”.

Il 13 giugno il mandarino decise di mettere in pratice le proprie minacce. Padre Berneux reagì esclamando: “Che gioia poter soffrire per il nostro grande Dio!” L’8 ottobre i padri Berneux e Galy appresero con gioia la notizia della loro condanna a morte. Il 3 dicembre 1842 la firma regale confermò la sentenza del tribunale. Ma improvvisamente si verificò un colpo di scena: il 7 marzo 1843 un comandante di corvetta francese, appreso lo stato di prigionia dei cinque suoi compatrioti, ne esigette la liberazione.

Riacquistata dunque la libertà, nell’ottobre del 1843 padre Berneux venne inviato in Manciuria, provincia della Cina settentrionale. Qui lavorò per dieci anni, malgrado gravi problemi di salute causati da tifo e colera. Il 5 agosto 1854 il pontefice Pio IX lo promosse a vicario apostolico della Corea. “La Corea – scrisse il neovescovo – terra di martiri, come rifiutare di andarvi!”.

Accompagnato da due sacerdoti missionari, monsignor Berneux s’imbarcò a Shanghai il 4 gennaio 1856. Giunto a destinazione e soddisfatto d’aver eluso la vigilanza dei guardacoste che li avrebbero puniti con la pena di morte, il vescovo si mise subito all’opera: imparò innanzitutto la lingua coreana, dopodiché intraprese la visita ai cristiani del luogo, tanto a Seul quanto nelle campagne e sulle montagne, quindi la fondazione di un seminario, l’apertura di scuole per giovani e di una tipografia. Monsignor Berneux desiderò provvedere anche all’avvenire della missione, provvedendo a designare come suo successore monsignr Daveluy con l’assenso della Santa Sede.

Nonostante condizioni di apostolato molto dure, quali clandestinità, estrema povertà e periodiche persecuzioni locali, sotto la direzione di monsignor Berneux il numero dei battezzati, che ammontava nel 1859 a 16700, raggiunse nel 1862 i 25000.

Ma una congiura di palazzo avvenuta nel 1864 e la minaccia di un attacco russo contro la Corea nel gennaio 1866, portarono ad interrompere l’opera apostolica dei missionari ed a risvegliare l’odio nei confronti dei cristiani. Il 23 febbraio 1866 penetrarono nella casa del vescovo cinque uomini. “Siete europeo?” chiese il capo. “Sì, ma che venite a fare qui?”. “Per ordine del re veniamo ad arrestare l’europeo”. “Sia pure!” E lo portarono via senza neppure legarlo. Il 27 delo stesso mese monsignor Berneux comparve davanti al Ministro del Regno e a due Giudici Supremi, che gli domandarono come fosse entrato in Corea ed in compagni di chi. “Non chiedete questo al vescovo!” rispose loro monsignor Berneux. “Se non rispondi, possiamo, secondo la legge, infliggerti molti tormenti”. “Tutto quel che vorrete, non ho paura”.

Dal 3 al 7 marzo monsignor Berneux subì quotidianamente degli interrogatori nel cortile della Prigione dei Nobili, al centro del quale venne legato ad una sedia di legno. Il “Giornale della Corte” riportò che la tortura veniva inflitta al vescovo ad ogni interrogatorio, per lui “la tortura è stata fermata al decimo, o all’undicesimo colpo” e ciò significa che gli sarebbero stati sferrati dei colpi dieci o undici volte, con tutta la forza, sul davanti delle gambe, con un bastone a sezione triangolare della grossezza della gamba di un tavolo. Il vescovo rimaneva silenzioso, emettendo soltanto ad ogni colpo un lungo sospiro. Incapace di muoversi da solo, lo si doveva riportare nella sua cella, ove poi le gambe senza più carne venivano ricoperte con una carta oleata. Nel frattempo furono arrestati e sottoposti ad interrogatori e torture anche alcuni confratelli e compatrioti del vescovo, appartenenti alla medesima congregazione: si tratta dei sacerdoti Simon-Marie-Just Ranger de Bretenières (nato a Châlon-sur-Saône, Saône-et-Loire, il 28 febbraio 1838), Pierre-Henry Dorie (nato a St-Hilaire-de-Talmont, Vendée, il 23 settembre 1839) e Bernard-Louis Beaulieu (nato a Langon, Gironde, l’8 ottobre 1840).

Il 7 marzo il “Giornale della Corte” citò così monsignor Berneux ed i suoi tre compagni: “Quanto ai quattro individui europei, che siano consegnati all’autorità militare per essere decapitati, e che le loro teste rimangano sospese, affinché ciò serva di lezione alla moltitudine”.

Uscendo dalla prigione per l’esecuzione il vescovo esclamò: “Così moriamo in Corea: è una buona cosa!” ed alla vista della folla ammassata sospirò: “Dio mio, quanto sono da compiangere questi poveretti!”. Il vescovo approfittò di ogni sosta effettuata durante tale viaggio per parlare del Paradiso ai suoi tre compagni di supplizio. Il luogo scelto per l’eccidio fu una grande spiaggia sabbiosa, lungo il fiume Han. I quattrocento soldati formarono un cerchio e vi piantarono un palo al centro. Il mandarino ordinò che i condannati fossero portati dinnanzi a lui.Vennero strappati loro gli abiti di dosso, gli orecchi piegati in due furono bucati con una freccia, il volto venne spruzzato d’acqua e poi di calce viva, al fine di accecare le vittime. Dopodiché vennero introdotti sotto le spalle, fra le braccia legate ed il torso, dei bastoni, le cui estremità appoggiavano sulle spalle di due soldati.

La marcia del Hpal-Pang ebbe inizio attorno all’arena: sfilarono il vescovo seguito dai tre missionari, astenendosi dal proferire parola. Dato il via al macabro rito, sei carnefici si avventarono sui condannati urlando: “Forza, ammazziamo questi miserabili, massacriamoli!”. Venne legata una solida corda ai capelli di monsignor Berneux, in modo tale da inclinargli la testa in avanti. Il carnefice lo colpì, ma la testa cadde solamente alla seconda sciabolata. Alcuni testimoni notarono il sorriso che splendeva sul volto del vescovo, che questi conservò anche a morte avvenuta.

La fama di martirio che contraddistinse sin da subito questi quattro missionario portò al riconoscimento del titolo di “venerabili” il 4 luglio 1968 ed alla beatificazione il 6 ottobre successivo, unitamente ad altri 20 martiri coreani.
Il 6 maggio 1984 Giovanni Paolo II decise di canonizzarli all’interno di un gruppo ancora più numeroso, conosciuto come “Santi Andrea Kim Taegon, Paolo Chong Hasang e 101 Compagni martiri”, che il calendario liturgico latino commemora come memoria obbligatoria il 20 settembre.

 

(fonte: santiebeati.it)

SOLENNE BEATIFICAZIONE DEI MARTIRI DELLA COREA

OMELIA DI PAOLO VI

Domenica, 6 ottobre 1968

 

SPIRITUALE ESULTANZA NEL MISTERO DELLA «COMUNIONE DEI SANTI»

Signori Cardinali,
Venerati Fratelli,
Figli carissimi,

Ancora una volta la Chiesa è nella gioia. Ella celebra una schiera di suoi figli, che lo Spirito Santo le assicura essere nella salvezza eterna, nella gloria del Paradiso. Si tratta, voi lo sapete, dei Martiri della Corea, dell’anno 1866. Li abbiamo dichiarati Beati per l’eternità. Ma Noi stessi annunciando questa trascendente certezza siamo, a nostro modo, beati. Un’onda della loro beatitudine celeste scende fino a noi, e c’invade di beatitudine terrestre. Noi siamo nell’ammirazione. Noi siamo nel gaudio della celebrazione. Noi siamo nella coscienza della comunione. Fratelli e Figli! Non è tanto la sontuosità di questa Basilica illuminata a festa, non è tanto lo splendore di questa cerimonia risultante dalla più solenne, dalla più varia, dalla più pia rappresentanza del Popolo di Dio del mondo intero, che riempiono di spirituale esultanza i nostri animi in questo felice momento, quanto la sicura convinzione e quasi l’intima esperienza del mistero della «comunione dei Santi», che ora commuovono i nostri spiriti. Oh la comunione dei Santi: quale mondo meraviglioso! Il concetto, che noi cerchiamo di farcene, è come un sogno; ma la realtà supera le immagini della fantasia; è più grande, è più bella, ed è soprattutto più vera. Il regno della santità è il paradiso nel suo riflesso quaggiù, nella sua pienezza lassù in cielo; è lo splendore vivificante di Dio, che penetra nelle creature elette al suo ineffabile consorzio. Se già nelle scene stupende della natura la nostra ammirazione avverte di non poter pareggiare nei concetti e nelle parole l’arte, la dignità, la magnificenza, la maestà, la grandezza, la perfezione dell’opera divina, che in eloquente silenzio in esse si manifestano, che cosa dobbiamo dire e che cosa diremo, a Dio piacendo, un giorno, quando l’epifania di Dio, anzi quando la sua «gloria, sarà in noi rivelata?» (cfr. Rom. 8, 18).

UNICO SPLENDORE NELLA CHIESA TRIONFANTE E MILITANTE

Durante la nostra vita presente questa rivelazione è ancora incompleta; avviene «per speculum, in aenigmate», quasi per riflesso, sotto un velame arcano (2 Cor. 13, 12); l’aspetto divino della santità è solo e scarsamente palese, sebbene esso non ci sia del tutto nascosto, e per un occhio limpido già talmente si manifesti da rivestire tutta la Chiesa d’un suo splendido abito e da costituire una delle sue «note» distintive e caratteristiche, quella appunto della santità della Chiesa; nota, che spesso all’osservazione profana non appare, e al giudizio fenomenico circa l’umanità della Chiesa è anzi contraddetto dai difetti e dai peccati, che, per colpa dell’elemento umano onde essa è composta, la nascondono e la deformano. Ma non così che tale nota di santità rimanga inavvertita dall’onesta osservazione degli uomini di questo mondo. Per noi, figli della luce (Io. 12, 36), l’avvertenza della santità della Chiesa, quale sacramento e quale strumento della salvezza (Lumen Gentium, n. 48), e l’avvertenza della santità nella Chiesa, cioè nei suoi figli pieni di grazia e di virtù, dovrebbero essere sempre presenti allo spirito, come una realtà edificante e consolante, assai più che ordinariamente non sia. Ed è proprio per richiamarci alla considerazione di questa realtà che la Chiesa stessa ci presenta fratelli singolarissimi nei quali la trasparenza della santità è così manifesta da obbligarci a lodare Iddio in quegli «eletti, come dice S. Paolo, che Egli ha predestinati a riprodurre l’immagine del Figlio suo, . . . ch’Egli ha chiamati, e chiamati li ha giustificati, e giustificati li ha glorificati» (cfr. Rom. 8, 29-30). È questa la ragione di questa cerimonia e della lunga preparazione, che l’ha preceduta; la ragione del culto dei Beati e dei Santi, la ragione della Nostra letizia per aver potuto elevare alla glorificazione alcuni Martiri Coreani davanti alla Chiesa militante, come essi già sono nel coro della Chiesa trionfante.

LE NUOVE GEMME DEL MARTIROLOGIO CRISTIANO

Un desiderio invade, in questo momento, gli animi nostri; quello di fissare lo sguardo nella storia di questi nuovi Beati, là dove la trasparenza della santità, che dicevamo, lascia partire i suoi raggi. Cioè vogliamo vedere come Dio si è manifestato in loro. È un desiderio molto pio e degno di essere incoraggiato, e, per quanto possibile, soddisfatto. È l’amore alla scienza agiografica, che dovrebbe, come già una volta nell’educazione spirituale dei Fedeli, essere ancor oggi promossa e coltivata più che ora non sia, e oggi tanto più d’ieri, in quanto l’agiografia si alimenta di verità storica e di dottrina psicologica. Il «Martirologio» dovrebbe ritornare ad essere un libro di moda nella Chiesa,, oggi rinascente. E nel caso presente la storia di questi Beati, non meno di quella dei grandi campioni del cristianesimo, ci offrirebbe l’interesse proprio delle grandi avventure, dei grandi eroismi, dei grandi gesti, che trasfigurano la statura di persone umili e nascoste. Bellissima storia, Figli carissimi: Ci permettiamo di consigliarne a tutti la lettura, per il fascino che emana da essa e per l’edificazione ch’essa trasfonde.

Basti dire ch’essa è una storia di Martiri; e non d’uno solo, corifeo, il Vescovo Simeone Berneux, ma con lui d’altri ventitre, ad uno ad uno coscientemente immolati come vittime innocenti della loro fede. È una storia che si rifà ad altre precedenti, non meno dolorose e sanguinose ed eroiche, le quali, se non sono scritte ufficialmente nel nostro Martirologio, lo sono certamente in quel «libro della vita», di cui parla l’Apostolo (Phil. 4, 3). Martire: chi è martire? Già il nome è un elogio paradossale. Due elementi ne costituiscono la straordinaria efficacia significativa: la testimonianza e il sangue. Sono appunto gli elementi della manifestazione straordinaria di Dio nella fede e nella fortezza d’un seguace di Cristo. Il martire scrive col sangue la sua fede: proclama, col suo sacrificio, che la verità ch’egli possiede e per la quale si lascia uccidere, vale più della sua vita temporale, perché la fede è la sua nuova vita soprannaturale, presente e per l’eternità. Nessuno più inerme, più debole, più mansueto di lui; il martire è come un agnello; ma nessuno più coraggioso, nessuno più impavido, nessuno più vittorioso. È il martire che mette in estrema evidenza la verità, che Cristo ci ha portata; è il martire che afferma l’amore nella sua suprema misura: il sacrificio. Tanta è la spirituale grandezza del martire ch’essa si trasforma in bellezza, e genera in chi la comprende questo a noi quasi inconcepibile affetto: il desiderio del martirio. Non abbiamo dimenticato le infocate parole di Ignazio d’Antiochia, avido di subire la sorte straziante, che lo attendeva: «Lasciate ch’io raggiunga la pura luce! là giunto, io sarò veramente uomo! Lasciate ch’io imiti la passione del mio Dio!» (ad Rom. VI). Ma oggi non abbiamo bisogno di cercare nel lontano passato queste ed altre simili mirabili testimonianze: sono i Martiri, che ora veneriamo Beati, a ripeterle per sé come un’entusiasmante aspirazione.

COMMOVENTI REALTÀ E FONDATE SPERANZE

«Nous irons... dans la Corée. Oh! quelle est belle la portion que m’a réservée le Seigneur ! Il est possible que bientôt, je foule tette terre où caule le sang des martyrs . . .», scrive partendo per l’Estremo Oriente Mons. Berneux, allora giovane missionario. E a questa voce dell’europeo fa eco quella dei cristiani coreani, adulti e neofiti: attendono il martirio come un onore, come una logica fortuna della loro scelta religiosa. E il martirio per loro vuol dire l’adesione ad una fede venuta da lontano, senza sostegno di storia locale e d’ambiente sociale; vuole la tolleranza di torture atroci e raffinate, vuole il disonore pubblico e infine una morte crudele senza umana speranza.

E qui la tragedia di questi Martiri ci rivela un altro aspetto della loro santità; essa non ha nulla di artificiale, di straniero; essa interpreta e porta ad un livello sublime le predisposizioni naturali e spirituali di questi oscuri eroi, quasi tutti laici per di più, appena iniziati alla vita cristiana; il cristianesimo è penetrato nella loro psicologia e nelle loro attitudini morali non come una formola importata da una coltura estranea e lontana, ma come un messaggio concepito alla loro misura, e quasi intenzionalmente predisposto per animare le loro doti native e per svegliare le loro ‘migliori personali capacità; è un cristianesimo quanto mai autentico e ortodosso, e nello stesso tempo perfettamente coreano. Esso si radica in quei cuori semplici e buoni, coltivati da tradizionali sentimenti umani e religiosi molto elevati, anche se incompleti, e vi fiorisce subito con sorprendente vitalità, come fosse seminato nel suo migliore terreno. Noi dobbiamo ammirare questo aspetto della santità di questi nuovi figli gloriosi della Chiesa di Cristo; noi intravediamo come questo inesplicabile fenomeno di connaturalità si estenda oltre le persone di questi Martiri al genio spirituale proprio del popolo coreano; e Noi ci domandiamo, davanti al Signore, se questo non sia un segno profetico, l’indice d’una vocazione per un Paese intero, l’annuncio d’una missione propria della Corea, destinata a dare alla nostra religione universale una sua propria espressione originale, capace di qualificare spiritualmente la sua storia futura e la sua inserzione moderna nel concerto delle Nazioni.

I VOTI DEL PADRE DELLE ANIME PER IL PAESE «DEL MATTINO CALMO»

O Corea, qui degnamente rappresentata da due tuoi Pastori cattolici, Mons. Kim, Arcivescovo di Seoul e Mons. Chang, che domani sarà consacrato Vescovo di Masan; ,da alcuni discendenti dei nuovi Beati; da un gruppo dei tuoi cittadini, qua venuti dal lontano Paese «del mattino calmo» e da varie altre Nazioni vicine; e rappresentata anche dagli Studenti ed Alunni dei Nostri Collegi Urbani «de Propaganda Fide», Noi ti consideriamo, o Corea, con il rispetto e con la stima, che si deve alla tua storia, alla tua civiltà, alla tua personalità nazionale!

Corea, tanto geograficamente lontana e a Noi tanto spiritualmente vicina, mediante l’unica e comune fede cattolica di molti tuoi figli. Noi ti salutiamo oggi come terra bagnata, anzi battezzata dal sangue dei tuoi martiri; e onoriamo la tua gente, aperta ormai alla libera professione della religione cristiana. Corea, viva e moderna, che hai scoperto essere il cristianesimo non la religione perversa, di cui i tuoi Martiri furono accusati, ma anche per te il Vangelo della salvezza. Noi auspichiamo con tutto il cuore la tua prosperità, e facciamo voti che la tua Chiesa, vivente nella comunione della Chiesa universale sia sempre in mezzo al tuo Popolo una sorgente di luce divina, di fraternità umana, di saggezza morale, di pietà religiosa per le tue migliori fortune spirituali e civili. Corea, di cui Noi conosciamo le sofferenze e le speranze, Noi ti auguriamo la pace; e, con quanti esultano per la beatificazione di questi tuoi Martiri, a questi stessi tuoi eroi ora potenti intercessori nel Cielo, Noi rivolgeremo la Nostra preghiera, affinché la pace vera, degna e giusta, nella concordia, nel lavoro, nella libertà sia assicurata a tutti i figli!

ALTE BENEMERENZE DELLA FRANCIA NELL'APOSTOLATO MISSIONARIO

Et Nous aurons aussi une prière pour toi, terre de France qui as été la mère féconde et généreuse des premiers de ces martyrs, afin que l’honneur qui revient à ton histoire et à ton nom du fait de leur glorification te fasse sentir une fois de plus la grandeur et la responsabilité de ta vocation catholique, attestée, aujourd’hui encore, par tant de tes fils et tant de tes œuvres, comme elle l’est, spécialement en ce jour, par l’insigne et méritant Institut des Missions Etrangères de Paris, que Nous avons en grande estime et affection. Nous prierons pour que toi, France catholique, tu saches trouver toujours, dans la fidelité à tes traditions morales et religieuses, la sagesse et l’énergie nécessaires pour faire rayonner, par ta culture et par ta langue, le nom du Christ à travers le monde.

Et sur tout le monde missionnaire, en fête pour tette nouvelle gloire qui est sienne, sur Notre vaillante Congrégation pour l’évangélisation des Peuples, et sur celle - non moins vaillante et méritante - des Rites, qui conclut par tette Béatification très attendue une de ses multiples et laborieuses entreprises, sur toute l’Eglise enfin Nous allons faire descendre en gage de celle que Nous avons maintenant demandée au Christ présent dans le mystère eucharistique, Notre Bénédiction Apostolique.

AI NUOVI ARALDI DELLA FEDE: «CRISTO È CON VOI!»

Ma non abbiamo detto tutto. Ascoltateci ancora un momento. Perché a corona di questa cerimonia, che conclude il ciclo d’una storia missionaria, un’altra cerimonia ora deve seguire, semplicissima e straordinaria, che apre una nuova vicenda missionaria, che si allarga su tutta l’area del mondo, dove la Chiesa ancora sta nascendo e formandosi. Ecco, Fratelli e Figli; voi vedete qui presenti alcune centinaia di missionari in partenza per le loro lontane sedi di apostolato generatore delle nuove e future comunità della grande famiglia cattolica. Sono Sacerdoti, sono Religiosi, sono Religiose, sono soprattutto giovani del Laicato, uomini e donne, che volontariamente vanno esuli dalle loro patrie e dalle loro famiglie per farsi messaggeri della buona novella in terre di missione. Sono le nuove leve missionarie che, di null’altro armate fuorché della croce di cui Noi ora faremo a loro consegna, partono pellegrini di Cristo, poveri di tutto, fuorché di fede e di amore; senza nulla sapere della sorte loro assegnata, ma ben consapevoli che fatiche e pericoli non mancheranno sul loro cammino, e che Cristo è con loro, che la Chiesa intera li fiancheggia con la sua carità e la sua preghiera. Essi meritano che tutti li salutiamo, e che ad essi, sotto l’esempio e la protezione dei fratelli ora dichiarati vittoriosi e beati nel Cielo, Noi diamo la Nostra speciale e paterna Benedizione Apostolica. Andate, Fratelli e Figli generosi: il Papa vi manda; i Santi Pietro e Paolo vi seguono; i Martiri Coreani vi guidano; Maria Santissima, Madre della Chiesa e Regina delle Missioni, vi protegge; Cristo è con voi!