Titus Zeman

Titus Zeman

(1915-1969)

Beatificazione:

- 30 settembre 2017

- Papa  Francesco

Ricorrenza:

- 8 gennaio

Sacerdote professo della Società Salesiana di San Giovanni Bosco, martire del XX secolo: morì nel 1969 dopo essere stato per lungo tempo in carcere a causa della sua fede e del suo servizio pastorale

  • Biografia
  • Angelus
  • omelia di beatificazione
"Anche se perdessi la vita, non la considererei sprecata, sapendo che almeno uno di quelli che avevo aiutato è diventato sacerdote al posto mio"

 

Nacque a Vajnory, vicino a Bratislava (Slovacchia), il 4 gennaio 1915, primo dei dieci figli di una famiglia di contadini e sacrestani. All’età di dieci anni, dopo essere stato quasi sempre malato, guarì improvvisamente per intercessione di Maria Santissima e in quei giorni le promise di «essere suo figlio per sempre» e diventare sacerdote salesiano. Riuscì a realizzare questo progetto vocazionale, entrando in noviziato nel 1931, professando i voti temporanei nel 1932 e quelli perpetui nel 1938 e ricevendo l’ordinazione presbiterale nel 1940.

Quando il regime comunista si instaurò nella Cecoslovacchia post-bellica e iniziò una sistematica persecuzione della Chiesa, il Servo di Dio difese il simbolo del crocifisso nei luoghi pubblici, pagando con il licenziamento dalla scuola in cui insegnava. Sfuggito provvidenzialmente alla “Notte dei barbari” e alla deportazione dei religiosi del 3-14 aprile 1950 perché in servizio presso una parrocchia diocesana, si chiese cosa potesse fare per permettere ai chierici di raggiungere la meta del sacerdozio. Decise allora, non senza sofferenza, di varcare con loro la Cortina di ferro, in direzione di Torino, dove il Rettor maggiore dei Salesiani lo accolse e benedisse l’impresa, incoraggiandola.

Dopo due passaggi riusciti, nell’aprile 1951 la spedizione fallì. Da quel momento Don Titus andò incontro ad una serie di sofferenze: una settimana di torture tra la cattura e l’arresto (9-16 aprile 1951); altri dieci mesi di detenzione preventiva, sempre pesantemente torturato, sino al processo del 20-22 febbraio 1952; ulteriori dodici anni di detenzione (1952-1964); quasi cinque anni in libertà condizionata, sempre controllato da spie, pedinato, perseguitato (1964-1969).

Nel febbraio del 1952 il Procuratore generale chiese per lui – accusato di spionaggio, alto tradimento e attraversamento illegale dei confini – la pena di morte, commutata, nello stupore generale, in venticinque anni di carcere duro senza condizionale. Fu la prima persona, accusata di simili reati, a non venire giustiziata nella Cecoslovacchia del tempo.

Don Zeman fu però bollato come “m.u.k.l.”, cioè “uomo destinato all’eliminazione”, e sperimentò la vita durissima nelle carceri e nei campi di lavoro forzato, al fianco di sacerdoti perseguitati, di avversari politici del regime e di molti criminali, messi in cella con i religiosi. Fu costretto alla triturazione manuale e senza protezione dell’uranio radioattivo; trascorse lunghi periodi in cella di isolamento, con una razione di cibo circa sei volte inferiore a quella degli altri detenuti; fu poco curato, in un quadro di crescente compromissione cardiaca, polmonare e neurologica.

Il 10 marzo 1964, scontata metà della pena, uscì dal carcere per un periodo di prova in libertà condizionata: poco prima, avevano dovuto trattarlo con ossigenoterapia e i suoi polmoni presentavano vistose macchie. Ritornò a casa ormai irriconoscibile e visse un periodo di intensa sofferenza anche spirituale per il divieto a esercitare pubblicamente il ministero sacerdotale.

Morì – amnistiato in extremis (con decorrenza dell’amnistia da diciotto giorni prima del decesso) – l’8 gennaio 1969 dopo triplice infarto miocardico connesso ad aritmie, e dopo essere stato trattato come una “cavia da esperimento”, con l’applicazione su di lui di un metodo rischioso, mai più usato a partire da quel momento.

Lo accompagnò anche in morte la fama di martirio e persino le spie presenti ai funerali ne riferirono nei verbali come d’un martire che ha sofferto per la Chiesa. Meno di un anno dopo, ancora in pieno comunismo, un processo di revisione negò la legittimità della sua condanna per spionaggio ed alto tradimento.

Nel 1991, il processo di riabilitazione lo dichiarò definitivamente innocente

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza Maggiore, Bologna
Domenica, 1° ottobre 2017

 

Cari fratelli e sorelle,

ieri, a Bratislava (Slovacchia), è stato beatificato Titus Zeman, sacerdote salesiano. Egli si unisce alla lunga schiera dei martiri del XX secolo, perché morì nel 1969 dopo essere stato per lungo tempo in carcere a causa della sua fede e del suo servizio pastorale. La sua testimonianza ci sostenga nei momenti più difficili della vita e ci aiuti a riconoscere, anche nella prova, la presenza del Signore.

In questa domenica culmina la settimana dedicata in modo particolare alla Parola di Dio, in occasione della ricorrenza, ieri, della memoria di San Girolamo, grande maestro della Sacra Scrittura. Ringraziamo Dio per il dono della sua Parola e impegniamoci a leggere e meditare la Bibbia, specialmente il Vangelo.

Infine, ci uniamo spiritualmente ai fedeli convenuti presso il Santuario di Pompei per la tradizionale Supplica alla Madonna del Rosario, presieduta oggi dal Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Cardinale Bassetti.

A tutti voi, bolognesi nativi e “adottivi”, auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

Beato Tito Zeman, SDB (1915-1969)

Omelia[1]

Angelo Card. Amato, SDB

 

1. Recentemente Papa Francesco ha detto, che «la risorsa più bella che può avere un popolo è la risorsa dei santi».[2] E la Slovacchia può vantare una splendida corona di santi e di martiri, testimoni coraggiosi di Cristo nella storia.
L’infelice dittatura comunista del secolo scorso aveva trasformato la vostra patria in un triste campo di prigionia. Il rancore era rivolto soprattutto verso la Chiesa, che manteneva viva l’identità del popolo slovacco, difendendone la libertà e la dignità. Furono soppresse le scuole cattoliche e confiscati i loro beni; arrestati e condannati vescovi, sacerdoti e laici. In questo clima di autentica persecuzione i cristiani hanno dimostrato che l’amore è più forte dell’odio e che la verità alla fine vince sulla menzogna.
È stata una prova che la comunità cristiana ha sostenuto con coraggio e determinazione, rafforzando la sua fede, anche grazie alla testimonianza e al sangue di numerosi fedeli.[3]
Dopo il ritorno alla libertà, infatti, la Chiesa slovacca ha celebrato la canonizzazione dei tre Martiri di Košice, nel 1995, e la beatificazione, nel 2001, del redentorista Metod Dominik Trčka, del basiliano Pavel Peter Gojdič, anch’egli nel 2001, del Vescovo Vasil’ Hopko e del beata Zdenka Schelingová, nel 2003. A questo glorioso corteo di martiri di ieri e di oggi si unisce il salesiano Tito Zeman, vittima della tirannia comunista del secolo scorso.

2. Il martirio è la suprema manifestazione dell’amore a Cristo e alla Chiesa. Il sangue dei martiri congiunge il nostro tempo ai primi secoli cristiani, quando i battezzati suggellavano con il sacrificio della vita la loro testimonianza di fede e di fedeltà al Vangelo. Era un mirabile spettacolo di coraggio. I martiri sapevano di essere i testimoni di una carità senza confini, infusa nei loro cuori da Dio, carità infinita.
Gesù, il primo martire, ci esorta a non aver paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima (cf.Mt 10,28). L’apostolo Giovanni spronava i primi cristiani ad amare il prossimo e a non odiare nessuno, come, invece, fanno i figli delle tenebre: «Chiunque odia il proprio fratello – dice l’Apostolo – è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna. Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1Gv 3,15-16)».

3. Donare la vita per i fratelli, fu l’ideale del Beato Tito Zeman.[4] Fu arrestato perché aiutava seminaristi e sacerdoti a espatriare per vivere il loro ideale apostolico. Fu, quindi, condannato per alto tradimento ai lavori forzati. Fra l’altro fu destinato all’orrore della cosiddetta “Torre della Morte”. Qui egli era costretto a lavorare a mano la pechblenda, per ricavarne l’uranio, che – come si sa – è un metallo altamente tossico e radioattivo. A un controllo medico gli misurarono la radioattività del corpo, trovandola elevatissima. Per questo Don Zeman era diventato un “mukl”, un uomo, cioè, destinato all’eliminazione fisica.[5] Le pesanti irradiazioni, il freddo, l’usura delle forze e la consapevolezza di essere uomini da sopprimere come insetti rendevano il cosiddetto posto di lavoro un autentico campo di sterminio.

4. Ma egli seppe affrontare l’orrore della prigione con fede, con coraggio, con la speranza che un giorno la verità avrebbe prevalso sulla menzogna. La protezione di Maria Ausiliatrice lo sostenne nel perseverare nel bene. Ma era soprattutto la carità, che lo ispirava a vivere in grado eroico il suo martirio quotidiano. La sua prigionia fu da lui trasformata in sacrificio di redenzione per gli altri. Citando la Scrittura, un testimone afferma: «Nessuno ha un amore più grande verso Dio di colui che in piena coscienza e costantemente pone la propria vita al servizio degli altri. La sua fedeltà alla Chiesa si manifestava nella preparazione della futura generazione apostolica per i giovani».[6]
La sua fu una autentica carità evangelica, che non tiene conto del male ricevuto, che tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta; una carità capace di non fare mai il nome dei delatori; di non mettere in difficoltà le spie che – per riguardo a lui – arrivavano addirittura a confessargli la propria attività a suo danno; di perdonare di cuore i persecutori.
Don Tito era solito dire: «Meglio perdonare e dimenticare».[7] Una teste ribadisce che «il fatto che perdonò i suoi persecutori, che lo avevano insultato molto, testimonia della sua fortezza morale».[8]
Egli è, quindi, testimone di quell’amore più grande, che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cf. Ez 33,11).

5. Una considerazione la dedichiamo alla tonalità salesiana del suo martirio.[9] Si tratta di un aspetto spesso trascurato ma essenziale nell’impegnativo apostolato dell’educazione dei giovani.
Don Bosco ripeteva spesso che quando un salesiano soccombe, lavorando per le anime, la Congregazione avrà riportato un grande trionfo. E il grande educatore della gioventù parlava non solo di quel logorante martirio quotidiano, che è la carità pastorale verso i giovani, ma anche del martirio cruento: «Se il Signore nella sua Provvidenza volesse disporre – diceva il Santo – che alcuni di noi subissero il martirio, forse per questo ci avremmo da spaventare?».[10]
E la profezia si è avverata. La santità martiriale è di casa nella giovane famiglia salesiana, che conta già un centinaio di martiri. Oltre alla canonizzazione, il 1° ottobre del 2000, dei martiri, Mons. Luigi Versiglia e Don Callisto Caravario, missionari in Cina, si è avuta la beatificazione, nel 1999, di Don Giuseppe Kowalski e cinque giovani dell’oratorio salesiano di Poznan, anch’essi vittime delle dittature anticristiane del secolo scorso. Nel 2011 sono stati beatificati il salesiano spagnolo Giuseppe Calasanz Marqués e 31 Compagni martiri (16 sacerdoti, 7 coadiutori, 6 chierici; 2 Figlie di Maria Ausiliatrice; 1 collaboratore laico), tutti martirizzati durante la persecuzione spagnola della fine degli anni trenta del secolo scorso. Ancora, nel 2007 c’è stata la beatificazione del salesiano spagnolo Enrico Saiz Aparicio e di 62 compagni martiri (22 sacerdoti, 18 coadiutori, 16 chierici, 3 aspiranti, 3 cooperatori e 1 collaboratore laico), uccisi anch’essi in odio alla fede durante la stessa persecuzione. Più recentemente, nel 2013, c’è stata la beatificazione del salesiano coadiutore, Stefano Sándor, martirizzato durante la dittatura comunista in Ungheria.
Ci sono altri due aspetti che rendono originale il martirio dei salesiani. Anzitutto la carità pastorale, che porta i figli di Don Bosco a dare la vita per preservare i giovani dal male di ogni ideologia perversa. In secondo luogo la preghiera «da mihi animas” unita al «cetera tolle», che, come per Don Bosco, anche per Don Tito, ha significato la salvezza dei giovani a costo della sua libertà e della sua vita.
Martire per le vocazioni si può definire il Beato Tito Zeman. Egli amava la sua vocazione di salesiano e di sacerdote e desiderava che anche altri giovani vivessero nella libertà il sogno della loro consacrazione al Signore.
È un messaggio per tutti noi oggi. La riconquistata libertà, unita spesso a una certa dittatura del benessere e della trasgressione, non mortifichi e non spenga gli ideali di chi vuole vivere in pienezza la scelta del bene. Sono i santi e i martiri la risorsa più bella di un popolo.

Beato Tito Zeman, prega per noi!

 

[1] Tenuta a Bratislava il 30 settembre 2017 durante la cerimonia di beatificazione celebrata all’esterno della Chiesa della Sacra Famiglia.

[2] In «L’Osservatore Romano», 9 agosto 2017, p. 8.

[3] Peter Olexác,  La Chiesa romano-cattolica in Slovacchia, in Jan Mikrut (a cura), La Chiesa Cattolica e il Comunismo in Europa centro-orientale e in Unione Sovietica, San Pietro in Cariano (Verona), Gabrielli Editori 2016, p. 157-192; Peter Šturák, La Chiesa greco-cattolica in Slovacchia, ib. p. 193-226.

[4] Nacque a Vajnory, vicino a Bratislava (in Slovacchia), il 4 gennaio 1915, primogenito di una famiglia di dieci figli. Diventato salesiano, fu ordinato sacerdote nel 1940. Rischiando la vita, varca più volte il confine per poter portare in Italia alcuni giovani aspiranti al sacerdozio. Arrestato, fu condannato dal regime comunista al carcere e ai lavori forzat. Morì l’8 gennaio 1969. Nel 1991 il processo della Riabilitazione lo proclama definitivamente innocente.

[5] Positio,  Informatio super martyrio, p. 229.

[6] Ib. p. 371.

[7] Ib. p. 374.

[8] Positio, Summarium Testium, p. 590.

[9] Cf. Lodovica Maria Zanet, Oltre il fiume, verso la salvezza. Titus Zeman martire per le vocazioni, Elledici, Torino 2017.

[10] Memorie Biografiche, vol. XII, p. 13.