Turibio de Mogrovejo

Turibio de Mogrovejo

(1538-1606)

Beatificazione:

- 02 luglio 1679

- Papa  Innocenzo XI

Canonizzazione:

- 10 dicembre 1726

- Papa  Benedetto XIII

- Basilica Vaticana

Ricorrenza:

- 23 marzo

Vescovo di Lima: laico originario della Spagna, esperto di diritto, eletto a questa sede andò in America; mosso da ardente zelo apostolico, visitò più volte, spesso a piedi, la sua vasta diocesi provvedendo assiduamente al gregge a lui affidato; debellò con dei sinodi gli abusi e gli scandali nel clero; catechizzò e convertì gli indigeni, finché a Sanna in Perù trovò l’estremo riposo.  Patrono dell’episcopato latinoamericano.

  • Biografia
  • Messaggio BENEDETTO XVI
  • Discorso Papa Francesco
“Amare gli uomini che ci sono affidati come si ama Cristo, che è Verità, non costume!”

 

    Rampollo della nobile famiglia dei Mongrovejo, Turibio nasce a Mayorga (Valladolid) nel 1538. Esperto di diritto canonico, si guadagna a ragione la fama di insigne giurista e arriva a insegnare nell’università di Salamanca quando il re di Spagna, Filippo II, decide di inviarlo in Perù come vescovo di Ciudad de Los Reyes, che sarà poi Lima, oggi capitale del Paese.

    Quando il re lo chiama, nel 1580, Turibio è ancora un laico. A tempo di record riceve tutti gli ordini uno dopo l’altro fino al sacerdozio e, infine, viene consacrato vescovo. Non è entusiasta della propria partenza, perché immagina la situazione che troverà: il Perù è da meno di 50 anni sotto la dominazione spagnola ma a comandare, più che il viceré inviato dalla corte, sono i discendenti dei conquistadores.

    Questi spadroneggiano senza ritegno. Sono loro a sfruttare davvero gli Indios, con la scusa di un’evangelizzazione che di evangelico ha ben poco: le condizioni di questa gente che il vescovo si trova davanti al suo arrivo sono di estremo impoverimento materiale, spirituale, culturale e umano. I conquistadores, all’opposto, sono gelosi dei propri privilegi acquisiti a scapito degli indigeni e ci sono anche molti sacerdoti asserviti che non hanno la forza di reagire.

    Iniziano con queste premesse i 25 anni di episcopato di Turibio e la sua opera di grande riformatore che porterà alla prima vera organizzazione della Chiesa peruviana. Decide di partire dai sacerdoti, dal loro recupero, soprattutto con il proprio personale, santo esempio.

    Dedica molte ore alla meditazione e alla preghiera, consapevole che la vita spirituale di una persona cresce nella misura in cui essa prega. E poi s’innamora degli Indios. Studia le loro lingue, il quechua e l’aymara, così può parlare con loro, operare una “rievangelizzazione” che parla soprattutto la lingua della dignità. Impone a tutti i sacerdoti operanti in Perù di studiarle e riesce addirittura a pubblicare negli idiomi indigeni - oltre che in spagnolo - il Catechismo della Chiesa cattolica.

    Per amore degli Indios trascorrerà circa 10 anni a viaggiare, per visitare ogni più remoto angolo del suo vastissimo territorio – migliaia di chilometri – assai oltre gli attuali confini peruviani. Ne converte tantissimi, e impartisce la Cresima a tre futuri Santi: San Martino di Porres, San Francesco Solano e Santa Rosa da Lima.

    Turibio, nel corso del suo episcopato, fonda un centinaio di parrocchie, convoca un concilio panamericano, due concili provinciali e dodici sinodi diocesani; quando la peste arriva in Perù è in prima linea tra i malati, dona a loro tutto quello che ha.

    Ovviamente questo gli scatena contro le antipatie del viceré, che non lo vede mai presenziare alle cerimonie di corte, e dei conquistadores. Ma non gli importa. Le sue pecorelle sono gli Indios, e lui è un pastore vero. Muore proprio durante uno dei suoi viaggi, a Sanna, nel 1606. Benedetto XIII lo canonizza nel 1726; Giovanni Paolo II nel 1983 lo proclama patrono dell’episcopato latinoamericano.

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
PER LE CELEBRAZIONI DEL IV CENTENARIO DELLA MORTE
DI SAN TORIBIO DI MOGROVEJO

 

    Amati Fratelli nell'Episcopato,

    A motivo delle celebrazioni del IV centenario della morte di San Toribio di Mogrovejo, secondo Arcivescovo di Lima, desidero far giungere un saluto molto cordiale al signor Cardinale Juan Luis Cipriani Thorne, e anche ai numerosi Arcivescovi e Vescovi che si sono riuniti per rendere grazie a Dio per questa eminente figura di Pastore. Saluto altresì con affetto i sacerdoti, le persone consacrate e gli altri fedeli, che si uniscono alla gioia della Chiesa per il dono che Dio le ha fatto con un Santo così ammirevole, che possono invocare come intercessore e nel quale hanno un modello di vita anche per i nostri giorni.

    Desidero parimenti esortare tutti a considerare questa effemeride come un'occasione provvidenziale per ravvivare il cammino della Chiesa nelle diverse Diocesi, inspirandosi alla vita e all'opera di San Toribio. Egli, in effetti, si distinse per la sua abnegata dedizione all'edificazione e al consolidamento delle comunità ecclesiali della sua epoca. Lo fece con grande spirito di comunione e di collaborazione, ricercando sempre l'unità, come dimostrò convocando il III Concilio provinciale di Lima (1582-1583), che lasciò un prezioso patrimonio di dottrina e di norme pastorali. Uno dei suoi frutti più preziosi fu il cosiddetto Catechismo di San Toribio, che si dimostrò uno strumento straordinariamente efficace per istruire nella fede milioni di persone per secoli, e per farlo in modo saldo e conforme alla dottrina autentica della Chiesa, unendo così, dal più profondo, al di là di qualsiasi differenza, quanti si identificano poiché hanno "un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo" (Ef 4, 5).

    Consapevole del fatto che la vitalità della Chiesa dipende in gran parte dal ministero dei sacerdoti, il santo Arcivescovo fondò il Seminario conciliare di Lima, che funziona ancora ai giorni nostri. È auspicabile che continui a recare abbondanti frutti, proprio in questo momento in cui urge promuovere le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, per affrontare l'ingente compito di costruire comunità cristiane che si riuniscano con gioia nella celebrazione domenicale, frequentino i sacramenti, promuovano la vita spirituale, trasmettano e coltivino con premura la fede, rendano testimonianza di ferma speranza e pratichino sempre la carità.

    Il profondo spirito missionario di San Toribio si manifesta in alcuni dettagli significativi, come il suo sforzo per imparare diverse lingue, al fine di predicare personalmente a tutti coloro che erano affidati alla sua sollecitudine pastorale. Era però anche un modello del rispetto per la dignità di ogni persona umana, qualunque fosse la sua condizione, nella quale cercava di suscitare sempre la felicità di sentirsi vero figlio di Dio.

    In questa circostanza, invoco l'intercessione materna della Santissima Vergine Maria, perché protegga il Popolo di Dio che cammina nelle terre latinoamericane e lo guidi verso la gioia di vivere in modo pieno e coerente la fede in Cristo. Con questi sentimenti, vi imparto con piacere la Benedizione Apostolica, con un'attenzione speciale per la Chiesa che è in Perú, e in particolare per l'Arcidiocesi di Lima.

Dal Vaticano, 23 marzo, festa di San Toribio di Mogrovejo, anno del Signore 2006.

 

BENEDETTO XVI

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO IN CILE E PERÙ
(15-22 GENNAIO 2018)

INCONTRO CON I VESCOVI

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Palazzo Arcivescovile (Lima)
Domenica, 21 gennaio 2018

 

    Cari fratelli nell’episcopato,

    grazie per le parole che mi hanno rivolto il Cardinale Arcivescovo di Lima e il Presidente della Conferenza Episcopale a nome di tutti i presenti. Desideravo trovarmi con voi. Conservo un bel ricordo della visita ad limina dello scorso anno. Penso che allora abbiamo parlato di molte cose, e perciò quello che dirò oggi non sarà molto ampio.

    Le giornate passate tra voi sono state molto intense e gratificanti. Ho potuto ascoltare e vivere le diverse realtà che formano questo Paese – una rappresentanza – e condividere da vicino la fede del santo Popolo fedele di Dio, che ci fa tanto bene. Grazie per l’opportunità di poter “toccare” la fede del Popolo, di questo Popolo che Dio vi ha affidato. E davvero qui non si può non toccare! Se tu non tocchi la fede del Popolo, la fede del Popolo non tocca te; ma essere lì, con le strade piene, è una grazia e c’è da mettersi in ginocchio.

    Il motto di questo viaggio ci parla di unità e di speranza. E’ un programma arduo, ma al tempo stesso stimolante, che ci fa pensare alle imprese di San Toribio di Mogrovejo, Arcivescovo di questa Sede e patrono dell’episcopato latinoamericano, un esempio di «costruttore di unità ecclesiale», come lo definì il mio predecessore San Giovanni Paolo II nel suo primo viaggio apostolico in questa terra.[1]

    E’ significativo che questo santo Vescovo sia rappresentato nei ritratti come un “nuovo Mosè”. Come sapete, in Vaticano si conserva un quadro che raffigura San Toribio che attraversa un grande fiume, le cui acque si aprono al suo passaggio come se si trattasse del mar Rosso, perché possa giungere all’altra sponda dove lo aspetta un numeroso gruppo di indigeni. Alle spalle di San Toribio c’è una gran moltitudine di persone, che è il popolo fedele che segue il suo pastore nell’opera dell’evangelizzazione.[2] Questo quadro si trova nella Pinacoteca Vaticana. Questa bella immagine mi offre lo spunto per incentrare su di essa la mia riflessione con voi. San Toribio, l’uomo che ha saputo arrivare all’altra sponda.

    Lo vediamo fin dal momento in cui riceve il mandato di venire in queste terre con la missione di essere padre e pastore. Lasciò un terreno sicuro per addentrarsi in un universo totalmente nuovo, sconosciuto e pieno di sfide. Andò verso una terra promessa guidato dalla fede come «fondamento di ciò che si spera» (Eb 11,1). La sua fede e la sua fiducia nel Signore lo spinsero allora e lo spingeranno per tutta la sua vita a passare all’altra riva, dove Lui lo aspettava in mezzo a una moltitudine.

    1. Volle andare all’altra riva in cerca dei lontani e dei dispersi. A tale scopo dovette lasciare le comodità del vescovado e percorrere il territorio affidatogli, in continue visite pastorali, cercando di arrivare e stare là dove c’era bisogno, e quanto c’era bisogno! Andava incontro a tutti per sentieri che, a detta del suo segretario, erano più per le capre che per le persone. Doveva affrontare i più diversi climi e ambienti; «di 22 anni di episcopato – 22 e un pezzetto –, 18 li passò fuori da Lima, fuori dalla sua città, percorrendo per tre volte il suo territorio»,[3] che andava da Panama fino all’inizio della capitania del Chile, che non so dove iniziasse a quei tempi – forse all’altezza di Iquique, non sono sicuro – ma fino all’inizio della capitania del Chile. Come qualcuna delle vostre diocesi, niente di più! Diciotto anni percorrendo per tre volte il suo territorio, sapeva che questa era l’unica forma di pastorale: stare vicino distribuendo i doni di Dio, esortazione che dava anche continuamente ai suoi presbiteri. Ma non lo faceva con le parole bensì con la sua testimonianza, stando lui stesso in prima linea nell’evangelizzazione. Oggi lo chiameremmo un vescovo “di strada”. Un vescovo con le suole consumate dal camminare, dall’andare incontro per «annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno».[4] Come sapeva bene questo San Toribio! Senza paura e senza repulsioni si addentrò nel nostro continente per annunciare la Buona Notizia.

    2. Volle arrivare all’altra riva non solo geografica ma anche culturale. Fu così che promosse con molti mezzi un’evangelizzazione nella lingua nativa. Con il terzo Concilio di Lima dispose che i catechismi fossero realizzati e tradotti in quechua e in aymara. Spinse il clero a studiare e conoscere la lingua dei loro fedeli per poter amministrare i Sacramenti in modo comprensibile. Io penso alla riforma liturgica di Pio XII, quando iniziò con questo a riprendere per tutta la Chiesa … Visitando il suo Popolo e vivendo con esso si rese conto che non bastava raggiungerlo solo fisicamente, ma era necessario imparare a parlare il linguaggio degli altri: solo così il Vangelo avrebbe potuto essere capito e penetrare nei cuori. Com’è urgente questa visione per noi, pastori del secolo XXI!, ai quali tocca imparare un linguaggio totalmente nuovo com’è quello digitale, per fare un esempio. Conoscere il linguaggio attuale dei nostri giovani, delle nostre famiglie, dei bambini… Come seppe vedere bene San Toribio, non basta solo arrivare in un posto e occupare un territorio, bisogna poter suscitare processi nella vita delle persone perché la fede metta radici e sia significativa. E a tale scopo dobbiamo parlare la loro lingua. Occorre arrivare lì dove si generano i nuovi temi e paradigmi, raggiungere con la Parola di Dio i nuclei più profondi dell’anima delle nostre città e dei nostri popoli.[5] L’evangelizzazione della cultura ci chiede di entrare nel cuore della cultura stessa affinché questa sia illuminata dall’interno dal Vangelo. Veramente mi ha commosso, l’altro ieri, a Puerto Maldonado, quando – tra tutti i nativi presenti, di tante etnie – mi ha commosso quando tre mi hanno portato una stola: tutti dipinti, con i loro abiti, erano diaconi permanenti! Coraggio, coraggio, così faceva Toribio. In quell’epoca non c’erano diaconi permanenti, c’erano catechisti, ma nello loro lingua, nella loro cultura, e lui si mise lì… Mi ha commosso vedere quei diaconi permanenti.

    3. Volle arrivare all’altra riva della carità. Per il nostro Patrono l’evangelizzazione non poteva avvenire senza la carità. Sapeva infatti che la forma più sublime dell’evangelizzazione era plasmare nella propria vita la donazione di Cristo per amore ad ogni uomo. I figli di Dio e i figli del demonio si manifestano in questo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, e nemmeno chi non ama il suo fratello (cfr Gv 3,10). Nelle sue visite poté constatare gli abusi e gli eccessi che pativano le popolazioni originarie, e così non esitò, nel 1585, a scomunicare il governatore di Cajatambo, affrontando tutto un sistema di corruzione e una rete di interessi che «attirava l’ostilità di molti», compreso il Virrey.[6] Così ci mostra il pastore che sa come il bene spirituale non possa mai essere separato dal giusto bene materiale e tanto più quando è messa a rischio l’integrità e la dignità delle persone. Profezia episcopale che non ha paura di denunciare gli abusi e gli eccessi commessi contro il suo popolo. E in questo modo sa ricordare all’interno della società e delle comunità che la carità va sempre accompagnata dalla giustizia e non c’è autentica evangelizzazione che non annunci e denunci ogni mancanza contro la vita dei nostri fratelli, specialmente contro la vita dei più vulnerabili. E’ un avvertimento contro qualunque tipo di civetteria mondana che ci lega le mani per alcune piccolezze… La libertà del Vangelo…

    4. Volle arrivare all’altra riva nella formazione dei suoi sacerdoti. Fondò il primo seminario dopo il Concilio [di Trento] in questa zona del mondo, promuovendo così la formazione del clero nativo. Capì che non bastava andare da tutte le parti e parlare la stessa lingua, che era necessario che la Chiesa potesse generare propri pastori locali e così sarebbe diventata madre feconda. Perciò difese l’ordinazione dei meticci – quando essa era molto discussa – cercando di favorire e stimolare che il clero, se doveva distinguersi in qualcosa, fosse per la santità dei pastori e non per l’origine etnica.[7] E questa formazione non si limitava solo allo studio nel seminario, ma proseguiva nelle continue visite che faceva loro, stava vicino ai suoi preti. Lì poteva toccare con mano lo stato dei suoi preti, e prendersene cura. Racconta la leggenda che ai vespri di Natale sua sorella gli regalò una camicia da indossare durante le feste. Quel giorno lui andò a far visita a un prete e vedendo le condizioni in cui viveva, si tolse la camicia e gliela diede.[8] E’ il pastore che conosce i suoi sacerdoti. Cerca di raggiungerli, accompagnarli, stimolarli, ammonirli – ricordò ai suoi preti che erano pastori e non commercianti e perciò dovevano aver cura degli indigeni e difenderli come figli.[9] Però non lo fa stando alla scrivania, e così può conoscere le sue pecore ed esse riconoscono nella sua voce la voce del Buon Pastore.

    5. Volle arrivare all’altra riva, quella dell’unità. Promosse in modo mirabile e profetico la formazione e l’integrazione di spazi di comunione e partecipazione tra le diverse componenti del Popolo di Dio. Lo evidenziò San Giovanni Paolo II quando, in queste terre, parlando ai Vescovi disse: «Il III Concilio Limense è il risultato di questa tensione, presieduto, incoraggiato e diretto da San Toribio, che diede come frutti un prezioso tesoro di unità nella fede, norme pastorali e organizzative e al tempo stesso valide ispirazioni per l’auspicata integrazione latinoamericana».[10] Sappiamo bene che questa unità e questo consenso fu preceduta da grandi tensioni e conflitti. Non possiamo negare le tensioni – ci sono –, le diversità – ci sono –; è impossibile una vita senza conflitti. Ma questi richiedono da noi, se siamo uomini e cristiani, di affrontarli e accettarli. Ma accettarli in unità, in dialogo onesto e sincero, guardandoci in faccia e guardandoci dalla tentazione o di ignorare quanto accaduto o di restarne prigionieri e senza orizzonti che permettano di trovare strade che siano di unità e di vita. E’ fonte di ispirazione, nel nostro cammino di Conferenza Episcopale, ricordare che l’unità prevarrà sempre sul conflitto.[11] Cari fratelli Vescovi, lavorate per l’unità, non rimanete prigionieri di divisioni che riducono e limitano la vocazione alla quale siamo stati chiamati: essere sacramento di comunione. Non dimenticate che ciò che attirava nella Chiesa primitiva era vedere come si amavano. Questa era – è e sarà – la migliore evangelizzazione.

    6. E per San Toribio giunse il momento di partire per la riva definitiva, verso quella terra che lo aspettava e che andava assaporando nel suo continuo lasciare la sponda. Questa nuova partenza, non la faceva da solo. Come nel quadro che commentavo all’inizio, andava incontro ai santi seguito da una grande moltitudine alle sue spalle. E’ il pastore che ha saputo riempire la sua valigia di volti e di nomi. Essi erano il suo passaporto per il cielo. Al punto che non vorrei tralasciare la nota finale, il momento in cui il pastore consegnava la sua anima a Dio. Lo fece in una borgata in mezzo alla sua gente e un aborigeno gli suonava il flauto perché l’anima del suo pastore si sentisse in pace. Voglia il cielo, fratelli, che quando dovremo compiere l’ultimo viaggio, possiamo vivere queste cose. Chiediamo al Signore che ce lo conceda.[12]

    Preghiamo gli uni per gli altri, e pregate per me.

 

 

[1] Discorso all’episcopato peruviano (2 febbraio 1985), 3.

[2] Cfr Miracolo di San Toribio, Pinacoteca Vaticana.

[3] J.M. Bergoglio, Omelia nella celebrazione eucaristica, Aparecida (16 maggio 2007).

[4] Esort. ap. Evangelii gaudium, 23.

[5] Cfr ibid., 74.

[6] Cfr Ernesto Rojas Ingunza, El Perú de los Santos, in: Kathy Perales Ysla (coord.), Cinco Santos del Perú. Vida, obra y tiempo, Lima (2016), 57.

[7] Cfr José Antonio Benito Rodríguez, Santo Toribio de Mogrovejo, in: Kathy Perales Ysla (coord.), Cinco Santos del Perú. Vida, obra y tiempo, 178.

[8] Cfr ibid., 180.

[9] Cfr Juan Villegas, Fiel y evangelizador. Santo Toribio de Mogrovejo, patrono de los obispos de América Latina, Montevideo (1984), 22.

[10] Discorso all’episcopato peruviano (2 febbraio 1985), 3.

[11] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 226-230.

[12] Cfr Jorge Mario Bergoglio, Omelia nella celebrazione eucaristica, Aparecida (16 maggio 2007).