Vincenzo Romano

Vincenzo Romano

(1751-1831)

Beatificazione:

- 17 novembre 1963

- Papa  Paolo VI

Canonizzazione:

- 14 ottobre 2018

- Papa  Francesco

- Piazza San Pietro

Ricorrenza:

- 20 dicembre

Sacerdote diocesano, parroco, si dedicò con tutte le forze all’istruzione dei fanciulli e alla cura delle necessità di operai e pescatori

  • Biografia
  • Omelia
  • omelia di beatificazione
  • Lettera Apostolica
"Don Vicienzo", il "prevete faticatore"

 

 

VITA  E  OPERE

 

 

    Vincenzo Romano nacque a Torre del Greco, Arcidiocesi di Napoli, il 3 giugno 1751 da Nicola e Grazia Rivieccio, genitori di una famiglia numerosa e di modeste condizioni. Fu battezzato nella locale chiesa parrocchiale di Santa Croce di cui per decenni sarebbe poi stato parroco.

    Il Beato mai si allontanò dalla sua città, percorrendo un largo cammino di santità pur nel breve intreccio di strade e di vicoli che la costituivano, distribuendo a piene mani la grazia sacerdotale. Verso i 14 anni, in risposta alla chiamata del Signore, chiese di entrare nel seminario di Napoli. Solo dopo ripetute istanze la sua domanda fu accolta a motivo dell’eccessivo numero di seminaristi e di sacerdoti già presenti in quel tempo a Torre del Greco.

    A partire dal 1765 poté intraprendere con profitto gli studi ecclesiastici, durante i quali ebbe come padre spirituale don Mariano Arciero, oggi Beato. Il 10 giugno 1775, all’età di 24 anni, fu ordinato sacerdote nella basilica di Santa Restituta, presso il duomo di Napoli. Il suo ministero fu subito caratterizzato da speciale attenzione per gli ultimi: nei giorni feriali dava lezioni ai ragazzi del popolo nella propria casa, mentre nei giorni festivi si recava nelle campagne, per celebrare la messa e catechizzare la popolazione rurale. Il motto preferito a cui il giovane prete ispirava il suo modo di agire era “dobbiamo fare bene il bene”: una massima a cui si attenne per tutta la vita e che si sforzò di trasmettere con l’esortazione e con l’esem­pio. Contemporaneamente all’impegno per l’educazione dei ragazzi, diversi dei quali avviò al Seminario, fu assistente spirituale della Confraternita dell’Assunta e cappellano del Conservatorio dell’Im­ma­colata, con oltre cinquanta educande.

    Il 15 giugno 1794, dopo un terremoto premonitore, un fiume di lava si riversò dal Vesuvio su Torre del Greco distruggendo quasi interamente la cittadina e devastando le coltivazioni circostanti, sebbene la maggior parte della popolazione riuscì a mettersi in salvo. Anche la monumentale chiesa parrocchiale di Santa Croce, che costituiva il centro della vita ecclesiale e sociale della popolazione, fu distrutta. L’anziano parroco, don Gennaro Falanga, di fronte all’im­mane opera di ricostruzione che si profilava innanzi individuò don Vincenzo Romano come il sacerdote più idoneo ad assumerne l’onere.

    Nominato Economo Curato di Santa Croce, il Beato divenne l’anima della rinascita materiale e morale della cittadina. Il tempio fu rifatto interamente con le offerte dei fedeli e con il sacrificio personale di tutta la popolazione. Don Vincenzo, che tutti chiama­vano “o prévete fatigatore” reclutò molti operai volontari e ottenne dal Cardinale di Napoli il permesso di lavorare anche nei giorni festivi. Così ogni domenica mattina i torresi scendevano alla marina, si caricavano sulle spalle i mattoni che un battello trasportava via mare e ritornavano in paese cantando una canzone che lo stesso don Vincenzo aveva composto per alleviare la fatica e ravvivare la spe­ranza.

    Alla morte del vecchio parroco tutta la città propose all’Arci­vescovo il nome di Vincenzo Romano come Preposito Curato della Parrocchia di Santa Croce. Al momento della presa di possesso della parrocchia, il 28 dicembre 1799, il Beato esclamò: “Signore, niente io posso, niente io sono, niente io so, la Cura è vostra, nella vostra parola, come San Pietro, io mi getto in questo mare… O Gesù, io sono l’asinello sotto di voi, voi guidatemi, voi tiratemi, voi regolatemi”.

    Per oltre trent’anni, con la stessa solerzia con cui aveva intrapreso la ricostruzione dell’edifico sacro, il Beato guidò la sua comunità cristiana per irrobustirne la fede e confermarla nella mutua carità. La sua opera traeva forza dalla preghiera e dalla familiarità con la Sacra Scrittura. Dopo una giornata di lavoro sacrificava il riposo per dedicarsi allo studio: preparava di notte le edificati prediche che, a fronte della raffinata ma spesso vuota retorica del secolo, costituivano un modello di semplicità e di chiarezza. Una delle iniziative più originali da lui attuate a servizio della Parola di Dio fu la “sciabica”, nome con cui i pescatori di Torre del Greco definivano le reti a strascico e la tecnica di pescare con esse: consisteva per il santo parroco nel predicare all’aperto, nei crocicchi dove più ferveva la vita pubblica, per radunare i lontani dalla fede e condurli in chiesa. In tal modo, come pescatore evangelico, faceva la sua “sciabica”, cioè la sua retata di anime per il Signore.

    Attento alla realtà sociale del suo tempo dedicò speciali cure ai pescatori di corallo, la cui attività costituiva la maggiore industria della città. Le barche coralline partivano per affrontare i pericoli del mare con la benedizione solenne del santo curato e con la sua parola di conforto. Nei circa nove mesi di assenza dei pescatori don Vincenzo si preoccupava per le loro famiglie provvedendo loro come un padre in caso di necessità. La sua carità rifulse accanto al letto di moribondi e di ammalati, da uno dei quali contrasse il tifo che lo condusse in fin di vita. Proverbiale fu la sua generosità, tanto che i parenti dovevano sorvegliare che non rimanesse sprovvisto di biancheria personale. Ad una povera donna, che ne aveva assoluto bisogno, donò perfino il proprio materasso.

    In questa completa dedizione al popolo e nella conformità al cuore del Buon Pastore trascorse la sua vita. Il giorno di Capodanno 1825 cadde accidentalmente e si fratturò il femore. Non guarì mai più. Gli si formarono grosse piaghe e fu costretto all’immobilità. Per alcuni anni fu “uomo di dolore”, come lo chiamavano i suoi parroc­chiani, finché stroncato da una polmonite morì il 20 dicembre 1831.

 

 

"ITER" DELLA CAUSA

 

 

a) In vista della Beatificazione

 

    Dopo la morte del preposito Beato Vincenzo Romano, curato di Torre del Greco, riportando la voce del popolo sulla sua santità, don Agnello Sportiello affermava: “Questo sacerdote, nostro parroco, lo vedremo sugli altari”.

    Il Processo Informativo sulla vita, le virtù e la fama di santità del Servo di Dio si svolse presso la Curia ecclesiastica di Napoli dal 1834 al 1842. Il 22 settembre 1843 Gregorio XVI firmava il decreto di Introduzione della Causa. Fecero seguito i Processi Apostolici sulla fama di santità “in genere” (1846-1850), sulla fama di santità “in specie” (1853-1858), e super scriptis (1862-1863). Finalmente il 25 marzo 1895 Leone XIII dichiarava eroiche le virtù del parroco di Torre del Greco. Intanto, nel mese di dicembre 1891 si era verificata per intercessione del Servo di Dio la guarigione della signora Carme­la Restucci da tumore alla mammella sinistra. Su questo evento fu istruito presso la Curia ecclesiastica di Napoli il relativo Processo Apostolico negli anni 1894-1895. Una seconda guarigione miraco­losa da un carcinoma alla gola, verificatasi il 29 luglio 1940 a favore di suor Maria Carmela Cozzolino, permise l’istruzione di un secondo Processo negli anni 1941-1942. Il 18 aprile 1962 si tenne la Consulta Medica sulle suddette guarigioni, che con decreto del 5 ottobre 1963 Paolo VI riconobbe veri miracoli operati da Dio per intercessione del Venerabile Vincenzo Romano. Nella solennità della Basilica Vatica­na, presenti i Padri Conciliari, il medesimo Pontefice procedeva al rito di Beatificazione, il 17 novembre 1963.

 

b) In vista della Canonizzazione

 

    Tra le numerose grazie attribuite all’intercessione del Beato Vincenzo Romano la Postulazione ha presentato per la sua auspicata canonizzazione la guarigione da «neoformazione maligna retroperi­toneale» del signor Raimondo Formisano di Torre del Greco, avvenuta nel 1989. La diagnosi fu posta nel mese di febbraio di quel medesimo anno. Sottoposto ad un trattamento chemioterapico, definito dai Periti Medici inadeguato ed incompleto, nel mese di ottobre gli esami clinico-strumentali documentarono l’assenza di markers tumorali e la sparizione della massa tumorale.

    Il Formisano, che aveva sempre rifiutato il ricovero ospedaliero e l’intervento chirurgico, si era rivolto fiducioso al Beato Vincenzo, verso il quale nutriva una specialissima devozione, per chiedere la grazia della guarigione, sostenuto in ciò dall’unanime e accorata supplica dei suoi familiari.

    L’Inchiesta diocesana sull’evento ritenuto miracoloso fu istruita nella diocesi di Napoli dall’8 aprile all’8 ottobre 2015 e ottenne il riconoscimento della validità giuridica il 24 giugno 2016.

I Periti Medici della Congregazione delle Cause dei Santi, riuniti in Consulta il 6 luglio 2017, dichiararono la guarigione completa e duratura, non spiegabile scientificamente.

    Il Congresso Peculiare dei Consultori Teologi del 26 ottobre 2017 espres­se parere favorevole circa l’attribuzione della guarigione all’intercessione del Beato Vincenzo Romano e ugualmente si espres­sero gli Eminentissimi ed Eccellentissimi Padri della Con­gregazione delle Cause di Santi nella Sessione ordinaria del 6 febbraio 2018.

    Il Santo Padre Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto sul miracolo.

SANTA MESSA E CANONIZZAZIONE DEI BEATI:
PAOLO VI, OSCAR ROMERO, FRANCESCO SPINELLI, VINCENZO ROMANO, 
MARIA CATERINA KASPER, NAZARIA IGNAZIA DI SANTA TERESA DI GESÙ, NUNZIO SULPRIZIO

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro
Domenica, 14 ottobre 2018

 

La seconda Lettura ci ha detto che «la parola di Dio è viva, efficace e tagliente» (Eb 4,12). È proprio così: la Parola di Dio non è solo un insieme di verità o un edificante racconto spirituale, no, è Parola viva, che tocca la vita, che la trasforma. Lì Gesù in persona, Lui che è la Parola vivente di Dio, parla ai nostri cuori.

Il Vangelo, in particolare, ci invita all’incontro con il Signore, sull’esempio di quel «tale» che «gli corse incontro» (cfr Mc 10,17). Possiamo immedesimarci in quell’uomo, di cui il testo non dice il nome, quasi a suggerire che possa rappresentare ciascuno di noi. Egli domanda a Gesù come «avere in eredità la vita eterna» (v. 17). Chiede la vita per sempre, la vita in pienezza: chi di noi non la vorrebbe? Ma, notiamo, la chiede come un’eredità da avere, come un bene da ottenere, da conquistare con le sue forze. Infatti, per possedere questo bene ha osservato i comandamenti fin dall’infanzia e per raggiungere lo scopo è disposto a osservarne altri; per questo chiede: «Che cosa devo fare per avere?».

La risposta di Gesù lo spiazza. Il Signore fissa lo sguardo su di lui e lo ama (cfr v. 21). Gesù cambia prospettiva: dai precetti osservati per ottenere ricompense all’amore gratuito e totale. Quel tale parlava nei termini di domanda e offerta, Gesù gli propone una storia di amore. Gli chiede di passare dall’osservanza delle leggi al dono di sé, dal fare per sé all’essere con Lui. E gli fa una proposta di vita “tagliente”: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri […] e vieni! Seguimi!» (v. 21). Anche a te Gesù dice: “vieni, seguimi!”. Vieni: non stare fermo, perché non basta non fare nulla di male per essere di Gesù. Seguimi: non andare dietro a Gesù solo quando ti va, ma cercalo ogni giorno; non accontentarti di osservare dei precetti, di fare un po’ di elemosina e dire qualche preghiera: trova in Lui il Dio che ti ama sempre, il senso della tua vita, la forza di donarti.

Ancora Gesù dice: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri». Il Signore non fa teorie su povertà e ricchezza, ma va diretto alla vita. Ti chiede di lasciare quello che appesantisce il cuore, di svuotarti di beni per fare posto a Lui, unico bene. Non si può seguire veramente Gesù quando si è zavorrati dalle cose. Perché, se il cuore è affollato di beni, non ci sarà spazio per il Signore, che diventerà una cosa tra le altre. Per questo la ricchezza è pericolosa e – dice Gesù – rende difficile persino salvarsi. Non perché Dio sia severo, no! Il problema è dalla nostra parte: il nostro troppo avere, il nostro troppo volere ci soffocano, ci soffocano il cuore e ci rendono incapaci di amare. Perciò San Paolo ricorda che «l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10). Lo vediamo: dove si mettono al centro i soldi non c’è posto per Dio e non c’è posto neanche per l’uomo.

Gesù è radicale. Egli dà tutto e chiede tutto: dà un amore totale e chiede un cuore indiviso. Anche oggi si dà a noi come Pane vivo; possiamo dargli in cambio le briciole? A Lui, fattosi nostro servo fino ad andare in croce per noi, non possiamo rispondere solo con l’osservanza di qualche precetto. A Lui, che ci offre la vita eterna, non possiamo dare qualche ritaglio di tempo. Gesù non si accontenta di una “percentuale di amore”: non possiamo amarlo al venti, al cinquanta o al sessanta per cento. O tutto o niente.

Cari fratelli e sorelle, il nostro cuore è come una calamita: si lascia attirare dall’amore, ma può attaccarsi da una parte sola e deve scegliere: o amerà Dio o amerà la ricchezza del mondo (cfr Mt 6,24); o vivrà per amare o vivrà per sé (cfr Mc 8,35). Chiediamoci da che parte stiamo. Chiediamoci a che punto siamo nella nostra storia di amore con Dio. Ci accontentiamo di qualche precetto o seguiamo Gesù da innamorati, veramente disposti a lasciare qualcosa per Lui? Gesù interroga ciascuno di noi e tutti noi come Chiesa in cammino: siamo una Chiesa che soltanto predica buoni precetti o una Chiesa-sposa, che per il suo Signore si lancia nell’amore? Lo seguiamo davvero o ritorniamo sui passi del mondo, come quel tale? Insomma, ci basta Gesù o cerchiamo tante sicurezze del mondo? Chiediamo la grazia di saper lasciare per amore del Signore: lasciare ricchezze, lasciare nostalgie di ruoli e poteri, lasciare strutture non più adeguate all’annuncio del Vangelo, i pesi che frenano la missione, i lacci che ci legano al mondo. Senza un salto in avanti nell’amore la nostra vita e la nostra Chiesa si ammalano di «autocompiacimento egocentrico» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 95): si cerca la gioia in qualche piacere passeggero, ci si rinchiude nel chiacchiericcio sterile, ci si adagia nella monotonia di una vita cristiana senza slancio, dove un po’ di narcisismo copre la tristezza di rimanere incompiuti.

Fu così per quel tale, che – dice il Vangelo – «se ne andò rattristato» (v. 22). Si era ancorato ai precetti e ai suoi molti beni, non aveva dato il cuore. E, pur avendo incontrato Gesù e ricevuto il suo sguardo d’amore, se ne andò triste. La tristezza è la prova dell’amore incompiuto. È il segno di un cuore tiepido. Invece, un cuore alleggerito di beni, che libero ama il Signore, diffonde sempre la gioia, quella gioia di cui oggi c’è grande bisogno. Il santo Papa Paolo VI scrisse: «È nel cuore delle loro angosce che i nostri contemporanei hanno bisogno di conoscere la gioia, di sentire il suo canto» (Esort. ap. Gaudete in Domino, I). Gesù oggi ci invita a ritornare alle sorgenti della gioia, che sono l’incontro con Lui, la scelta coraggiosa di rischiare per seguirlo, il gusto di lasciare qualcosa per abbracciare la sua via. I santi hanno percorso questo cammino.

L’ha fatto Paolo VI, sull’esempio dell’Apostolo del quale assunse il nome. Come lui ha speso la vita per il Vangelo di Cristo, valicando nuovi confini e facendosi suo testimone nell’annuncio e nel dialogo, profeta di una Chiesa estroversa che guarda ai lontani e si prende cura dei poveri. Paolo VI, anche nella fatica e in mezzo alle incomprensioni, ha testimoniato in modo appassionato la bellezza e la gioia di seguire Gesù totalmente. Oggi ci esorta ancora, insieme al Concilio di cui è stato il sapiente timoniere, a vivere la nostra comune vocazione: la vocazione universale alla santità. Non alle mezze misure, ma alla santità. È bello che insieme a lui e agli altri santi e sante odierni ci sia Mons. Romero, che ha lasciato le sicurezze del mondo, persino la propria incolumità, per dare la vita secondo il Vangelo, vicino ai poveri e alla sua gente, col cuore calamitato da Gesù e dai fratelli. Lo stesso possiamo dire di Francesco Spinelli, di Vincenzo Romano, di Maria Caterina Kasper, di Nazaria Ignazia di Santa Teresa di Gesù e anche del nostro ragazzo abruzzese-napoletano, Nunzio Sulprizio: il santo giovane, coraggioso, umile che ha saputo incontrare Gesù nella sofferenza, nel silenzio e nell'offerta di sé stesso. Tutti questi santi, in diversi contesti, hanno tradotto con la vita la Parola di oggi, senza tiepidezza, senza calcoli, con l’ardore di rischiare e di lasciare. Fratelli e sorelle, il Signore ci aiuti a imitare i loro esempi.

SALUTO DI PAOLO VI 
AL NUOVO BEATO VINCENZO ROMANO
 FULGIDO ESEMPIO DI SACERDOTE E PARROCO

Domenica, 17 novembre 1963

    

Signor Cardinale, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, 

Salutiamo il nuovo Beato Don Vincenzo Romano, e rallegriamoci nel Signore, che ci lascia contemplare come cittadino del cielo questo suo fedele ed esemplare seguace. 

Abbiamo motivi particolari non pochi per essere lieti di questa glorificazione, oltre quello principale dell’onore che è così tributato al Signore e che ridonda sulla Chiesa intera, la quale vede l’albo dei suoi figli vittoriosi arricchirsi del nome d’un nuovo eletto. 

Non possiamo tacere che uno di questi motivi è costituito dal fatto che questo Beato Romano era Napoletano! Di Torre del Greco, a dir vero; cioè nato e vissuto nella rinomata e ridente cittadina distante da Napoli poco più d’una decina di chilometri, quanto basta per dare agli abitanti di Torre del Greco una loro distinta fisionomia morale e popolare, e perciò una ragione di legittimo vanto di ascrivere nella propria anagrafe, anzi nella propria storia, questo suo raro ed ormai celebre figlio, nato appunto, vissuto e morto a Torre del Greco; ma quanto basta altresì per riconoscere alla popolosa borgata ed a questo illustre suo cittadino l’onore di appartenere all’arcidiocesi di Napoli, alla sua circoscrizione civile, alla sua cultura, alla sua educazione, alla sua vita. 

Dobbiamo esprimere le Nostre felicitazioni al Signor Cardinale Arcivescovo di Napoli per questa beatificazione, dobbiamo estenderle al venerabile Clero ed ai fedeli tutti dell’arcidiocesi partenopea, ed a quelli della fertile e benedetta e famosa terra della Campania, perché la virtù riconosciuta in Vincenzo Romano non è solo strettamente a lui personale, ma è rappresentativa d’una spiritualità e d’un costume, che possiamo ben dire regionali. Questa considerazione del Beato nel quadro religioso e civile, in cui si svolse la sua vita, apre alla nostra mente varie questioni, sia generali che particolari, di grande interesse, alle quali risponderanno gli storici e gli agiografi, e alle quali appena accenniamo; quale sia, ad esempio, l’influsso dell’ambiente sulla personalità d’un santo, quanto questi riceva, assorba, modifichi ed esprima della mentalità popolare che lo circonda, e come perciò egli assurga a tipo caratteristico e nobile d’un’età e d’una popolazione. Che l’ambiente abbia enorme importanza nello svolgimento della nostra vita lo dice il fatto che grande parte della educazione consiste nel porre intorno all’alunno un complesso di circostanze e di fattori, che dovrebbero favorire lo sviluppo migliore dell’alunno stesso, come pure grande parte della disciplina ascetica consiste nella scelta e nella disposizione di condizioni ambientali utili alla formazione e all’esercizio della vita spirituale. Nel caso nostro l’ambiente è quello offerto dalla modesta e comune maniera di vivere d’una famiglia del popolo napoletano nella seconda metà del settecento e nei primi decenni dell’ottocento, perfezionato dall’educazione ecclesiastica di quel tempo e di quella città. Don Vincenzo Romano non è uscito da quell’area locale e morale; perciò la sua figura ne è tipica e rappresentativa.

E la ricerca dei coefficienti che qualificano tale figura ci fa facilmente scoprire delle visioni splendide e grandiose: Napoli è in grande forma a quell’epoca, il suo nome è europeo, e la sua vita religiosa è caratterizzata dalla presenza e dall’azione d’un’altra santa figura di primo ordine: Alfonso Maria de’ Liguori, che era nato quasi cinquant’anni prima di Vincenzo Romano, ma che gli fu contemporaneo per oltre trent’anni, nel periodo cioè in cui S. Alfonso irradiava i suoi insegnamenti di scrittore e di dottore, ed i suoi esempi di religioso e di Vescovo. È certo che il movimento di pensiero e di azione, a cui S. Alfonso dava origine in quegli anni e in quella regione, fece scuola anche per l’umile ed intelligente prete di Torre del Greco; e fu alta scuola, anche perché essa pure partecipe e fautrice del risveglio religioso e dell’ascetismo canonico del Clero napoletano di quegli anni. A chi obbiettasse che quegli anni e quelli del successivo periodo napoleonico non erano, sotto molti aspetti, favorevoli alla apparizione d’un fenomeno di santità ecclesiastica - basti pensare alle correnti gianseniste, alla politica anticlericale di Bernardo Tanucci, e ai bisogni di riforma morale e religiosa, di cui lo stesso S. Alfonso ci informa -, potremmo fare un’altra osservazione, ch’è proprio la lode migliore dei Santi rispetto all’ambiente, in cui si svolge la loro formazione e la loro attività; ed è quella che vede come il Santo, e nel nostro caso il Beato Vincenzo Romano, non solo personifica e porta a livello superiore quanto di bene l’ambiente possiede, ma reagisce a quanto di male o di misero l’ambiente gli offre e impone al costume corrente; perché egli sa risuscitare energie spirituali e morali dal fondo delle singole anime e dal cuore del popolo, che altri né supponeva esi-stessero né sapeva cavare. 

L’osservazione non è soltanto fonte di ammirazione per il servo di Dio, che si è francato dai vincoli delle consuetudini invalse, credute inespugnabili, ma dev’essere anche lezione per noi, quando c’insegna che ogni ambiente, con la grazia del Signore e con la buona volontà, può essere fertile di santità: con ciò che ha di buono aiuta e conforta, con ciò che ha di avverso provoca a militante fortezza l’anima grande. E cioè ci ammonisce a non sopravalutare le condizioni d’ambiente, quasi fossero per l’anima forte, libera e cristiana indispensabili e determinanti: alla virtù, al bene, se positive, alla mediocrità o al vizio, se negative; esse sono certamente coefficienti molto importanti e spesso praticamente influenti e prevalenti sulla condotta della gente comune, non però su quella dell’eroe della virtù, che le domina e le personifica, se buone, vi resiste e spesso le supera e le trasforma, se cattive. La santità cioè fiorisce, se Dio aiuta, dappertutto; ed ogni ambiente le può giovare, ogni condizione di vita le può essere propizia, quando l’incontro delle due volontà, la divina e l’umana, vi provocano la vittoriosa scintilla della carità (cfr. Rom. 8, 35). 

Ed è ciò che precisamente ammiriamo nel nuovo Beato: la sua è proprio una santità che scaturisce dal dialogo col suo ambiente: egli vi è nato, vi si è formato; egli lo assorbe, lo plasma in se stesso sul modello cristiano e sacerdotale, poi lo rieduca, lo evangelizza, lo santifica. Era infatti un prete, del paese, come ve ne erano tanti a quel tempo; un Sacerdote diocesano, ch’ebbe la fortuna di un’ottima educazione in Seminario, e che poi ritorna fra i suoi familiari e compaesani ad esercitare vari ministeri dapprima, poi l’ufficio di Parroco, per .oltre trent’anni, dal 1799 al 1831, anno della sua morte. Lo schema della sua vita sembra quello normale per un Sacerdote in cura d’anime. Dov’è l’aspetto straordinario proprio della santità?, dov’è l’aspetto esemplare che meriti la nostra imitazione e la nostra venerazione?

Per rispondere, dovremmo narrare la storia di questo buon curato e vedremmo quale sia il genere di perfezione proprio di chi si consacra alla vita pastorale; è il dono di sé per la salvezza degli altri. E poiché oggi tanto si parla di vita pastorale, vedremmo questo semplice prete di campagna venirci incontro, dalla terra del Vesuvio, per insegnarci qualche cosa di magnificamente attuale e universale. Che Vincenzo Romano, ad esempio, abbia prefisso a se stesso la massima di «fare bene il bene», indica quale esigenza di perfezione abbia dominato la sua vita. Vi sarebbe da parlare della sua vita interiore, della sua religione personale, del suo impegno allo studio, della sua austerità privata, del suo distacco dal denaro e dalle ambizioni onorifiche non ignote talvolta anche ai buoni sacerdoti, in una parola dello sforzo ascetico che domina tutto il corso dei suoi anni e che compenetra la continua proiezione di sé al servizio degli altri ed in gran parte ne risulta; si dovrebbe fare un accenno a certi bagliori mistici, che qua e là sfuggono dal segreto d’un’anima sempre tesa alle cose di Dio e sempre pronta ad esprimerne l’esperienza con gli accenti affettivi e sentimentali, propri del temperamento meridionale e della scuola alfonsiana. 

Ma ciò che ora attrae la Nostra attenzione è il suo comportamento pastorale, cioè l’esercizio del suo ministero esteriore a vantaggio del prossimo; ma non potremo trascurare due previe osservazioni: che questo ministero esteriore si alimenta di vita interiore, ne trae le sue radici, le sue energie, i suoi impulsi, i suoi conforti; non è un mestiere profano, non è l’affanno di Marta, non è la dissipazione che svuota l’attivista d’una sua profondità personale; è carità che arde di dentro e che si’ accende nell’intimità del colloquio devoto e della meditazione pensosa e poi trabocca. E perciò (seconda osservazione), questo stesso ministero esteriore, mentre attrae il sacerdote che vi ha dedicato la vita e diventa per lui un obbligo assillante, lo spaventa e lo opprime nello stesso tempo, e quasi lo respinge, per il senso opprimente di responsabilità che porta con sé e per le enormi difficoltà, che sempre rappresenta e che, appena avvertite, mettono in evidenza la sproporzione tra i doveri da compiere e le forze disponibili, immensi i primi, povere e vacillanti le seconde. È il tormento di chi si consacra alla cura d’anime. Viene opportuna la parola di S. Agostino: «Niente è in questa vita, e specialmente in questo tempo, più difficile, più faticoso, più pericoloso» (Ep. ad Valerium, 21; PL 35, 88). Il Beato Vincenzo Romano provò anche lui la paura d’un ministero così impegnativo e responsabile com’è quello del Parroco; avrebbe voluto sottrarsi a tanto onere, ed ebbe a dire di sé: «Avrei voluto piuttosto la morte, che aggravarmi di questo sì pericoloso peso della cura d’anime; questa carica non si può accettare né per onore, né per interesse, o per altro fine; ma soltanto per volontà di Dio». Riscontriamo così in Lui una somiglianza con il Santo Curato d’Ars, anch’egli oppresso interiormente dalla responsabilità dei doveri pastorali, fino a tentare di fuggire dalla sua parrocchia. Abbiamo nominato S. Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars: sarebbe interessante notare molti altri aspetti di somiglianza fra quel santo parroco e questo, legati entrambi a eguali doveri, e entrambi straordinariamente abili ad esercitarvi, sia pure in forme e misure differenti, virtù analoghe e a ricavarne meriti somiglianti. 

Troveremo così anche in Vincenzo Romano una grande profusione di parola di Dio; da quella sistematica, e non mai abbastanza raccomandabile, della catechesi, vera base della vita religiosa e profonda esigenza del tempo nostro, a quella esortativa e edificante (si dice che fosse perfino prolissa la predicazione del nostro Beato; ora forse anche la sua non lo sarebbe più!). Troveremo la premura antiveggente di far partecipare i fedeli alla celebrazione della S. Messa; un suo libretto dal titolo «la Messa pratica» ci dice come egli avesse l’intuito di quella necessità che l’assemblea dei fedeli preghi bene, preghi insieme e preghi coordinando pensieri e voci a quelli del Sacerdote celebrante, necessità la quale oggi è riconosciuta dalla dottrina della Chiesa e promossa dai movimenti liturgici. 

Troveremo una carità, che si espande fuori del puro esercizio del culto, e si interessa e si affatica per tutti i bisogni umani privi d’altro soccorso: il Parroco a nulla è estraneo, tutti conosce, tutti conforta, tutti ammonisce, tutti benefica. Anzi la sua carità da individuale si fa sociale, da spirituale anche professionale ed economica (per ritornare subito morale e religiosa), se ciò è richiesto da quel bene delle anime, che per un Parroco è «suprema lex». Il Beato Vincenzo ci dà, a questo riguardo, un bellissimo esempio, quasi precursore della carità sociale della Chiesa ai nostri giorni, organizzando ed assistendo i pescatori di corallo, che a Torre del Greco erano e sono tuttora numerosi, laboriosi e bisognosi.

Così che egli merita che noi lo consideriamo, come si suol dire, «d’attualità», come esempio di virtù di cui il nostro tempo ha manifesto bisogno. E lo avranno caro, come Protettore e come modello, i fedeli tutti, ma in modo particolare i Sacerdoti, quelli diocesani specialmente, per i quali l’obbligo della perfezione cristiana non è soste-nuto dalla professione religiosa, ma è reclamato sia dalla loro dignità, sia dal loro ministero, e, quando questo sia esercitato con pienezza di carità, mediante il ministero stesso quella perfezione diventa possibile e grande. Ai Parroci soprattutto siamo felici di additare un loro Fratello in cielo; ad essi va, anche in questa occasione, il Nostro particolare ed affettuoso pensiero: possa il Beato mostrare loro la grandezza della loro missione; e pensando in quali difficili e modeste condizioni tanto spesso si svolge il loro ministero, ricorderemo loro che «non sono gli orizzonti geografici ad allargare quelli dello spirito, ma la vastità degli orizzonti dell’anima a dare anche ad un luogo minuscolo le dimensioni dell’universo» (Garofalo, p. 36). E voglia questo nuovo Beato loro mostrare che e come un Sacerdote in cura d’anime dev’essere santo; voglia lui sostenere i loro disagi, compensare le loro privazioni, fortificare il loro spirito di sacrificio e di disinteresse, consolare le loro pene, premiare le loro fatiche! Vada a loro con i Nostri voti la Nostra Benedizione. 

Perché, Fratelli e Figli, è di Sacerdoti zelanti, è di Parroci santi che soprattutto abbisogna oggi la Chiesa: essa ne celebra uno nuovo in Paradiso, possa essa annoverarne una moltitudine nuova anche nel mondo presente!

 

LITTERAE APOSTOLICAE

de peracta Beatificatione

 

PAULUS  PP. VI

ad futuram rei memoriam

 

 

    Lumen sanctitatis, qua Dominus Iesus Ecclesiam suam velut nota distinguere voluit, iis ipsis affulsit aetatibus, quas inter se fortiter repugnantes poëta quidam christianus depinxit. Etenim saeculo duodevicesimo exeunte, ineunte undevicesimo, cum in Gallia primum, mox in Europa universa acerbae fierent commutationes rerum publica­rum, Summisque catholicae religionis Magistris, Decessoribus Nostris invictae fortitudinis, vis inique illata esset subeunda, obscurissima futurorum exspectatione, lumen illud micare non desiit in viris, quos a Dei providentia missos esse ad monitum, exemplum rerumque caelestium demonstrationem firmissime credi­mus.

    Horum quidem in numerum ut Ioannes Maria Vianney, Arsiensis ille curio, ita iure meritoque est collocandus Dominicus Vincentius Romano, sacerdos saecularis idemque curio in oppido Neapolitanae archidioecesis, cui hodie decretos Beatorum Caelitum honores sollemni ritu tribuimus. Is enim in Herculanensi agro et quidem in urbe, quae Turris Octava seu vulgo «Torre del Greco» nunc appellatur, die tertia mensis Iunii anno millesimo septingentesimo quinquagesimo primo, tenui natus familia, parentibus Nicolao Romano et Gratia Rivieccio, vitam fere omnem ibidem transegit; attamen in tanta generis humilitate opumque penuria, ut erat id temporis condicio plerisque incolarum, virtutem sublimem prae se tulit exstititque de illa terrae amoenitate, Tyrrheno mari montique Vesuvio adiacentis, velut flos venustissimus.

    Puerulus, mox altero nomine Vincentii appellatus, postridie quam natus est, pro laudabili religiosae cuiusvis familiae more, e sacro baptismatis fonte renatus est. Atque cum rationis factus est compos, ingenio ad bonum inclinato visus est praeditus, eaque, quae viri esset, mentis maturitate. Deus quippe − ita ei, quem recta fides illuminat, licet existimare − Famulum longa quasi via ducebat, ut se quaereret invitantem vocantemque sequeretur. Ita factum est ut puer, litteris doctrinisque iam aliquid tinctus, sacrum Neapolitanorum iuvenum ephebeum ingredi exoptaret, ut se ad munia sacerdotalia quam optime compo­neret. Sed ei non defuerunt in consilio assequendo impe­dimenta: pater enim, uno praediolo rusticaque quadam procura­tione familiam cum aleret, filio aurificis artem esse exercendam censebat, eo praesertim quod natu maximus filius religiosam vitam in «Congregatione Presbyterorum doctrinae christianae» professus iam erat; Antistes vero Neapolitanorum, qui tot esse sciebat in suo Seminario ex Turre Octava ortos alumnos, metuens ne numerus recto morum cultui officeret, eius postulationi a primo restitit, ac tantum, nobili viro deprecatore, votum benigne explevit.

    Adulescentem, qui in suo itinere retardatus, Ignátia­nae etiam Societati nomen dare cogitaverat, primis diebus post ingres­sionem flentem invenerunt: eratne domus suorumque desiderium? Ille negavit, siquidem lacrimae ob animi laetitiam effundebantur, gratis­simamque in Deum volun­ta­tem, tam magni beneficii largitorem, declarabant. Quidam condisci­pulus eum ovem appellavit subtristem, verum singularis nominis causa a remissione itemque gravitate erat repetenda. Singulis fere diebus, quod tunc in more non erat, ad eucharisticum pabulum accedens, mirabilem cursum progressionem­que ad virtutes confecit: impensa praestabat pietate, eratque aequalibus ob doctrinarum studium oboedientiaeque diligentiam imitandum exemplar. Eam quippe in opinionem venerat, ut moderatorum iussu rudiores etiam docendi munus susciperet atque aliorum adulescentium globo praeesset. Id temporis in illo religionis domicilio praecepta et exempla Sancti Alfonsi de Ligorio praesentissima vigebant eademque suo animo altius impressit Vincentius, quem ceterum constat consilio etiam et opera Mariani Arciero, Venerabilis Famuli Dei, usum esse toto sacri tirocinii tempore.

    Demum anno millesimo septingentesimo septuagesimo quinto, die proximo ante sollemne SS.mae Trinitatis, florens aetate, virtute instructus, sacerdotio est auctus, quod multos per annos ardenter appetierat. Nec multo post Neapoli ad suum oppidum reversus est, ut ibi «bonus miles Christi»[1] laborem iniret et mini­sterium. Res quidem spem non fefellit exspectationemque, quae magna sane erat omnibus qui eum noverant. Duo autem munera, quibus protinus praecipuam alacremque dedit operam, vitae magistrum morumque formatorem cuivis veluti ob oculos proponunt. Totus enim fuit in pueris excipiendis, quos assidua industria nullius­que lucri causa ad se vocabat, ut cum humanarum disciplinarum praeceptis tum prae­sertim religiosa doctrina erudiret. Potiorem vero huiusce institutionis atque navitatis partem clericis Turris Octavae tribuebat, quos multos ad sacerdotium perduxit, cum iis toto studiorum curriculo a grammaticae rudimentis ad altiores usque sive iuris sive moralium divinarumque rerum scholas affuisset. Quod alterum suscepit officium, ad populum pertinebat, quem crebris orationibus, et in ecclesiis et in foris vicisque habitis, ad scientiam fidei christianae christianaeque vitae integritatem solebat cohortari. Rustico sacello religiosaeque cuidam sodalitati praepositus, quin operam auxiliumque in urbana etiam paroecia Sanctae Crucis conferret numquam recusavit.

     Testes omnes una consensione eum non solum verbi Dei, sed etiam Paenitentiae Sacramenti administrum impigrum, constantem, nimia quaeque refugientem praedicant. Nulla in eo fuit personarum, ut aiunt, acceptio; quodsi quem maiore quam reliquos caritate est prosecutus, is certe miser pauperque fuit! His de causis nihil prorsus admireris, quod curio illius, quam supra diximus, paroeciae, aetate provectus, alii cum esset sacerdotes, Vincentium ut laboris socium primumque adiutorem sibi voluit asciscere. Quod quidem arduum fuit, cum nullae amicorum preces neque populi fidelis vota ad munus suscipiendum eum adducerent. Sibi plane conscius quantum oneris in animorum cura inesset, diu perstitit abnuere, ac tantummodo oboedientiae causa ad eiusmodi officium est inductus.

    Nec alium se praestitit tum quando, anno scilicet millesimo septingentesimo nonagesimo nono, in demortui curionis locum suffectus est. Facile autem intellectu est ut Praepositum curionem magis magisque eum in animorum salutem procurandam incubuisse, suasque sive corporis sive animi vires quasi multiplicasse. Ac primum illius paroeciae, recens quidem canonicorum collegio auctae, princeps sedes idest ecclesia reficienda erat, quoniam saxis percussa pumicibusque Vesevi saevissimi corruerat. Quae si amplior et splendidior surrexit, id Famulo Dei velut auctori est tribuendum, qui totius operis curam suscepit.

    In eadem luctifica Vesuvinorum ignium eruptione aliae etiam clades, nihilo minores, fuerunt, easque sarcire, lugentium filiorum pater ac solator, ipse studuit. Sed longum est omnia incepta recensere, quae plurima ac saluberrima universo Herculanensium fidelium gregi aggressus est. Curio, vere «omnibus omnia factus»,[2] in egenis sublevandis, in invisendis aegrotis, in pueris excolendis, in omnibus denique pro munere iuvandis plurimum operae insumpsit, numquam suo commodo serviens suique paene oblitus. Nempe quae iam timida quasi ovis visa erat, in «equum indomitum», in «leonem fortissimum», ut gravium testium verba proferamus, divinae gloriae causa sese verterat. Nostra autem interest id memorare, qua scilicet mente atque sollicitudine ad opificum condiciones attenderit. Aequitatis observantissimus, non solum quas ipse operas conduxerat, iis pactam mercedem ad diem persolvebat, sed ut ceteris etiam opificibus prompte daretur curabat.

    Hac de re unum sufficiat meminisse: in usu tum erat coralliorum piscatio, quam artem, utpote cum esset lucri haud modici fons, plurimi factitabant oppidani. Navigiis ad id negotii ornatis prodibant in altum multosque menses aberant humiles piscatores; post reditum autem periculum erat, ne fructu, qui labore ac sanguine steterat, fraudarentur. Tum venerabilis vir, ut antea familiis patre absente subvenerat, ipsisque nautis sacerdotem comitem adiunxerat, ita iuris defensor mutua inter negotiatores et operas officia urgebat, cum moralis disciplinae peritos ea tota de re sententiam rogavisset. Memores quidem huius sanctae industriae, quam vere «apostolatum maris» dicere possumus, piscatores Turris Octavae summa gratia eum semper sunt prosecuti. Cura autem paroeciae non ea erat, ut illum abstraheret a totius Ecclesiae condicione cogitanda. Cum in vincula Pius PP. VII esset coniectus, queribunda voce dicere auditus est: «Petrus in carcere detinetur» atque, ut olim ab Ecclesia primaeva «oratio fiebat sine intermissione»[3] ut Apostolorum princeps optata frueretur libertate, ita tum curiati omnes Sanctae Crucis preces fundebant ad Deum, ut Petri successor suae Sedi restitueretur.

    Ceterum illa tempestas, regno utriusque Siciliae turbulenta, multum huic viro attulit difficultatis doloresque effecit varios. Temporibus enim sive Parthenopeiae reipublicae, sive diuturnae terrae occupationis, a Gallis factae, sive demum motuum a carbonariorum secta − ut appellabatur – concitato­rum, crimine laesae civitatis, quasi patrio amore careret populoque adversaretur, insimulatus est eiusque effigies est combusta. Atque etiam, ne quid fortitudini deesset ac virtuti, quae rebus adversis exercitata se roborat, acerrimis corporis doloribus est oppressus. Nam extremis vitae annis femoris fractura laboravit, ex qua claudicans duobus etiam crurum vulneribus est paene confectus. Attamen suam sollicitudinem non remisit neque curiale deposuit officium, id timens ne Dei obsisteret voluntati. Ita auxilio et opera nepotis usus, qui postea Episcopus Isclanus dictus est, in prima velut acie senex venerandus maluit perstare. Vergente autem anno millesimo octingentesimo tricesimo primo, tempore novendialis supplicationis nato Christo celebrando, gravi peripneumonia correptus est ac die vicesima mensis Decembris eodem anno, cum sive populo sive clero vitae exemplis, testamenti verbis, ipsa morbi perpessione praeluxisset, dulcissima enuntians Iesu et Mariae nomina, de terrestri vita migravit, novam aeternamque initurus. Cum autem sacri aeris tinnitus tristissimum mortis nuntium undique circa attulit, continuo tota civitas, quasi amantissimo parente sibi videretur orbata, vehementi est perculsa dolore atque catervatim domum curionis contendit, ut corpus exani­mum inviseret, quod brevi post, sollemni funere elatum, honesto est conditum loco. Interea praeclarae fama sanctimoniae prope longeque percrebrescebat, eamque Deus miraculis visus est comprobare. Quapropter Causa de Beatorum Caelitum honoribus eximio huic curioni deferendis coepta est agi, atque post ordinarios, quos vocant, processus, Commissio introductionis Causae, apud Sacram Rituum Congregationem instituendae, a Gregorio PP. XVI, Decessore Nostro, die vicesima secunda mensis Septembris anno millesimo octingen­tesimo quadra­gesimo tertio obsignata.

    Apostolicis deinde inquisi­tionibus absolutis, de virtutibus theologalibus et cardinalibus Venerabilis Vincentii Romano est disceptatum; quas, omnibus perspectis et expensis, a Famulo Dei heroum in modum cultas esse Leo PP. XIII, item Decessor Noster, die vicesima quinta mensis Martii anno millesimo octingentesimo nonagesimo quinto edixit. Exercita deinde quaestione de miraculis, quae, eiusdem nomine invocato, a Deo ferebantur patrata, omnique re in suetis comitiis diligenter exquisita, Nos die quinta mensis Octobris anno millesimo nongentesimo sexagesimo tertio de duobus pronuntiavimus constare. Unum igitur superfuit excutiendum, num Famulus Dei inter Beatos Caelites tuto foret recensendus. Quod quidem factum est. Purpurati enim Patres sacris Ritibus tuendis praepositi, Praelati Officiales Patresque Consultores id fieri posse cunctis sententiis affirmaverunt.

    Quorum exceptis suffragiis Deoque enixis adhibitis precibus, Nos die duode­vicesima mensis Octobris anno millesimo nongentesimo sexagesimo tertio ad Venerabilis Famuli Dei Vincentii Romano sollemnem Beatificationem tuto procedi posse ediximus. Quae cum ita sint, Nos, vota Dilecti Filii Nostri Alfonsi S.R.E. Presbyteri Cardinalis Castaldo, Archiepiscopi Neapolitani, atque curionis fideliumque paroeciae Sanctae Crucis, necnon sacerdotum utriusque cleri, civilium magistra­tuum incolarumque omnium Turris Octavae libentissime explentes, harum Litterarum vi atque auctoritate Nostra Apostolica facultatem facimus, ut Venerabilis Famulus Dei Vincentius Romano, sacerdos saecularis, Beati nomine in posterum appelletur, eiusque corpus et lipsana, seu reliquiae, non tamen in sollemnibus supplicationibus deferendae, publicae Christifidelium venerationi proponantur, atque etiam ut eiusdem Beati imagines radiis decorentur.

    Praeterea eadem auctoritate Nostra concedimus, ut de illo quotannis recitetur Officium de Communi Confessorum non Pontificum cum lectionibus propriis per Nos approbatis, et Missa de eodem Communi cum orationibus propriis item probatis celebretur iuxta Missalis et Breviarii Romani rubricas. Huiusmodi vero Officii recitationem Missaeque celebra­tionem fieri dumtaxat largimur in archidioecesi Neapolitana, cuius intra fines Beatus ipse ortus est diemque obiit supremum, nempe in cunctis eiusdem templis et sacellis, ab omnibus christifidelibus, qui horas canonicas recitare teneantur, et, quod ad Missas attinet, a sacerdotibus omnibus, ad templa seu sacella, in quibus eiusdem Beati festum agatur, conve­nien­tibus. Largimur denique, ut sollemnia Beatificationis Venerabilis Vincentii Romano, servatis servandis, supra dictis in templis seu sacellis celebrentur, diebus legitima potestate statuendis, intra annum, postquam sollemnia eadem in Sacrosancta Patriarchali Basilica Vaticana fuerint peracta.

    Non obstantibus Constitutionibus et Ordinationibus Apostolicis nec non Decretis de non cultu editis ceterisque quibusvis contrariis. Volumus autem, ut harum Litterarum exemplis, etiam impressis, dummodo manu Secretarii Sacrae Rituum Congregationis subscripta sint eiusdemque Congregationis sigillo munita, etiam in iudicialibus disceptationibus, eadem prorsus fides adhibeatur, quae Nostrae voluntatis significationi, hisce ostensis Litteris, haberetur.

    Datum Romae, apud Sanctum Petrum, sub anulo Piscatoris, die XVII mensis Novembris, Dominica XXIV post Pentecostem, anno MCMLXIII, Pontificatus Nostri primo.

 

Hamletus I. Card. Cicognani

a publicis Ecclesiae negotiis

 

[1] 2 Tim. 2,3.

[2] 1 Cor. 9, 22.

[3] A ct. 12,5.