Prefazione al libro "San Benedetto e i suoi figli - Un popolo nella Storia" di Alberto Royo Mejía

 

Prefazione al libro "San Benedetto e i suoi figli - Un popolo nella Storia" 

 

Scrivo volentieri alcune parole di presentazione a questo studio di mons. Alberto Royo Mejía, promotore della fede nel dicastero delle Cause dei Santi. Lo faccio sia come gesto di apprezzamento per questo suo lavoro che, a me pare, essere alquanto unico nel suo genere, sia come gesto di mia personale gratitudine alla famiglia benedettina, cui sono particolarmente legato a partire dal giorno in cui, appresa la mia chiamata al ministero episcopale, diedi il mio assenso per iscritto. Era, quello, l’11 luglio 1998, giorno in cui nel calendario romano si celebra la festa di san Benedetto. La nomina sarebbe stata resa pubblica il successivo 25 luglio e, in quei giorni, nel silenzio del «segreto pontificio» ma pure nella calura dell’estate salentina, rilessi per me le pagine dedicate dalla Regola all’Abate. Nella mia Chiesa d’origine, per giunta, è presente un monastero femminile, le cui origini risalgono agli inizi del XII secolo e al quale sono spiritualmente molto legato; di recente, poi, ho avuto la gioia vedere pubblicata l’edizione critica da me curata del testo Preghiera, liturgia, lectio divina, che ripropone il ciclo di conferenze che il p. Mariano Magrassi osb, figura di eminente spiritualità, all’epoca monaco benedettino dell’abbazia di Genova-Quarto e poi arcivescovo di Bari, tenne nel 1970 a un «Corso Monastico Benedettino per l’aggiornamento liturgico».

Il lavoro di mons. Alberto Royo Mejía mi offre ora (e non soltanto a me) di entrare in tanti spazi della vita benedettina apertisi nel corso dei secoli sino a oggi: spazi di vita cenobitica e pure di eminente santità; territori già noti alla storia, non soltanto della Chiesa, ma pure angoli sconosciuti alla comune attenzione. Non nascondo che alcune figure, maschili e femminili, erano ignote anche a me sino ad oggi.

Come definire, allora, questo lavoro? Avendo uno sguardo ai preziosi volumi della Bibliotheca Sanctorum ideata e curata dall’indimenticato professore lateranense Filippo Caraffa, si potrebbe parlare nel nostro caso di una silloge benedettina che ad un primo sguardo permette di cogliere, intuire e pregustare un insieme di figure che, a partire dalla radice di san Benedetto, si sviluppa nel tempo come un albero frutti-fero che si ramifica nello spazio.

A partire da san Benedetto, ho appena scritto. Benedetto, che per l’Europa occidentale è il primo (e anche principale) patrono, come nel 1964 lo volle san Paolo VI e che è per tutta la civiltà e cultura cristiana un punto fermo. Una bella provocazione nel tempo della fluidità, in cui si ripresenta pure con forti valenze antropologiche, il detto da Platone attribuito a Eraclito secondo cui «tutto si muove e nulla sta fermo». Mons. Royo Mejía cita al riguardo le parole pronunciate dal Papa Benedetto XVI a conclusione del suo discorso nell’Udienza del 9 aprile 2008: «Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero». Sono parole di enorme attualità.

Le parole di Benedetto XVI mi riportano a quelle usate da san Paolo VI quando il 24 ottobre 1964 viaggiò a Montecassino per dedicare la chiesa abbaziale, ricostruita dopo la distruzione della guerra. Nella sua omelia, ricordando il messaggio di san Benedetto egli parlò dell’urgenza di un recupero dell’humanum, dell’uomo. Quale riflessione potrebbe oggi essere più attuale? Evocando quell’habitare secum di Gregorio magno, Paolo VI disse:

«Correva l’uomo una volta, nei secoli lontani, al silenzio del chiostro, come vi corse Benedetto da Norcia, per ritrovare se stesso: ma allora questa fuga era motivata dalla decadenza della società, dalla depressione morale e culturale d’un mondo, che non offriva più allo spirito possibilità di coscienza, di sviluppo, di conversione; occorreva un rifugio per ritrovare sicurezza, calma, studio, preghiera, lavoro, amicizia, fiducia. Oggi non la carenza della convivenza sociale spinge al medesimo rifugio, ma l’esuberanza. L’eccitazione, il frastuono, la febbrilità, l’esteriorità, la moltitudine minacciano l’interiorità dell’uomo; gli manca il silenzio con la sua genuina parola interiore, gli manca l’ordine, gli manca la preghiera, gli manca la pace, gli manca se stesso. Per riavere dominio e godimento spirituale di sé ha bisogno di riaffacciarsi al chiostro benedettino. E ricuperato l’uomo a se stesso nella disciplina monastica è ricuperato alla Chiesa…».

Per assorbire questo messaggio, qui si dovrebbe tacere.

Quanto ciò sia vero e necessario per l’uomo di oggi ce lo dicono anche due autori moderni, uno dei quali è citato da mons. Royo Mejía nelle prime pagine del suo lavoro. È Rod Dreher col suo The Benedictine Option: A Strategy for Christians in a Post-Christian Society, opera pubblicata nel 2017 e disponibile pure in traduzione italiana. Qui Dreher parla della «scommessa benedettina»; di una strategia, insomma, che, ispirandosi alla regola di san Benedetto, indica come poter vivere da cristiani in un mondo che non lo è più. L’altro autore che qui desidero citare è italiano: Massimo Folador, professore di Business ethics e sviluppo sostenibile presso l’Università LIUC, il quale già nel 2006 e poi nel 2008 ha pubblicato due preziosi studi dove la spiritualità benedettina è proposta come regola di saggezza per una “organizza-zione perfetta”.

In ambedue gli Autori tornano temi, come l’importanza del silenzio e dell’ascolto. Tutto per mettere in evidenza l’attualità, non solo religiosa, dell’ideale benedettino. «Chissà –si domanda Folador, alludendo alla regola benedettina– che un vecchio manuale a uso di un monastero non contribuisca a far emergere un nuovo modo di intendere noi stessi e le nostre imprese». Anche quella cristiana è, in fin dei conti, una storia magistra vitae. In un’epoca di «presentismo», chissà che non si debbano riconsiderare le antiche parole di Cicerone sulla storia (cf. De Oratore, II, 12).

Questo «umanesimo», intende dirci anche l’Autore di questo volume, è proprio quello che nel corso della storia ci è stato trasmesso da san Benedetto con i suoi figli e figlie. Ci hanno trasmesso «una vita, la loro vita, quella che li aveva portati alla pienezza come persone. Non erano strateghi ma testimoni che comunicavano ciò che avevano vissuto e quella era la loro eredità, ed è questo il valore che hanno ancora oggi e continueranno ad avere, quali che siano i tempi». Mi pare che in ciò possa ravvisarsi il trait-d’union di queste pagine. Lo scorrere delle pagine di questo libro, sempre bene informate benché sintetiche per il genere del lavoro, offrono nomi in gran parte noti: di uomini, come Anselmo e Bernardo di Chiaravalle, e di donne, come Gertrude di Helfta e, soprattutto, Ildegarda di Bingen: tutte donne che, come annotato, svilupparono una rilevantissima opera spirituale, teologica e letteraria. Ci sono ancora nomi di Papi molto conosciuti, come Gregorio Magno, Celestino V e Pio VII: tutti evocativi di storie non solo ecclesiastiche. E poi nomi di anticipatori e promotori della riforma liturgica, come Odo Casel e Alfredo Ildefonso Schuster; nomi di maestri di vita spirituale, come Columba Marmion e Thomas Merton; nomi meno noti, ma non meno importanti nella vita della Chiesa come Maria Giovanna Dore e Margherita Marchi, fondatrici e riformatrici; nomi di beati e santi più vicini a noi nel tempo come Maria Gabriella Sagheddu e Cyprian Michael Iwene Tansi, primo beato della Nigeria, e pure il nome di san Rafael Arnáiz Barón, considerato uno dei più grandi mistici del secolo ventesimo benché morto a soli 27 anni, proposto sia da Giovanni Paolo II, sia da Benedetto XVI come modello per i giovani dei nostri tempi; anche nomi di martiri, come i benedettini di Corea del Nord e i trappisti di Tibhirine; e, benché in controluce, le monache di Port-Royal “pure come angeli e superbe come demoni”.

Tra i nomi di cui molto si parla in questi mesi c’è pure quello della Serva di Dio Dorothy Day, ricordata anche da papa Francesco quando ne fece menzione parlando al Congresso degli Stati Uniti d’America il 24 settembre 2015 di cui ha scritto ancora nella più recente presentazione al volume autobiografico della Day titolato Ho trovato Dio attraverso i suoi poveri edito in questo 2023 dalla LEV. Di tutti l’Autore lascia utili indicazioni biografiche e saggi indici di valutazione.

Che dire, in conclusione, se non la frase biblica che mi tornava nella memoria fin dal principio della lettura di queste pagine: «la discendenza degli uomini retti sarà benedetta» (Salmo 112,2). Di quale discendenza si tratta? Non certo di quella carnale, spiegava Cassiodoro, ma di quella che, di generazione in generazione, si propaga attraverso l’imitazione delle opere buone (cf. Expos. in psalt., CXI, 2: PL 70, 805). Cosa che non vale solo dal punto di vista etico, se è vero, come, commentando il medesimo salmo, affermava Clemente alessandrino nel suo Pedagogo: «la vera ricchezza è costituita dalla rettitudine e dal Logos che è più prezioso di qualsiasi tesoro: è una ricchezza che non si accresce con armenti e con terreni, bensì è donata da Dio, è una ricchezza che nessuno può portar via, poiché il suo tesoro è sol-tanto l’anima, è il miglio possesso per chi lo possiede rende l’uomo davvero felice» (III, 6: PG 8, 208). È questa la generazione degli uomini retti, che è benedetta.

 

Marcello Card. Semeraro