Omelia nel giubileo sacerdotale di don Vito Mignozzi

 

Amicizia e gioia

Omelia nel giubileo sacerdotale di don Vito Mignozzi, consultore teologo del Dicastero

 

Nel biglietto personale d’invito per questa Liturgia, don Vito ha aggiunto a mano una nota in cui ricorda che venticinque anni or sono, a motivo della recente mia ordinazione episcopale, io non fui presente alla sua ordinazione sacerdotale. Ora, egli si domandava se, a motivo della nuova condizione ecclesiastica, la mia partecipazione alla sua festa giubilare non sia divenuta più ardua. Invece eccomi qui, insieme con tutti voi, accanto a lui.

Ringrazio di cuore il vostro vescovo, Mons. Sabino Iannuzzi, per avermi, con fraterna amicizia, incoraggiato a venire. Lo ringrazio pure per il saluto che mi ha rivolto all’inizio della Santa Messa e mi unisco a lui nel salutare anch’io tutti voi, in particolare la famiglia di don Vito e il sig. Sindaco con le altre Autorità. Con me è giunto per questa Liturgia anche l’arcivescovo Donato Negro, sino a pochi mesi fa Presidente della Conferenza Episcopale Pugliese, col quale don Vito ha iniziato l’ufficio, ora con mandato rinnovato, di Preside della Facoltà Teologica Pugliese. Attorno all’Altare ci sono pure l’arcivescovo Angelo Panzetta e il vescovo Giuseppe Favale, che rivedo con gioia. Con uguali sentimenti saluto i tanti sacerdoti concelebranti, fra i quali rivedo volti di amici e carissimi alunni negli anni vissuti nel Seminario Regionale di Molfetta. Questa festa sacerdotale è, infatti, festa di amicizia.

Di amicizia ci ha parlato Gesù nel passo evangelico appena proclamato: «Vi ho chiamato amici» (Gv 15,15). Quando sant’Ambrogio scrisse per i suoi sacerdoti un trattato sull’adempimento del loro ministero, giunto alla fine dell’opera ricordò loro proprio questa parola di Gesù. «Ci ha dato il modello dell’amicizia da imitare – scriveva –: rivelargli tutti i segreti che abbiamo in cuore, non ignorare quelli dell’animo suo. Mostriamogli il nostro cuore ed egli ci apra il suo» (De officiis, III, 22, 135: PL 16, 183). Questo vale ovviamente per tutti noi. I ministri della Chiesa, però, hanno il dovere di annunciare e mostrare il volto amico del Signore.

Gesù sa bene cosa noi pensiamo di lui. Non abbiamo bisogno di dirglielo. Noi ascoltiamo parole, ma Egli scruta il cuore. Ai suoi discepoli una volta disse: «Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono» (Gv 13,13). A Gesù, però (e questo vale ancora oggi per noi), importava un’altra cosa. «Vi ho lavato i piedi», aggiunse, infatti. Ed è questo amore che s’inginocchia, che si abbassa che gli interessava. Non gli interessava che lo chiamassimo Maestro e Signore, ma che lo imitassimo nell’amore.

Clives Staples Lewis (saggista autore delle famose Cronache di Narnia, ma pure buon teologo) diceva che nell’eros l’amore è uno scambio, ma che nell’amicizia amare è un giocare in perdita. E Gesù ci ha amato proprio così. Ha dato la vita per noi, a prescindere se noi gli abbiamo donato, o gli doniamo la nostra. Gesù ce la dona e basta. «Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me», scrive san Paolo in uno dei passaggi più emozionanti delle sue lettere (Gal 2,20).

Ora, compito primario di un ministro del Vangelo – compito di un sacerdote, di un vescovo, ma già di ogni cristiano – è testimoniare al mondo questo volto amico di Gesù. Mostrarlo a tutti, perché Gesù, a sua volta, ci ha mostrato e donato il volto amico di Dio. «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi» (Gv 15,9). In Gesù si fa presente un Dio che ci cerca e ci trova, anche quando noi lo abbiamo smarrito, o se noi non lo cerchiamo più. Per questo Gesù lo chiamava e ci ha insegnato a chiamarlo: Padre.

C’è un’altra parola del racconto evangelico che questa sera merita la nostra attenzione ed è la parola gioia. «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Credo che questa sia, purtroppo, una parola un po’ rara non soltanto nella nostra predicazione, ma pure nella nostra spiritualità. Gli ultimi secoli fino a tempi recenti ci hanno spesso presentato una concezione alquanto dolorista della vita cristiana. Ricordo la sorpresa con la quale cinquant’anni or sono giunse da Paolo VI l’esortazione apostolica Gaudete in Domino (1975). Parlava, fra l’altro, anche dell’imparare «a gustare semplicemente le molteplici gioie umane che il Creatore mette già sul nostro cammino». Esemplificò: la gioia esaltante dell’esistenza e della vita; la gioia dell’amore casto e santificato; la gioia pacificante della natura e del silenzio e poi anche la gioia e la soddisfazione del dovere compiuto, la gioia del servizio, della partecipazione… «Il cristiano – scrisse – potrà purificarle, completarle, sublimarle: non può disdegnarle. La gioia cristiana suppone un uomo capace di gioie naturali».

Come è sorprendente sentirlo da un Papa, mentre c’è chi ancora oggi propaganda un cristianesimo dolorifico. Ma Gesù, perché mai avrebbe guarito i malati? Perché avrebbe confortato il gemito di una vedova, elogiato la richiesta di una cananea, risuscitato il figlio di un soldato romano, ossia di un nemico? Mi torna alla memoria ciò che in una omelia disse il venerabile Antonio Bello (sapete di chi parlo: di don Tonino Bello!): «Tutte le croci sono collocazione provvisoria: non sono lì per sempre tutte le croci della terra. Nel Vangelo c’è scritto: “da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio”. Sembrano quasi i paletti catastali, che al dolore è proibito scavalcare. Sul calvario c’è un parcheggio provvisorio: per tre ore soltanto è permessa la sosta. Dopo tre ore c’è la rimozione forzata di tutte le croci» (in Scritti, II, 201).

Dobbiamo essere riconoscenti al nostro papa Francesco, per avere rimesso la gioia al posto che merita. Evangelii gaudium è il titolo del suo primo documento ufficiale ed è pure il programma del suo ministero petrino. «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù», comincia col dire, ma subito dopo osserva: «Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata».

A te, carissimo don Vito, che svolgi il tuo ministero prevalentemente nell’insegnamento e nella ricerca teologica (con quanta gioia interiore ti ho veduto, nelle settimane passate, muoverti nell’aula sinodale con la tessera di identificazione su cui era scritto che sei un teologo esperto), vorrei solo ricordare che in un documento che ti riguarda il Papa ha parlato del gaudium veritatis: «La gioia della verità esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio».

Di quella costituzione apostolica, la Veritatis gaudium (2018) che regola il lavoro nelle Università e Facoltà ecclesiastiche, ti cito solo un passo. Lo faccio anzitutto perché ti sia di augurio e d’incoraggiamento, ma pure per una ragione personale. Francesco scrive che «il buon teologo [e filosofo] ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità».

Espressione bellissima per almeno due ragioni. Anzitutto perché il semper maius – san Tommaso lo ripete decine e decine di volte – è nell’essenza stesso di Dio; in secondo luogo perché il maius di Dio ha un suo riflesso nell’insaziabilità del desiderio umano. Penso a come san Gregorio di Nissa commenta il Cantico in quel passo sublime che esclama: «Mi baci con i baci della sua bocca» (1,2). Lo fa applicandolo a Mosè, di cui la Scrittura dice che Dio gli parlava faccia a faccia (cf. Es 33,11). Spiega così: «Mosè ha vissuto l’esperienza della sposa e ha amato lo Sposo come la vergine del Cantico, che implora: “Mi baci con i baci della sua bocca”. Egli, come attesta la Scrittura, parlò con Dio “bocca a bocca” e, dopo che Dio gli si fu manifestato, desiderò sempre di più ricevere quei baci e anelava sempre di vedere Colui che cercava come se non lo avesse mai contemplato. Come per lui, fu anche per tutti gli altri, che alimentavano il loro desiderio di Dio: mai si sentirono soddisfatti e tutto ciò che ricevevano da Dio per appagare il loro desiderio, lo usarono come combustibile per accendere un fuoco più forte» (Hom. I: PG 44, 777). Come è bello, questo, per tutti noi! Siano così, carissimo don Vito, anche il tuo ministero sacerdotale e il tuo lavoro teologico.

Papa Francesco prosegue avvertendo che lo sviluppo del pensiero teologico deve seguire quella legge che nel suo Commonitorium san Vincenzo di Lérins così descrive: «il seme che i padri hanno gettato nel campo di Dio che è la Chiesa deve essere coltivato e custodito dallo zelo dei figli: questo soltanto deve fiorire e maturare, crescere e giungere a perfezione» (cap. 23). Ho seguito la traduzione che, in un’edizione del 1967 (ero in prima teologia), ne fece un professore nel seminario di Molfetta, a me carissimo e ora defunto. Quel libro – che era il suo «primo» – egli lo dedicò «ai miei alunni con affetto e riconoscenza».

Poco fa ho detto che il richiamo al gaudium veritatis lo facevo anche per una ragione personale. È in quella dedica: con affetto e riconoscenza! Anche per me è stata ed è tra le esperienze più belle, vissuta tante volte, non soltanto nella scuola. Quante volte, ancora oggi, mi accade di sperimentare ciò che san Gregorio Magno confidava di sé: «molte cose [nella sacra Scrittura], che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli. Attraverso questa scoperta mi sono reso conto che la mia intelligenza cresceva per merito loro. È davvero un dono di Dio quando per voi imparo ciò che in mezzo a voi insegno; perché – ed è la verità – per lo più ascolto con voi ciò che dico» (Hom. in Ez. II, II, 1: PL 76, 949). Pure questo ti auguro, carissimo don Vito.

 

Palagiano (Ta) – Parrocchia San Nicola, 3 novembre 2023

 

Marcello Card. Semeraro