Omelia nel XXV anniversario della elevazione a Basilica della chiesa di San Martino

 

Se incontri il fratello, incontri il Signore

Omelia nel XXV anniversario della elevazione a Basilica della chiesa di San Martino a Martina Franca

 

Nei giorni scorsi, mentre riflettevo sulla pagina del santo Vangelo di questa domenica mi tornavano alla memoria queste parole di Angelo Silesio, un mistico tedesco del XVII secolo: «Dicono che Dio non manca di nulla e non ha bisogno dei nostri doni. Se questo è vero, perché vuole avere il mio povero cuore?» (Il pellegrino cherubico III, 123). La riflessione è molto profonda. In realtà il Padre ci ha amato al punto di mandarci il suo Figlio, fatto uomo come noi, ed Egli, ascendendo al Padre, ha innalzato la nostra umanità accanto a Lui. Così, Dio comincia a stare per sempre con noi. Esclamava San Gregorio di Nissa: «Quale splendida notizia! Colui che per noi si è fatto uomo, proprio lui, che era l’Unigenito, per renderci suoi fratelli ora si presenta come uomo davanti al Padre e porta con sé tutti coloro che gli sono congiunti» (In Christi resurr. Oratio I: PG 46, 628).

Dio ci ama e vuole stare con noi! Diremo di più. Egli ha bisogno di noi. Un bel film di Jean Delannoy uscito nel 1950 si titolava proprio così: Dio ha bisogno degli uomini. Il vangelo ci ha detto che Gesù «vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore». Per sollevarle da questa miseria mandò i suoi discepoli, dicendo loro: «rivolgetevi alle pecore perdute». Gesù vuole che ci con-promettiamo, ci facciamo solidali nella sua compassione. Per svolgere la sua missione sino alla fine dei tempi, Gesù vuole avere i nostri poveri cuori ed è per questo che sceglie e manda i suoi apostoli. Ed così ancora oggi e lo sarà sino alla fine dei secoli. A tutti noi ancora egli dice: «rivolgetevi alle pecore perdute della casa d’Israele». È il senso di quella Chiesa in uscita di cui parla papa Francesco sin dall’inizio del suo ministero petrino (cf. Evangelii gaudium n. 24).

Io ringrazio di cuore don Peppino Montanaro per l’invito che mi ha rivolto per stare con voi, che ricordate il XXV della elevazione di questa antica chiesa e parrocchia a Basilica minore. Ho, per questo, cercato il testo del decreto col quale San Giovanni Paolo II, su istanza dell’arcivescovo Benigno Papa, di santa e cara memoria, stabilì questo titolo legandolo non soltanto ai 250 anni dalla posa della prima pietra dell’attuale edificio sacro, ma pure alla memoria centenaria della morte di San Martino, cui la basilica è dedicata. Forse anche per questo in quel documento si parla di questa comunità cristiana come di un centro fecondo di vita religiosa, ricco di opere pastorali e di carità (cf. AAS 90 [1998], 386-387). San Martino, difatti, che la tradizione chiama par apostolis, «simile agli apostoli», fin dal suo primo apparire è presentato dalla tradizione agiografica soprattutto come un santo di carità. Vi è ben noto il gesto, oltretutto raffigurato nell’altorilievo della facciata di questa chiesa, col quale egli condivide la sua clamide. Un autore medievale scrive: «da nessuna parte si legge che uno, non ancora battezzato, abbia meritato di vedere Cristo» e, ciò detto, subito esclama: «O beato mantello, scelto da Cristo per ricoprite la sua nudità» (Adamo di Perseigne, Epist. XXV. Ad sancti Martini cultores: PL 211, 669).

C’è una catechesi nella quale San Paolo VI insistette molto nel descrivere così San Martino, vedendo nella sua figura l’attuazione della parola evangelica: «Quando avete beneficato uno dei miei minimi fratelli, l’avete fatto a me» (cf. Mt 25,40). È una parola stupenda – commentava quel Papa – e formidabile: Gesù si mette al posto di ogni uomo sofferente; chi soccorre lui, soccorre Gesù. Proseguiva. Quindi, con un tema a lui molto caro riconoscendogli la virtù di una rivelazione. Diceva: «Gesù è presente nel povero, nel sofferente, nell’ignudo, nel carcerato. Dove l’umanità patisce, Gesù patisce. Dove il volto umano piange, si scopre, dietro, il volto di Cristo piangente. L’uomo minorato diventa una specie di sacramento, cioè di segno sacro di Cristo. Qui la mistica diventa principio della sociologia cristiana» (Udienza dell’11 novembre 1964).

Se noi, carissimi, facciamo così; se noi viviamo questa «sociologia», questa «carità sociale», come sempre Paolo VI la chiamò in un famoso discorso alla FAO del 16 novembre 1970, avremo ben più della dignità di una basilica. Saremo, infatti, quello che abbiamo udito al termine della prima lettura dal libro dell’Esodo, ossia «un regno di sacerdoti e una nazione santa» (19,6); un «regno» la cui politica non è affatto, quella che purtroppo oggi tanto spesso vediamo dominare e pubblicizzare, ma quella vissuta come forma alta della carità.

Nel Catechismo dei Giovani pubblicato dalla CEI leggiamo che «l’agire politico di ogni singolo e di ogni comunità è una forma alta della carità. Nel Battesimo, essendo divenuti una cosa sola con Cristo, anche a noi è stata data la dignità e insieme il compito di essere nel mondo “profeti” e “re”. Sono responsabilità di grande significato anche politico. Essere profeti significa essere guidati dallo Spirito di Dio a intuire qual è il futuro che Dio sta preparando, verso quali sentieri sta chiamando la nostra storia perché venga il suo regno. Il titolo di re dato a ogni cristiano […] significa essere rivestiti dell’autorità, che è di Cristo, di cambiare questo mondo, naturalmente secondo la logica del vangelo» (Venite e vedrete, cap. IX: Un solo è il vostro Signore).

Sia, dunque, carissimi, la titolazione a San Martino della vostra Basilica, una memoria che stimola ad andare incontro a quel Cristo che sempre incrocia i vostri – i nostri – passi sotto le sembianze del povero, del bisognoso, del sofferente. E ogni volta che questo accade, ricordiamo ciò che diceva un antico cristiano: «Hai incontrato il tuo fratello? Hai incontrato il Signore. Se poi hai veduto un profugo straniero (e consideriamo bene queste ultime parole, ricordando il dramma del naufragio avvenuto in questi giorni nel Mediterraneo … ne ha parlato oggi il Papa dopo la preghiera dell’Angelus, sottolineando: E sembra che il mare fosse calmo), [se poi hai veduto un profugo straniero] stai bene attento perché potrebbe essere un angelo» (Tertulliano, De oratione XXVI: PL 1, 1194).

Ci ottenga questo occhio acuto nel vedere la necessità del prossimo l’intercessione della Vergine Maria, che qui è invocata pure col bellissimo titolo di «pastorella». Lei, che è la madre del Buon Pastore, ci educhi ad avere gli stessi occhi compassionevoli di Cristo quando, guardando le folle, s’accorse che erano «stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore». Da esse egli si lasciò toccare nel profondo del suo essere, proprio come una madre che soffre di fronte all’angoscia del suo bambino.

Chiediamo la sua intercessione per ottenere da Dio la grazia di sapere guardare così i nostri fratelli e sorelle smarriti, senza orientamento; le persone che non sanno più in chi riporre la loro fiducia.

Il richiamo di Dio, a chi gli rispondeva: «Sono forse io il custode di mio fratello» (Gen 4,9) ci faccia capire che, invece sì, ciascuno di noi è pastore del suo prossimo e che per un pastore è fallimento lasciare le proprie pecore ferite e smarrite.

 

Basilica di San Martino, Martina Franca (Ta), 18 giugno 2023

 

Marcello card. Semeraro