Omelia nella beatificazione di Manuel González-Serna Rodríguez e 19 compagni martiri

 

Le tre forme di martirio

Omelia nella beatificazione di Manuel González-Serna Rodríguez e 19 compagni martiri

 

Al lungo elenco di martiri della Chiesa in questa nostra epoca, si aggiungono i venti che oggi sono stati beatificati, tutti originariamente di questa arcidiocesi di Siviglia. Sono un ulteriore esempio di quella santità martiriale, di cui ha parlato giovedì scorso papa Francesco nell’Udienza ai partecipanti al convegno sul tema La dimensione comunitaria della santità, organizzato dal Dicastero delle Cause dei Santi. Era presente anche il vostro Arcivescovo, che saluto con affetto fraterno insieme con gli altri Vescovi presenti, i presbiteri e diaconi e voi tutti, carissimi fratelli e sorelle.

La morte violenta dei nostri Martiri si colloca – come è noto – nel contesto della persecuzione religiosa spagnola, che interessò anche questo territorio. I singoli episodi furono accompagnati da distruzioni di immagini sacre, incendi di chiese e altri edifici religiosi. Il maggior numero è composto da sacerdoti; gli altri sono fedeli laici e, fra loro, uno con il figlio ancora seminarista. C’è pure una donna che, molto attiva nelle opere di carità, era collaboratrice del parroco, Manuel Gonzàlez-Serna Rodriguez, capofila di questo gruppo.

Egli, per dare testimonianza della propria fede, volle essere fucilato accanto al Vangelo. Un altro sacerdote, Miguel Borrero Picón, al momento del martirio volle indossare la talare per mostrare pubblicamente la propria identità. L’uccisione degli altri avvenne in forme diverse; tutti, però, nel momento decisivo accettarono la morte come espressione della propria fedeltà a Cristo. Durante la prigionia, il sacerdote Juan María Coca Saavedra, durante i cinque giorni di prigionia esercitò il ministero della riconciliazione; altri, poi, pregavano e si confortavano a vicenda, esprimendo anche parole di perdono per i loro uccisori.

A che serve, però, proseguire oggi in tali dettagli? Quando sant’Ambrogio predicava in Milano il martirio della vergine Agnese disse: «La chiamo martire… Non è sufficiente?» (cf. De Virginibus, II, 6: PL 16, 190). Abbiamo, d’altra parte, ascoltato la pagina del Vangelo che dice: «Vi  consegneranno ai tribunali… Quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire…» (Mt 10,17-19). Non sono davvero parole che tranquillizzano. Esse ci fanno capire anzitutto una cosa: venerare i martiri e considerare la loro sorte e i patimenti subiti per la coerenza cristiana anche nella persecuzione, non deve distrarci, né distoglierci dal riflettere sulla nostra condizione cristiana.

Una cosa la si dovrà subito cogliere: Gesù non è un venditore di illusioni; non è un propagandista, che mostra ai suoi clienti tutto facile e a portata di mano. La vita cristiana non è una gita, ma una missione rischiosa. Qui non c’è chi è pagato per applaudire, come negli spettacoli terreni. Anzi, Gesù – lo abbiamo ascoltato durante la proclamazione del vangelo – avverte che perfino i legami famigliari possono risultare compromessi dal discepolato di lui. La seconda cosa da cogliere è che Gesù domanda ai suoi discepoli di essergli simili in tutto, anche nella sofferenza e nella condanna. Da ultimo, rassicura una vicinanza interiore che conforterà: quella dello Spirito. Per questo il cristiano non deve lasciarsi intimidire, ma deve conservare la fiducia.

Di sofferenze ha parlato pure san Paolo nel brano della Lettera ai Romani che è stato letto. Tutto egli ha posto sotto il segno della speranza: «La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Anche qui, come nel Vangelo è richiamata la presenza dello Spirito. È la promessa di Dio. L’Apostolo vuole dirci che tutto, anche la sofferenza e la prova, possono, nella prospettiva cristiana, acquistare un senso. Perlomeno ci dice che non vale davvero la pena considerarsi dei superuomini, dei perenni vincitori: quelli lasciamoli nelle fiction televisive! Le prove della vita possono, invece, aiutarci a maturare e, mettendo in conto la nostra fragilità: non vivere mettendo in concorrenza le nostre forze, ma condividendo le nostre fragilità. , ci aiutano ad aprirci a una condivisione umana.

C’è un antico inno cristiano in onore dei martiri che comincia con il lodare questi testimoni di Cristo. Dice di loro che, infiammati da un vero amore, furono più forti della umana paura della morte e che, dopo avere subito il martirio, ora sono in cielo e godono della gioia senza fine. Subito dopo, però, l’inno passa a considerare la situazione nella quale si trova ciascuno di noi; afferma che per tutti c’è una condizione di martirio e ne enumera tre forme. La prima è pro fide mortis passio, ossia il subire la morte a motivo della fede cristiana; il secondo martirio che un fedele cristiano è chiamato a vivere è la inuriae remissio, ossia il perdonare le offese. La terza forma di martirio che l’antico inno mette sotto i nostri occhi è la proximi compassio, ossia la misericordia (cf. Analecta Hymnica Medii Aevi XLIa, n. 57. Hymnus de martyre, O.R. Reisland, Leipzig 1903, 222). Il primo martirio non sempre accade; il secondo e il terzo dobbiamo viverlo sempre. Essere anche noi sottoposti a delle prove e sofferenze e, perché no, anche delle tentazioni, vuol dire essere posti nella condizione di diventare capaci di perdonare e di avere misericordia.

Di uno dei nostri martiri, il sacerdote Francisco de Asís Arias Rivas, i testimoni hanno esplicitamente dichiarato che pur avendo dovuto sopportare dai persecutori speciali umiliazioni, morì perdonando a loro; ugualmente don Mariano Caballero Rubio e don Pedro Carballo Corrales morirono invocando la misericordia di Dio e il perdono dei loro aggressori.

Il martire, in fin dei conti non è semplicemente uno che subisce la persecuzione, ma pure uno che, come Gesù dalla croce, è capace di dire: Padre, perdona.

 

Cattedrale di Siviglia, 18 novembre 2023

 

Marcello Card. Semeraro

 

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Las tres formas de martirio

Homilía en la beatificación de Manuel González-Serna Rodríguez y 19 compañeros mártires

 

Al extenso listado de mártires de la Iglesia en nuestra época, se suman los veinte que hoy han sido beatificados, todos originarios inicialmente de esta archidiócesis de Sevilla. Son un ejemplo adicional de esa santidad martirial de la que habló el Papa Francisco el pasado jueves en la Audiencia a los participantes en la conferencia sobre el tema La dimensión comunitaria de la santidad, organizada por el Dicasterio de las Causas de los Santos. También estuvo presente su Arzobispo, a quien saludo con afecto fraterno junto con los demás Obispos presentes, los presbíteros y diáconos y todos ustedes, queridos hermanos y hermanas.

La muerte violenta de nuestros Mártires se sitúa, como es sabido, en el contexto de la persecución religiosa española, que también afectó a este territorio. Los episodios individuales estuvieron acompañados de la destrucción de imágenes sagradas, incendios de iglesias y otros edificios religiosos. La mayoría son sacerdotes; los demás son fieles laicos y, entre ellos, uno con su hijo aún seminarista. También hay una mujer que, muy activa en las obras de caridad, era colaboradora del párroco, Manuel González-Serna Rodríguez, líder de este grupo.

Él, para dar testimonio de su fe, quiso ser fusilado junto al Evangelio. Otro sacerdote, Miguel Borrero Picón, en el momento del martirio quiso llevar la sotana para mostrar públicamente su identidad. La muerte de los demás ocurrió de diversas formas; sin embargo, todos, en el momento decisivo, aceptaron la muerte como expresión de su fidelidad a Cristo. Durante la prisión, el sacerdote Juan María Coca Saavedra, durante los cinco días de cautiverio, ejerció el ministerio de la reconciliación; otros, rezaban y se reconfortaban mutuamente, expresando también palabras de perdón para sus verdugos.

¿De qué sirve, sin embargo, continuar con tales detalles? Cuando San Ambrosio predicaba en Milán sobre el martirio de la virgen Inés, dijo: «Lo llamo mártir... ¿No es suficiente?» (cf. De Virginibus, II, 6: PL 16, 190). Por otro lado, hemos escuchado la página del Evangelio que dice: «os entregáran a los tribunales… Cuando os entreguen, no os preocupéis de lo que vais decir o de cómo lo direis: en aquel momento se os sugerirá lo que teneis que decir…» (Mt 10,17-19). No son realmente palabras que tranquilizan. Nos hacen comprender, en primer lugar, una cosa: venerar a los mártires y considerar su suerte y los sufrimientos sufridos por la coherencia cristiana incluso en la persecución, no debe distraernos ni apartarnos de reflexionar sobre nuestra condición cristiana.

Una cosa que debe entenderse de inmediato: Jesús no es un vendedor de ilusiones; no es un propagandista que muestra a sus clientes todo fácil y al alcance de la mano. La vida cristiana no es un paseo, sino una misión arriesgada. Aquí no hay nadie pagado para aplaudir, como en los espectáculos terrenales. De hecho, Jesús, como escuchamos durante la proclamación del evangelio, advierte que incluso los lazos familiares pueden verse comprometidos por el seguimiento de él. La segunda cosa a entender es que Jesús pide a sus discípulos que le sean semejantes en todo, incluso en el sufrimiento y en la condena. Por último, asegura una cercanía interior que reconfortará: la del Espíritu. Por eso, el cristiano no debe dejarse intimidar, sino mantener la confianza.

De las aflicciones también habló San Pablo en el pasaje de la Carta a los Romanos que se acaba de leer. Él ha colocado todo bajo el signo de la esperanza: «la esperanza no defrauda, porque el amor de Dios ha sido derramado en nuestros corazones por el Espíritu Santo que se nos ha dado» (Rm 5,5) También aquí, al igual que en el Evangelio, se destaca la presencia del Espíritu. Es la promesa de Dios. El Apóstol quiere decirnos que todo, incluso el sufrimiento y la prueba, pueden adquirir un significado en la perspectiva cristiana. Al menos nos dice que no vale la pena considerarnos verdaderamente superhombres, victoriosos eternos: ¡dejemos eso para las ficciones televisivas! Las pruebas de la vida, en cambio, pueden ayudarnos a madurar y, teniendo en cuenta nuestra fragilidad, no vivir compitiendo con nuestras fuerzas, sino compartiendo nuestras debilidades. Nos ayudan a abrirnos a una comunión humana.

Hay un antiguo himno cristiano en honor a los mártires que comienza alabando a estos testigos de Cristo. Dice de ellos que, inflamados por un verdadero amor, fueron más fuertes que el temor humano a la muerte y que, después de haber sufrido el martirio, ahora están en el cielo y disfrutan de la alegría sin fin. Sin embargo, inmediatamente después, el himno pasa a considerar la situación en la que cada uno de nosotros se encuentra; afirma que para todos hay una condición de martirio y enumera tres formas. La primera es pro fide mortis passio, es decir, sufrir la muerte por motivo de la fe cristiana; el segundo martirio al que un fiel cristiano está llamado a vivir es la inuriae remissio, es decir, perdonar las ofensas. La tercera forma de martirio que el antiguo himno pone ante nuestros ojos es la proximi compassio, es decir, la misericordia (cf. Analecta Hymnica Medii Aevi, XLIa, n. 57. Hymnus de martyre, O.R. Reisland, Leipzig 1903, 222).

El primer martirio no siempre ocurre; el segundo y el tercero debemos vivirlos siempre. Estar también sometidos a pruebas y sufrimientos, y, por qué no, también a tentaciones, significa estar en la condición de ser capaces de perdonar y tener misericordia.

De uno de nuestros mártires, el sacerdote Francisco de Asís Arias Rivas, los testigos declararon explícitamente que, a pesar de haber sufrido humillaciones de parte de los perseguidores, murió perdonándolos; igualmente, don Mariano Caballero Rubio y don Pedro Carballo Corrales murieron invocando la misericordia de Dios y el perdón de sus agresores.

El mártir, al final de cuentas, no es simplemente alguien que sufre persecución, sino también alguien que, como Jesús en la cruz, es capaz de decir: «Padre, perdona».

 

Catedral de Sevilla, 18 de noviembre 2023

 

Marcelo Card. Semeraro