Omelia nella festa dei santi patroni di Aquileia

 

Ermacora e Fortunato, seme di nuovi cristiani

Omelia nella festa dei santi patroni di Aquileia

 

L’iniziale saluto liturgico, rivolto a voi tutti e col quale ci siamo costituiti in assemblea del Signore desidero ora rinnovarlo come augurio per ciascuno e in particolare come fraterno e cordiale grazie a S. E. Mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, Arcivescovo Metropolita di Gorizia, per l’invito che già lo scorso anno, in un incontro anch’esso gradito, mi rivolse a celebrare oggi la festa in onore dei Santi Ermagora, vescovo e Fortunato, Diacono, patroni di questa Arcidiocesi e della Regione Friuli Venezia Giulia; insieme con lui saluto di cuore S. Em. il Sig. Cardinale Oscar Cantoni e gli altri Arcivescovi e Vescovi concelebranti. 

Nei giorni scorsi, al fine di prepararmi a questo incontro, ho letto il volume La Chiesa aquileiese ed il periodo delle origini pubblicato nel 1909 a Udine e scritto da Pio Paschini, lo storico vostro illustre conterraneo che fu pure Rettore dell’Università Lateranense. Poi, nell’Archivio del Dicastero delle Cause dei Santi, oltre agli Acta Sanctorum ho visto il Decreto del 12 marzo 1678 con cui furono approvate le tre letture del II notturno dell’Ufficio della festa dei santi Santi Ermacora e Fortunato. Anche qui si riassume la loro passio cominciando dalla prima evangelizzazione fatta dall’evangelista Marco e dall’incarico pastorale ricevuto da Sant’Ermacora direttamente da San Pietro, per proseguire con la sua azione missionaria e poi con la persecuzione subita insieme con il diacono Fortunato e concludersi con il loro martirio e la storia dei miracoli compiuti a favore di quanti ricorrevano alla loro tomba. 

Questa, carissimi, è una storia che voi ben conoscete, dalla quale ci è possibile trarre almeno tre elementi fondamentali, che sono strettamente connessi fra loro: la missione evangelizzatrice, la sollecitudine pastorale e la testimonianza sino al dono della vita. 

Evangelizzatrice è fin dal principio, si potrebbe dire, la missione dell’antico patriarcato di Aquileia. Almeno due Papi l’hanno esaltata e raccomandata. Penso a San Paolo VI, il quale indicava Aquileia «quale punto d’incontro di vari popoli, autentico “crocevia” delle genti che entrarono, in epoche successive, a contatto col mondo romano e cristiano…». Questa realtà storica era per lui pure un compito per l’oggi circa le ragioni e i modi « per stare insieme, per lavorare insieme, per costruire insieme» (Discorso del 16 settembre 1972). A Paolo VI aggiungo Benedetto XVI, il quale nel suo discorso del 7 maggio 2011 indicò la Chiesa di Aquileia come la madre «da cui sono germinate le Chiese del Nord-est dell’Italia, ma anche le Chiese della Slovenia e dell’Austria e alcune Chiese della Croazia e della Baviera e persino dell’Ungheria».

Evangelizzare è il compito fondamentale della Chiesa ed è, come scriveva Paolo VI, la sua grazia e la sua vocazione propria, la sua identità più profonda (cf. Evangelii Nuntiandi, n. 14). Poco fa il racconto del Vangelo ci ha ricordato che Gesù ci ha «scelti dal mondo», e qui la parola «mondo» indica l’insieme di chi rifiuta Cristo. In un’altra pagina, però, leggiamo pure che ai suoi discepoli Gesù disse: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15) e qui la parola «mondo» assume un altro significato: l’insieme dei popoli e delle genti, che Cristo è venuto a salvare. Facciamo, allora, qualche breve riflessione. La frase «scelti dal mondo» intende dire, nel suo significato letterale, che noi siamo stato tratti, ossia «tirati fuori» dal mondo. Da quel mondo che è agli antipodi della logica di carità, di dono e di misericordia noi siamo stati divelti per ricevere nuove radici, dalle quali Dio s’aspetta che nascano frutti nuovi, stili nuovi modellati sulla persona del suo Figlio, Gesù. Per questo nella nuova terra ha messo il fermento vitale dello Spirito. Ed è come in quella prima creazione, quando «il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15).

Dio, però, non abbandona alla perdizione chi ancora lo rifiuta. A questo punto si apre ai nostri occhi la scena descritta dal profeta Ezechiele, di cui abbiamo ascoltato nella prima lettura biblica: «Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata…». È l’immagine, lo sappiamo, del Buon Pastore che passerà nei vangeli e ha valore sino alla fine dei tempi. «Dio alla ricerca dell’uomo» è il titolo di un libro scritto un po’ di anni or sono da un maestro ebreo (Abraham Joshua Heschel) e contiene una profonda verità. A un certo punto egli scrive: «Quando Adamo ed Eva si celarono alla sua presenza, il Signore gridò: Dove sei? (Gen 3,9)» e commenta: «Questo è un appello che viene lanciato ripetutamente. È la sommessa eco di una voce sommessa, non espressa in parole, non trasmessa in categorie della mente, ma ineffabile e misteriosa, come è ineffabile e misteriosa la gloria che riempie tutto il mondo. È un appello avvolto nel silenzio, nascosto e attenuato, eppure è come se tutte le cose fossero l’eco congelata dell'interrogativo: Dove sei?» (ed. Borla, Torino 1960, 157). Per noi cristiani, la ricerca di Dio è una persona e ha un nome: Gesù Cristo. 

Pure l’evangelizzazione è un «cercare». Non è, difatti, un’operazione esclusivamente vocale, ossia fatta solo di parole; anzitutto, piuttosto, l’evangelizzazione è fatta di gesti: di ricerca, di misericordia e di tenerezza. Una volta il papa Francesco ha detto che «Gesù non vuole discepoli capaci solo di ripetere formule imparate a memoria. Vuole testimoni: persone che propagano speranza con il loro modo di accogliere, di sorridere, di amare. Soprattutto di amare: perché la forza della risurrezione rende i cristiani capaci di amare anche quando l’amore pare aver smarrito le sue ragioni. C’è un “di più” che abita l’esistenza cristiana, e che non si spiega semplicemente con la forza d’animo o un maggiore ottimismo. La fede, la speranza nostra non è solo un ottimismo; è qualche altra cosa, di più! È come se i credenti fossero persone con un “pezzo di cielo” in più sopra la testa … accompagnati da una presenza che qualcuno non riesce nemmeno ad intuire» (Udienza generale del 4 ottobre 2017).

Per questo, nonostante le difficoltà, gli ostacoli e le tentazioni, l’evangelizzatore non cede mai allo scoraggiamento. Egli stesso è persona di speranza, come ha scritto l’apostolo Paolo ricorrendo a dei paradossi che ci lasciano senza fiato. Tutto questo perché, dirà commentando San Tommaso d’Aquino, siamo ben fiduciosi che Dio ci aprirà comunque una via d’uscita e ci darà il suo aiuto. (Super II Cor., cap. 4, l. 3). Ed è questo che ogni cristiano è chiamato a fare: «aprire spazi di salvezza […] convinto, per la forza della risurrezione, che nessun male è infinito, nessuna notte è senza termine, nessun uomo è definitivamente sbagliato, nessun odio è invincibile dall’amore» (Francesco, Udienza cit.).

È la fiducia, è la speranza che ha animato e sostenuto i Santi patroni Ermacora e Fortunato. Per questa speranza, i martiri – tutti i martiri, quelli di ieri e quelli di oggi – non sono mai residui di sconfitte, ma sempre, per dirla con Tertulliano, «seme di nuovi cristiani» (Apologeticus, 49; PL 1, 535). Potremo tradurre con queste parole di Papa Francesco: i martiri sono «cellule di rigenerazione capaci di restituire linfa a ciò che sembrava perduto per sempre». Questo, però, vale per ogni cristiano, perché ciascuno di noi ha da Gesù la missione di aprire nel mondo spazi di salvezza.

 

Basilica di Aquileia, 12 luglio 2023

 

Marcello Card. Semeraro