Omelia nella Messa di ringraziamento per il 60mo di ordinazione presbiterale dell’Arcivescovo Agostino Superbo

 

Amante del Pastore e delle sue pecore

Omelia nella Messa di ringraziamento per il 60mo di ordinazione presbiterale dell’Arcivescovo Agostino Superbo

 

È con intima emozione che prendo la parola per commentare la Parola del Signore in questa Santa Messa, che celebriamo per lodare il Signore Gesù, sommo ed eterno sacerdote, e per ringraziarlo, insieme con il carissimo don Agostino, per il dono del sacro ministero che egli ricorda nel 60mo anniversario dell’ordinazione presbiterale.

Sono vari i legami che a lui ci stringono, a seconda delle storie, delle relazioni, dei vincoli: sacramentali, di fraternità, di amicizia, di stima, discepolato… Oggi, però, trascorsi gli anni, per lui e per ciascuno di noi, il volto che egli ha per tutti è quello del padre.

Fatto è che il «padre» non ha un volto solo; ne ha, infatti, molti: volto di padre è quello di chi è presente; volto di padre è quello di chi accompagna; volto di padre è quello di chi aiuta a crescere; volto di padre è quello che sostiene e conforta nelle difficoltà; volto di padre è quello di chi ti aiuta a capire che e dove hai sbagliato; volto di padre è quello di chi ti sorride perché hai fatto un passo in avanti… In tutto questo e molto altro ancora oggi noi possiamo inserire il volto di don Agostino.

Abbiamo ascoltato un passo di Vangelo dove è insistente il verbo amare. San Bernardo, commentando questo brano, affermava: Non otiose toties repetitum est: Petre, amas me? Non è stato senza una profonda intenzione che gli ha chiesto: mi ami? E si spiega: «Io penso che sia come se gli avesse detto: se la coscienza non ti assicura che mi ami, e mi ami fortemente e perfettamente, cioè più delle cose tue, più che i tuoi, più anche di te stesso, perché vi sia corrispondenza con il numero delle domande, non assumerti questa cura né intrometterti nelle mie pecore, per le quali il mio sangue è stato sparso». (Sermo 76, 8: PL 183, 1154).

Terribilis sermo, concludeva San Bernardo e, in effetti, si tratta di un incarico da non prendere a cuor leggero! Quando nel 1989, in occasione dell’80º anniversario di fondazione del Pontificio Seminario Regionale di Molfetta, si volle pubblicare un volume che racchiudesse i documenti formativi per il presbiterato elaborati in quegli anni, don Agostino scrisse una presentazione dove, fra l’altro, si legge: «l’itinerario formativo al presbiterato sembra configurarsi, oggi, come attuazione, personale e comunitaria, di un vero “esodo”… Si parla di esodo perché bisogna accettare il mistero di Dio, l’itineranza che esso include, il deserto, cioè l’esperienza della povertà dell’uomo, il richiamo all’essenziale; all’assoluto e il rapporto con il Dio unico a cui esso invita». Quel libro s’intitola A immagine di Cristo buon pastore.

«Mi ami?», domanda Gesù. Si amas, pasce! Sant’Agostino ne farà una definizione del compito pastorale con quel suo famoso: «sit amoris officium, pascere dominicum gregem» (In Jo. Ev. Tr. 123, 5: PL 35, 1967). È una condizione assoluta. L’essere innamorati di Cristo è un titolo precedente qualsivoglia missione canonica, qualsiasi assunzione di compito nella Chiesa. La cura pastorale, se non è interiormente animata e sostenuta dall’amore per Cristo, si banalizza presto in semplice compito amministrativo, in mestiere. Solo quando è motivato dall’amore per Cristo, quando è realizzato sul modello di Cristo ed è finalizzato all’amore per Cristo, solo allora il nostro agire ministeriale ci rende pastori, come Gesù.

Don Agostino questo lo ha ricordato, lo ha insegnato e lo ha vissuto in prima persona. Ho già citato il volume A immagine di Cristo buon pastore. Don Agostino vi scrisse pure che solo una proposta chiara fin dall’inizio rende possibile questo lavoro: è una proposta contenuta nei documenti conciliari e postconciliari e consiste in questo: il Cristo buon pastore, che dona la vita nella povertà e nell’umiltà, è l’ideale concreto da seguire e riprodurre.

L’evangelico si amas, però, possiamo e dobbiamo intenderlo anche in direzione antropologica. Un’antifona liturgica, riecheggiando Sir 18,13 dice che «soltanto chi ama, ammaestra e guida i suoi discepoli come il buon Pastore».

La vera questione per un «pastore» è l’essere amante non soltanto di Dio, ma pure dell’uomo e ciò vale per qualsiasi tipo di guida: di un genitore, di un educatore, di un prete e di n vescovo, di un responsabile di comunità … È solo l’amore che trasforma in padri e madri!

C’è un bellissimo testo poetico nel quale Charles Peguy si sofferma nel descrivere il buon pastore del vangelo e lo disegna come un amante. Alla piccola Jeannette dice: «Anche Gesù era un semplice pastore. Ma che pastore bambina mia… Pastore delle cento pecore che sono restate nell’ovile, pastore della pecora smarrita, pastore della pecora che ritorna. E che per aiutarla a tornare, perché le sue gambe non possono più portarla, le sue gambe stremate, la prende dolcemente e la riporta lui stesso sulle spalle, sulle sue due spalle, dolcemente piegata a semicerchio intorno alla sua nuca … come uno scialle di lana che tiene caldo…». Bellissima questa immagine nella sua semplice e familiare intimità!

Subito dopo, però, la poesia di Peguy diventa mistica e gli fa scrivere qualcosa di inenarrabile, di imprevisto, di misterioso. Ed è quando cita il detto evangelico: «ci sarà più gioia nel cielo per quel peccatore che ritorna, che per cento giusti che non se ne fossero andati» e lo commenta così: «Perché i cento giusti che non se ne sarebbero andati sarebbero restati. Non sarebbero restati che in fede e in carità. Ma quel peccatore che se n’è andato e che ha rischiato di perdersi a causa della sua stessa partenza e perché sarebbe mancato all’appello della sera ha fatto nascere  il timore e così ha fatto sgorgare la speranza stessa nel cuore di Dio stesso, nel cuore di Gesù, il tremore del timore e il brivido, il fremito della speranza. A causa di quella pecora smarrita Gesù ha conosciuto il timore nell’amore. E quello che la  divina speranza mette di tremore nella carità stessa…» (da Il portico del mistero della seconda virtù).

Sì, don Agostino ci è stato testimone di una figura di pastore che non si è accontentato di amare Cristo, ma ha amato e ama anche le «pecore». Che delusione, che amarezza, però, quando si vedono pastori che amano Dio (così dicono e s’illudono di amarlo), ma trascurano, dimenticano di amare le sue pecore! Appartengono a quel genere di persone (e torno a citare Peguy) che «non avendo la forza (e la grazia) di essere della natura, credono di essere della grazia; non avendo il coraggio del temporale, credono di essere entrati nella penetrazione dell’eterno; non avendo il coraggio di essere del mondo, credono di essere di Dio e poiché non hanno il coraggio di essere di un partito dell’uomo, credono di essere del partito di Dio. Poiché non sono dell’uomo, credono di essere di Dio. Poiché non amano nessuno, credono di amare Dio» (Nota congiunta su Cartesio e sulla filosofia cartesiana).

Don Agostino è stato tutt’altro tipo di pastore. Lo è stato e lo è per davvero e lo sappiamo di sicuro perché ha pure sofferto.

Nei giorni passati mi è accaduto di andare a Bergamo per parlare di Papa Giovanni XXIII. Per quella circostanza, rileggendo il suo Giornale dell’Anima mi sono di nuovo imbattuto in un assioma da lui preferito, anche se egli variamente lo attribuiva: omnia videre, multa dissimulare, pauca corrigere, che vuol dire diligentemente osservare e vedere tutto, pazientemente sorvolare su molte cose, intervenire solo quando è davvero necessario. Vi sembrerà strano, ma io, mentre leggevo queste espressioni di saggezza, pensando a questo nostro incontro le abbinavo a don Agostino.

Omnia videre! In Seminario, i seminaristi ci scherzavano amabilmente: quando meno e dove meno te l’aspettavi, don Agostino era lì! Volto di padre è quello di chi è presente, dicevo prima. Era ed è presenza di amore. Per questo, carissimo don Agostino, amato vescovo e padre: grazie! È così che hai donato e doni speranza.

La Vergine Maria, che hai voluto richiamare col motto episcopale Sub tuum praesidium tratto dalla nota antifona mariana, continui a custodirti. Lei, che con le parole del Siracide la pietà cristiana invoca «madre del bell’amore e della speranza», mater pulchrae dilectionis et sanctae spei, (cf. Sir 24,18), accompagni i tuoi giorni. Davanti a noi, difatti, tu la imiti. Con il tuo amore di padre, di fratello, di amico, certo, ma pure come testimone di speranza.

 

Chiesa madre di Minervino Murge, 27 giugno 2023

 

Marcello card. Semeraro