Omelia nella solennità di santa Agata, vergine e martire

 

Una santa per conservare la speranza

Omelia nella solennità di santa Agata, vergine e martire

 

Martyris ecce dies Agathae, canta un antico inno attribuito al papa san Damaso…: «È arrivato il luminoso giorno della festa della gloriosa martire e vergine Agata, quando Cristo la prese con sé e le cinse la fronte con una doppia corona». Molti anni or sono, nelle Sante Messe celebrate nelle memorie dei santi patroni si teneva il «panegirico», ossia se ne ricordavano le gesta e se ne tenevano le lodi. Ma cosa potrei dire a voi, carissimi fratelli e sorelle, che già non sappiate di santa Agata? Un testo liturgico, conservato nel Liber Sacramentorum riferito a san Gregorio Magno, ne tesse questo elogio: «La santissima vergine Agata con vittoriosa pazienza, non spaventata dalle minacce, né sconfitta dalle torture trionfò sulla diabolica crudeltà e rimase salda nella fede» (cf. Praefatio, in PL 78, 47). Sono brevi frasi sufficienti a voi per evocare tutta intera la sua storia e a me per esonerarmi dal ripeterla. Riprenderò, allora, due sole espressioni.

La sua vittoriosa pazienza, anzitutto, ossia la capacità di non lasciarsi sopraffare dalle prove: che è poi la caratteristica cristiana richiesta da san Paolo quando, come abbiamo udito dalla seconda lettura, scrive: «ministri di Dio con molta fermezza: nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni…» (cf. 2Cor 6,4-10). L’altro elogio che riprendo è che sant’Agata fu salda nella professione della fede: non si tratta, allora, semplicemente di una fermezza di carattere, pure umanamente pregevole – bensì di quella «fortezza» che è per noi una virtù cristiana, Udiamo di nuovo san Paolo: «moribondi, e invece viviamo; come puniti, ma non uccisi; come afflitti, ma sempre lieti…». Dovremo, carissimi, tornare fra poco su questi passaggi paolini per coglierne meglio l’insegnamento che ne deriva, specialmente alla luce di una storia di martirio che se pure riguarda santa Agata, riguarda però la storia di tutta la Chiesa, di ieri e di oggi.

C’è, infatti, una frase che Francesco ripete spesso: i martiri «sono più numerosi nel nostro tempo che nei primi secoli». Lo disse già san Giovanni Paolo II: «Al termine del secondo millennio, la Chiesa è diventata nuovamente Chiesa di martiri» (Tertio Millennio Adveniente, n. 37; cf. Novo Millennio Ineunte, n. 41). Com’è vero! Io stesso, nei soli tre anni fin qui trascorsi nell’ufficio di prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi ho presieduto a nome del Santo Padre ben quindici riti di beatificazione di martiri e in diversi casi si è trattato di gruppi di numerosi martiri. Qui in terra di Sicilia, poi, come non ricordare il beato Rosario Angelo Livatino, il cui rito per la beatificazione ebbi la grazia di presiedere il 9 maggio 2021 e, con lui, il beato Pino Puglisi? Sono santi che segnano un tratto di congiunzione tra le nostre e le antiche storie di martirio come, qui in Sicilia, di santa Agata, santa Lucia.

La domanda, allora, è la seguente: queste storie di martirio sono casi singoli? Un teologo contemporaneo, H. U. v. Balthasar, in un suo saggio sulla santità ne distingueva di due tipi: la santità «abituale» e quella «rappresentativa». Dalla prima sbocciano come fiori che, con le beatificazioni e canonizzazioni, la Chiesa stessa presenta a Dio come delle primizie. L’altra forma di santità consiste in quelle «missioni che piombano sulla Chiesa come dei fulmini celesti, in quanto devono farle conoscere una volontà unica e irripetibile di Dio nei suoi confronti» (cf. Sorelle nello spirito, Milano 2017, pp. 26-27). Dovere della Chiesa è fare proprio il messaggio che giunge da questi divini ambasciatori. Analoga distinzione la fece un caro amico vescovo siciliano, mons. Cataldo Naro, quando, trattando di santità e legalità, disse che c’è una santità esemplare con la quale alla vita di alcune persone Dio dà una carica esemplare sì da renderle un appello per la Chiesa. Rispetto a v. Balthasar, però, egli aggiunse: vorrei che questi santi si pregassero anche per i motivi per i quali sono stati messi a morte. Alcuni problemi, difatti, sono così radicati e terribili da potere essere risolti solo con l’aiuto di Dio!

Sorge allora la domanda: come e in che cosa ci interpellano questi nostri santi? Solo per la devozione? Ho veduto, carissimi fratelli e sorelle, che queste domande nella vostra Chiesa e nella vostra terra ci sono e questo arricchisce pure tutta la Chiesa. Ho letto appena ieri l’edizione speciale di «Avvenire Catania» dedicata a santa Agata con il richiamo ai valori tramandati da questa cara santa. Il vostro Arcivescovo ne ha parlato come segni di speranza e ha collegato la sua santità a quella del beato Puglisi (e dunque pure a quella del beato Livatino) leggendola come risposta e proposta riguardo a drammi come la mafia, i femminicidi; come appello a una più forte consapevolezza genitoriale nei riguardi delle nuove generazioni.

C’è, però, un’altra domanda: la storia di questi martiri sono storie eccezionali? Riguardano loro soltanto? Di simili vicende noi oggi siamo esenti? In breve: c’è chi, in un modo o nell’altro, dal nostro modo di essere cristiani si sente provocato, come lo fu il governatore Quinziano da santa Agata? Qui da noi non c’è la persecuzione, come purtroppo in altri Paesi, contro i cristiani; c’è, però, qualcosa che è anch’essa drammatica e si chiama indifferenza! L’essere divenuti indifferenti agli occhi del mondo è oggi la sfida più grande sia per la Chiesa, sia per il senso religioso in generale. Qualcuno mi obietterebbe: ma guarda le nostre processioni; guarda quelle di questi giorni in onore di santa Agata! Hai ragione, gli risponderei! Il vero problema, tuttavia, non è se permangono le tradizioni religiose e neppure la diminuita quantificazione sociologica della nostra pratica religiosa. Più grave della diminuzione della pratica religiosa è la crescita della indifferenza religiosa. Sentimento diffuso ormai è questo: «Forse Dio non esiste, ma non importa perché, comunque, non ne sentiamo la mancanza»! Se è così, dovremmo capire che la questione vera non è nelle strategie da inventare per una sorta di «riconquista» cristiana, ma sul come può oggi la Chiesa – cioè tutti noi – essere sacramentum mundi, ossia segno dell’amore di Dio per il mondo, per tutto il genere umano. Come essere cristiani in un mondo, in una cultura, in un modo generale di vivere che di fatto cristiani non lo sono?

Almeno due risposte le traggo dai testi paolini proclamati nella seconda lettura. Sono queste: testimoniare la gioia di essere amati da Dio e rendere conto, con dolcezza e rispetto, della speranza che ci anima (cf. 1Pt 3,15). San Paolo ci testimonia che «nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce…» il ministro di Dio agisce «con purezza, con sapienza, con magnanimità, con benevolenza, con spirito di santità, con amore sincero…». A me pare voglia dire pure che la via della Chiesa di oggi non è quella di «cristianizzare», ma di «evangelizzare», ossia testimoniare quanto Dio abbia amato il mondo e quanto lo ami anche oggi. Il che vuol dire quanto Egli ami ciascuno di noi, a prescindere dalla nostra condizione, dalle nostre situazioni, dai nostri errori, dai nostri fallimenti. Dio mi ama! In secondo luogo, san Paolo ci dice che la via regale per testimoniare l’amore di Dio è essere uomini e donne di speranza; oppure, per ripetere il motto scelto dal Papa per il prossimo Anno Giubilare, essere pellegrini di speranza. L’Apostolo scrive: «come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto» (2Cor 6,10). Commento questo brano con alcune parole di sant’Agostino: «Cosa c’è qui in terra? Travaglio, angustia, tribolazione, tentazione? Se c’è questo, allora devi sperare. E dov’è la gioia? Nella speranza futura. Dice infatti l’Apostolo: Sempre lieti! Sembrando tristi, ma sempre lieti. La nostra tristezza sembra; la gioia nostra non sembra, ma è: perché è certa nella speranza» (Enarr. in Ps., XLVIII/2, 5: PL 36, 559).

Sono, penso, due vie che anche Gesù ci indica, quando ci esorta a non avere paura (cf. Mt 10,28). Egli vuole farci capire che la vita cristiana non è turismo religioso; al tempo stesso, però, ci incoraggia a cogliere le difficoltà insite nel vivere da suoi discepoli come occasioni per essere ancora più missionari e per crescere nella fiducia che il Padre del cielo non abbandona mai i suoi figli. L’altro giorno, presentando le figura di Simeone e Anna il Papa ha detto: «Ci fa bene guardare a questi due anziani pazienti nell’attesa, vigilanti nello spirito e perseveranti nella preghiera. Il loro cuore è rimasto sveglio, come una fiaccola sempre accesa... Lungo il cammino della vita hanno sperimentato fatiche e delusioni, ma non si sono arresi al disfattismo: non hanno “mandato in pensione” la speranza» (cf. Omelia del 2 febbraio 2024). È l’esempio che ci giunge da sant’Agata. Non mandiamo in pensione la speranza!

 

Basilica Cattedrale di Sant'Agata, Catania, 5 febbraio 2024

 

Marcello Card. Semeraro