Omelia per la proclamazione ufficiale a patrono della Valle del Fortore

 

San Giovanni eremita, una pagina di Vangelo

Omelia per la proclamazione ufficiale a patrono della Valle del Fortore

 

Prima d’iniziare la mia omelia, permettete che ringrazi davanti a voi tutti il carissimo arcivescovo di Benevento Mons. Felice Accrocca per l’invito rivoltomi a vivere insieme con voi questo momento di preghiera, di festa, di comunione. Con lui saluto il carissimo arcivescovo di Campobasso Mons. Giancarlo M. Bregantini e tutti i sacerdoti concelebranti. Di comunione, dicevo, e lo intendo sotto tutti gli aspetti. Soprattutto per noi gente del Sud, infatti, la festa religiosa è anche occasione per incontrarsi e ritrovarsi, ristabilire rapporti attenuati, o perfino interrotti a motivo di circostanze che hanno portato a stare lontani. Ricordo che da bambino si attendeva con gioia la ricorrenza annuale del santo patrono non soltanto per la festa, ma pure perché in paese tornavano per la circostanza parenti e amici lontani.

L’arcivescovo mi ha invitato pure per l’ufficiale proclamazione di san Giovanni da Tufara a patrono della Valle del Fortore. Nella nostra classica accezione patrono è quel santo che pastori e fedeli di un territorio (o anche di una famiglia religiosa e pure di una associazione di fedeli) hanno unitamente designato come loro protettore, ossia intercessore presso Dio e per la cui scelta vi sia pure l’approvazione della competente Autorità. I sentimenti di fraternità e amicizia si allargano, allora, alle comunità cristiane che hanno voluto porsi sotto la protezione di questo Eremita innamorato del Signorem con le Autorità civili, militari e di polizia che le accompagnano.

Non conoscevo – devo riconoscerlo – san Giovanni eremita e proprio per questo ho letto con attenzione la sua memoria storica. Mentre sfogliavo le pagine dei vari documenti mi tornavano alla mente tanti modelli. La sua radicalità evangelica e la sua inquietudine, ad esempio, mi riportavano alla figura di san Francesco d’Assisi, di cui mi pareva un precursore; la sua vita eremitica nella solitudine, d’altra parte, mi ricordava le storie degli antichi padri del deserto; c’è, non da ultimo, il suo gesto di spogliarsi per rivestire un povero e questo mi ha riportato alla memoria il giovane Martino che divise la sua clamide e poi, la notte, sentì la voce di Cristo che diceva agli angeli: «Martino, benché ancora catecumeno mi ha ricoperto con la sua veste» (De vita beati Martini, III: PL 20, 162).

Mentre, allora, scorrevo le pagine relative alla vita di san Giovanni eremita mi tornava alla memoria ciò che papa Francesco scrive dei santi, ossia che ciascuno di loro «è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo» (Gaudete et exsultate, n. 19). Mi sono allora domandato: qual è il messaggio che scaturisce oggi dalla vita di san Giovanni da Tufara? Ho cercato una risposta alla luce delle parole del santo Vangelo che è questa sera è stato proclamato. Gesù, infatti, ci dice qualcosa che è molto importante: «La lucerna del tuo corpo è l’occhio».

Comprendiamo questa frase se teniamo conto di come gli antichi ebrei, consideravano l’occhio. Per noi è l’organo della vista, sicché noi con gli occhi vediamo la luce; per loro l’occhio è una sorgente di luce e per questo Gesù la assimila alla lucerna. Non leggiamo, così, nel vangelo secondo Matteo che noi siamo la luce del mondo? (cf. Mt 5,14) Qual è il senso di questa espressione? La tradizione cristiana ha unanimemente spiegato così: prima di agire, interrogatevi su qual è l’intenzione del vostro cuore; considerate l’intenzione da cui proviene quello che fate. «La lucerna del corpo è l’occhio, perché il valore dell’azione è illuminato dal raggio della retta intenzione», diceva san Gregorio Magno (Moralia XXVIII, 30: PL 76, 465). Con quale «occhio», dunque, san Giovanni eremita, ha guardato le cose e ha fatto le sue scelte di vita?

Quando, come narra la leggenda, egli scelse di andare a Parigi ricercava la sapienza. Questo è certo cosa buona; più importante, però, del conoscere le cose è conoscere se stessi. La frase è antica. La troviamo già sulle labbra di Socrate. La ripeteva pure sant’Ambrogio, che diceva: «Conosci te stesso, o uomo. Riconosci che in te c’è il soffio creatore di Dio. Sei la sua opera più bella. Considera quanto sei prezioso agli occhi di Dio perché porti la sua immagine» (su Cant I, 7: PL 15, 1864). Ecco, allora, che san Giovanni eremita è stato un uomo che per conoscere se stesso si è guardato in Dio. Da qui la sua scelta della vita solitaria, la sua vita eremitica. La vita solitaria, però, non lo ha distolto dal guardare gli uomini, dal riconoscerli nel loro bisogno e riconoscere in loro la presenza di Cristo. Anche questo è importante.

A volte, infatti, ci sono ricerche della santità che nello sforzo di volare molto in alto perdono il contatto con la terra e le sue vicende liete e dolorose: un po’ come i palloncini volanti, che nelle feste si danno ai bambini; procurano gioia finché si librano in aria e sono tenuti agganciati alla terra con un filo, ma se quel filo si spezza, ecco che il palloncino vola via, scompare, va alla deriva. Così è una ricerca della santità, che perde il contatto con le vicende umane. Al contrario, ci sono alcuni che vorrebbero cercare la santità, ma poiché non sanno interiormente rendersi liberi somigliano a quegli aquiloni, che son fatti male e non riescono a prendere il volo.

San Giovanni, invece, si è dedicato totalmente a Dio come eremita, ma ha saputo guardare agli uomini e amarli: nei poveri ha riconosciuto il volto di Gesù affamato, ignudo e sofferente; per altri, che guardavano a lui come a un fratello maggiore e a un padre e gli domandavano la guida verso la perfezione cristiana, ha avviato la forma di vita cenobitica fondando il «Monastero di Santa Maria de Gualdo Mazzocca»: una abbazia dove con il benedettino ora et labora si dava spazio sia alla contemplazione e alla preghiera, sia all’azione sociale a favore dei poveri e degli emarginati.

A tutti san Giovanni ha lasciato il suo testamento spirituale: «Amatevi sempre, figliuoli miei… Amate Dio, primo nostro principio e ultimo fine; amate la santa Chiesa che è la via della salute… Amate di un amore divino l’anima vostra, amate tutti e sempre per nostro Signore». Questo testamento mi ricorda quel che san Girolamo raccontava dell’evangelista Giovanni, che «rimase a Efeso fino a una età tanto avanzata che gli stessi discepoli riuscivano a trasportarlo con molta difficoltà e la sua voce era così flebile da non riuscire a mettere insieme molte parole. E ripeteva sempre le stesse cose: “Figli miei, amatevi gli uni gli altri”. Alla fine i discepoli e i fratelli presenti, stanchi di sentire sempre le stesse parole, gli domandarono: “Maestro, perché dici sempre questo?”. Ed egli rispose con una frase degna di Giovanni: “Perché è il comandamento del Signore, e se facciamo solo questo, basta”» (Comm. in Epist. Galatas III: PL 26, 433). Così è stato san Giovanni da Tufara. Perciò il suo corpo è stato tutto luminoso, simile a lampada che illumina con il suo fulgore (cf. Lc 11,36).

 

Santuario di Foiano di Val Fortore (BN), 26 agosto 2023

 

Marcello Card. Semeraro