Atti del Convegno di studio "La santità oggi"

Atti del Convegno di studio "La santità oggi"

Il programma del Convengo si articola in quattro giornate, durante le quali sono previsti 11 interventi, 5 comunicazioni e 2 tavole rotonde. Prenderanno la parola, oltre al nostro Cardinale Prefetto e al sottoscritto, gli Ecc.mi Mons. Bruno Forte e Mons. Orazio Francesco Piazza. Interverranno inoltre religiosi e religiose, ma anche docenti universitari e personaggi della comunicazione. La conclusione del Convegno sarà l’Udienza con Papa Francesco, giovedì 6 ottobr

Nel pomeriggio del 3 ottobre, dopo l’avvio dei lavori da parte di Sua Eminenza il Card. Semeraro, i lavori si concentreranno sul tema della santità e della santità oggi. La prolusione è stata affidata all’Arcivescovo di Chieti-Vasto. Prenderà poi la parola, insieme al Vescovo di Sessa Aurunca, il Dott. Marco Tarquinio, Direttore di Avvenire.

Le giornate seguenti si concentreranno sui due aspetti dell’eroicità cristiana (il 4 ottobre) e della fama di santità (il giorno 5).

Nella mattinata del primo giorno sono stati invitati ad intervenire 4 religiosi, tutti docenti universitari. Parleranno di come i Santi non si possano relegare al passato, ma siano una presenza costante nella vita della Chiesa; di come la santità sia una chiamata sempre urgente e una proposta decisiva per l’uomo di ogni epoca. Nello stesso tempo, si porrà l’attenzione sulle Beatitudini, così come ha fatto il Santo Padre dedicando una cospicua parte della Gaudete et exsultate ad una rilettura delle beatitudini secondo Matteo. Scrive Papa Francesco: «Le Beatitudini in nessun modo sono qualcosa di leggero o di superficiale; al contrario, possiamo viverle solamente se lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell’egoismo, della pigrizia, dell’orgoglio» (n. 65).

La sessione pomeridiana prevederà tre momenti. Nel primo si indagherà il rapporto fra chiamata universale alla santità e santità canonizzabile. Nel secondo ci sarà un confronto fra la santità e due paradigmi culturali, cultura della vita e cultura dello scarto; di quest’ultimo tema si occuperà il Prof. Andrea Riccardi, Fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Infine il Prof. Francesco Giorgino, docente di comunicazione alla LUISS Guido Carli di Roma, modererà la tavola rotonda con alcuni degli intervenuti.

Mercoledì 5 ottobre la giornata sarà dedicata ad approfondire il tema della fama di santità, con uno sguardo particolare alle nuove tecnologie e alle forme più attuali della comunicazione sociale. Non si può parlare oggi di “fama di santità” senza tenere conto del potenziale divulgativo dei nuovi strumenti, che sono diventati non solo disponibili ma anche sempre più popolari. Se da un lato essi possono artificiosamente creare una “fama”, per cui è necessario un attento discernimento, dall’altra parte conosciamo il contributo che, ad esempio, i social hanno nel diffondere idee, proporre modelli e suggerire ideali di vita. Lo sapeva un giovane come Carlo Acutis, divenuto Beato nel 2020, che ha messo al servizio del Vangelo la sua passione per i mezzi moderni di comunicazione; non a caso, si tratta di uno dei giovani Beati più famosi in tutto il mondo, conosciuto e venerato ovunque.

Al mattino saremo accompagnati dalle riflessioni della Prof.ssa Cecilia Costa, di Padre Federico Lombardi, S.J., già Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, e del Prof. Mario Morcellini.

Nel pomeriggio un teologo, un giornalista e la direttrice dei Musei Vaticani offriranno, ognuno per la propria specificità, tre diversi volti della fama di santità oggi. Seguirà quindi la tavola rotonda, moderata da Mons. Dario Viganò.

Si tratta di un programma intenso, che vorremmo non tanto esaurisse l’argomento, ma offrisse spunti per portare avanti lo studio e la riflessione su queste tematiche, che guidano il lavoro del Dicastero delle Cause dei Santi. Se dovessi cogliere un elemento trasversale di tutto il Convegno, mi pare che sia decisivo proprio il tema della cultura. La sfida è quella di trovare vie per le quali Chiesa e mondo possano condividere un codice religioso ed etico, di concetti e di esperienze. Mi viene sempre in mente una frase che San Paolo VI scrisse nell’Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi al n. 20: «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca». I Santi del nostro tempo, con la concretezza della loro testimonianza, di fatto contribuiscono a superare proprio quel drammatico divario. Il Dicastero delle Cause dei Santi, col suo lavoro quotidiano e con l’organizzazione di questo Convegno, vuole fare sua questa certezza.

 

 + Fabio Fabene

Segretario

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Quello della santità è un tema caro a Papa Francesco. Nel suo pontificato cresce sempre più il numero di Santi canonizzati ed egli stesso «sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo» ha scritto nel 2018 l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, proponendosi «di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità» (n. 2). Il Convegno “La santità oggi” nasce dall’istanza di mettere in dialogo con il mondo attuale i temi su cui quotidianamente si porta avanti il lavoro per le Cause di beatificazione e canonizzazione. Non si tratta di un momento “alternativo”, né a quello che il Dicastero fa ogni giorno, né ai momenti di scambio e formazione che si organizzano e si tengono internamente. Organizzare un Convegno significa, per il Dicastero, assolvere un compito di indagine e di approfondimento, capace di coinvolgere esperti di teologia e spiritualità, di società e comunicazione, per svolgere in modo più completo il suo «servizio» (cf. Praedicate Evangelium, I,8 e II,1). Già in passato la Congregazione delle Cause dei Santi ha organizzato momenti di riflessione aperti a tutti, colloqui e simposi su temi specifici della santità canonizzata, quali questioni scientifiche – si pensi al Colloquium Medicorum del 1988 – o aspetti più spirituali – ad esempio, Eucaristia, Santità e Santificazione nell’anno 2000. L’intenzione è di rendere ora questi appuntamenti più regolari.

Compito del Dicastero non è quello di “gestire” la santità, ma di riconoscerla mediante specifiche e coordinate fasi di discernimento. Per questo si è scelto che il Convegno di quest’anno si focalizzi su due aspetti essenziali delle Cause di beatificazione e canonizzazione. Primo aspetto è quello della “fama di santità”, che deve essere accertata previamente all’istruzione di ogni Inchiesta diocesana su un Servo di Dio. La “fama di santità” combina insieme due sfumature: da un lato, la convinzione dei fedeli circa la santità di una persona, convinzione che nasce dalla percezione di una eccezionalità ed ha come conseguenza la richiesta di intercessione per le proprie o le necessità altrui; dall’altro, la capacità che tale eccezionalità risvegli nel Popolo di Dio la coscienza di essere tutti chiamati ad essere Santi: quella che il Concilio Vaticano II ha chiamato «universale vocazione alla santità» (LG, cap. V). La santità canonizzata, che propone alla Chiesa intercessori e modelli cui ispirarsi, ha prevalentemente questo fine: attraverso l’individuazione di figure esemplari, che superano il vissuto ordinario, richiamare i battezzati a vivere santamente la loro vita di ogni giorno. San John Henry Newman, nelle sue Preghiere e Meditazioni, proponeva così la sua Breve via di perfezione (27 sett. 1856): «Perfetto è colui, il quale fa in modo perfetto le sue azioni giornaliere, e per trovare la perfezione noi non abbiamo affatto bisogno di oltrepassare questi limiti».

Si collega a questo primo aspetto, il secondo tema su cui il Convegno intende soffermarsi. Si tratta di una riflessione sul senso della «eroicità» cristiana. La Chiesa ha custodito fin dai primi secoli anzitutto la memoria dei suoi martiri e poi anche dei suoi “confessori”, quali veri «eroi» della fede. Ora, si tratta di comprendere cosa significhi oggi eroicità, specialmente in relazione all’esercizio delle virtù, al martirio e all’offerta della vita. Scrive ancora il Concilio Vaticano II: «Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo, Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto». In Gaudete et exsultate Papa Francesco spiega che «nei processi di beatificazione e canonizzazione si prendono in considerazione i segni di eroicità nell’esercizio delle virtù, il sacrificio della vita nel martirio e anche i casi nei quali si sia verificata un’offerta della propria vita per gli altri, mantenuta fino alla morte. Questa donazione esprime un’imitazione esemplare di Cristo, ed è degna dell’ammirazione dei fedeli» (n. 5). Facile comprendere che una definizione dell’eroicità cristiana ha una risonanza tutta particolare nell’attuale contesto culturale, dove tanto spesso il relativo sembra prevalere sul vero e l’instabilità avere la meglio su qualsiasi coraggioso progetto di vita.

Auspico, dunque, di vero cuore che il nostro Convegno su “La santità oggi” segni un momento di riflessione importante sulle Cause di beatificazione e canonizzazione e questo non solo per il lavoro che il Dicastero svolge, ma anche per le ricadute che esso inevitabilmente ha per la coscienza credente del Popolo di Dio.

 

Marcello Card. Semeraro

Prefetto

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Ogni epoca ha proposto le proprie interpretazioni sulla vita e sulla morte, sul bene e sul male, sull’eternità e sulla verità. Ogni contesto storico ha generato i propri santi. Anche nella nostra modernità avanzata caratterizzata da una continua metamorfosi, da un’anoressia di significati, da un’eccedenza della tecnica e da un’accelerazione storica, c’è spazio per la santità. Un’epoca, la nostra, che, da un lato, offre ampie possibilità comunicative, tecnologiche e, dall’altro lato, produce delle disfunzioni socio-antropologiche, simbolico-valoriali, tanto che: la felicità si è contratta in mitologia del consumo; la fede è divenuta preferenza personale non vincolante; il tempo si riassume in un’unica dimensione a-crona, del qui ed ora; la libertà è intesa a ribasso come “diritto” di superare ogni limite, obbligo, regola.

Però, proprio nell’odierna crisi culturale, in cui si assiste alla scomposizione di ogni canone, assunto e verità, si rifà strada “l’anelito di infinito” (Card. Bergoglio); si è in ricerca di una speranza al di là del tempo e si ha bisogno di testimoni della fede, che manifestino questa speranza che va “oltre” l’orizzonte immanente (Spe salvi). Oggi, più che mai, c’è la necessità di santi, − che sono stati guerrieri, martiri, iniziatori di ordini monastici, vescovi, papi e, nella post-modernità, sono persone “della porta accanto” −, perché l’esempio della loro “pienezza di vita” può aiutare l’umanità contemporanea a riconciliare la secolarità del mondo con la radicalità del Vangelo (parafrasando S. Tommaso). Propria nella nostra complessità storica, arresa ad un umanesimo autosufficiente, si avverte l’importanza della presenza dei santi, perché essi sono gli interpreti autentici dell’amore che salva.

La realtà contemporanea ha necessità della speranza, dell’amore, dell’energia e del coraggio della santità perché, come scrive papa Francesco nella Gaudete et exsultate, i santi testimoniano un vissuto “controcorrente” rispetto alla logica del momento. Basti pensare a Teresa D’Avila che nel suo testo, Il Castello interiore, è stata capace di dare una risposta sia all’angoscia esistenziale degli uomini del suo tempo sia alle vertigini di senso dell’umanità moderna. Oppure, basti ricordare Pier Giorgio Frassati che, rispondendo con convinzione alla con-vocazione d’amore di Dio, riuscì nella sua breve esistenza a combinare lo straordinario con l’ordinario. O, ancora, Carlo Acutis che ha spiegato ai suoi coetanei, i millennials, come l’amore per Gesù possa convivere con la passione per internet.

I santi non sono un retaggio del passato, ma un progetto per il futuro, perché essi sono da sempre gli “eroi” dell’amore altruistico e creativo che, come sottolineava Sorokin, ha come “suo sublime modello il Sermone della Montagna”.

I santi sono nella storia ma fanno anche storia e la loro “storia santa” può rendere possibile una “conversione” culturale, sociale, individuale, dall’egoismo all’altruismo in grado di riportare armonia, solidarietà, fratellanza e bontà nel mondo.

 

Cecilia Costa

Relatore

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Da cristiano so che “ci si fa santi” nella nostra concreta vita, con l’aiuto e sotto gli occhi di Dio. In quella condizione che papa Paolo VI nell’Udienza generale del 16 marzo 1966, rivolgendosi soprattutto a noi fedeli laici, diceva essere frutto di “due cose”: la “grazia di Dio” e la nostra “buona volontà”.

Da uomo di comunicazione mi rendo conto, continuo a constatare, che si è riconosciuti santi e sante, cioè modelli di vita buona, quando questo accade anche dentro agli occhi degli altri e questa scoperta riesce a toccare con la sua evidenza almeno un po’, la vita di tanti persino di tutti, scuote, sveglia e rafforza la fede (quando c’è e quando s’incomincia), smuove il cuore, provoca l’intelligenza, accende e a volte incendia l’anima.

Sì, si può definire la santità anche dal punto di vista di ciò che comunica ai singoli e alle comunità. E la parola che viene alle labbra a chi, come me, ha esperienza di mass media è scoperta. Ma forse si potrebbe dire meglio definendola una incarnazione della verità che tutti cerchiamo, un’incarnazione – noi che abbiamo incontrato Cristo dovremmo averlo chiaro – che è eco piccola eppure potente dell’Incarnazione che ha cambiato la storia.

Da uomo di comunicazione so anche che questo è un fatto, la santità è un fatto che accade, come detto, in un rapporto speciale con Dio eppure anche dentro agli occhi degli altri. E accade persino a prescindere dalla consapevolezza generata dalla fede nel Dio rivelato pienamente in Gesù Cristo. I santi e le sante sono persone spirituali e contemporaneamente parole di carne che scrivono con la loro esistenza, anche con le contraddizioni della loro esistenza e infine con la chiarezza della loro esistenza, la Parola che si è fatta carne. È così che testimoniano con forza nella complessa realtà umana l’adesione a Cristo e attraggono a Lui anche coloro che vengono da più lontano o comunque anche per costoro possono diventare amici e maestri, sono uomini e donne che sanno essere parole vive e comprensibili da tutti, credenti, diversamente credenti e non credenti. Da frate Francesco d’Assisi a madre Teresa di Calcutta è stato, ed è, così. E questo è tanto più importante in tempi increduli e spesso sconsolati come i nostri.

Provando, da semplice giornalista quale sono, a mettermi nei panni degli altri – e, per così dire, appunto nei loro occhi – mi rendo conto che pur in tempi di scetticismo verso tutto ciò che sa di “istituzione” e di tendenze ad “autocertificare” ciò che è buono e interessante per la propria vita, a proposito di santità ha un ruolo cruciale l’indagine e la parola prudente della Chiesa che riconosce e assicura – magari non per prima ma in modo certo e definitivo. Garantisce autorevolmente che ciò che hanno visto gli occhi delle singole persone e persino di quella folla che chiamiamo “opinione pubblica” (ecclesiale e no) o anche solo “gente” non è un abbaglio. Il cuore delle persone è affamato di bontà e di altezza non altezzosa, anche quando è stretto dalla paura e dallo scetticismo e dall’egoismo, e quando le vede all’opera ne è felice. Sembra banale dirlo, o potrà stupire che lo dica un cronista, ma questa fame di bontà e di altezza non possiamo mai dimenticarla. Ricordando a tutti che non c’è un solo modo di essere buoni e santi, ma come insegnava il Papa che guidò a compimento il Concilio Vaticano II nella già citata Udienza generale del 16 marzo 1966, ma “tante forme diverse” e, pure, “tante misure diverse”. Perché la diversità è la cifra dell’unica famiglia umana.

Da Agostino di Ippona a Carlo Acutis, da Oscar Arnulfo Romero a Gianna Beretta Molla i santi rispondono a Dio e, al tempo stesso, proprio per questo, parlano agli uomini e alle donne del proprio tempo. Non solo: nel senso appena detto, i santi e le sante parlano con efficacia agli uomini e alle donne di ogni tempo.

Insisto su un punto. L’uso in questa riflessione del termine “uomini e donne” invece della parola “fedeli” non è casuale e non è generico, è generale e inclusivo. I santi e le sante sono testimoni di Dio e del suo progetto per l’umanità non soltanto per i credenti e per le persone religiose, cristiane e no, ma riescono a farsi capire anche da chi frequenta altri alfabeti. La santità infatti non marca un confine, non serve in alcun modo a questo, ma a fa capire che si può vivere – per così dire –tra la terra e il cielo e abitare entrambi. Anche qui, anche adesso. Ci dimostra che nell’umana condizione ci è dato di superare la frontiera che sembra separare la nostra imperfetta umanità dal bene possibile e necessario. Il bene che ognuno, in cuor suo, nei tanti casi della propria esistenza, teme di non realizzare: ancora Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, vescovo di Roma e santo, quando serviva la Santa Sede come sostituto della Segreteria di Stato, annotò in un appunto autografo e senza data, probabilmente del 1948, queste poche e umili parole: “Temo che non diventerò mai santo”.

Il bene che ognuno sa esistere e che ognuno sa riconoscere, quando accade. Quel bene che non è appena un non-male, ma che dà senso – cioè direzione – a tutto, e sa germogliare anche là dove trionfa il male. Penso, volgendo lo sguardo al cuore nero del Novecento, a padre Massimiliano Kolbe e a suor Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein. Penso ai missionari martiri in tante “terre di lavoro” dei cinque continenti e a quelli che non consideriamo formalmente tali, cioè missionari del Vangelo, ma che lo sono in terre di antica e purtroppo svuotata tradizione cristiana.

Ma se vogliamo stare all’attualità più stringente, quella della guerra –che sul serio e di nuovo ci stringe il cuore in Europa e in altri 168 luoghi del mondo in questo anno 2022 dell’era cristiana–, vediamo e, certamente, poco a poco, scopriremo di più quanto esistente e resistente possa essere il bene. Il bene sa manifestarsi anche dentro al male assoluto della guerra, che è sempre l’organizzazione sistematica dell’assassinio e che è sempre tragico, totale e diabolico – per usare l’espressione cara a papa Francesco – cedimento al “cainismo”. Lungo i secoli e persino nella cronaca dell’oggi – quella, non dominante ma tenace e presente, fatta da chi non intende fermarsi alla pelle dei fatti e alla loro corazza bellica – abbiamo imparato che il bene germoglia in apparentemente inattuali gesti di pace, nella diserzione dalla strage, nella preghiera umile, nella testimonianza e nella carità segrete che cambiano tutto, fosse anche per una sola persona. Ci sono santi e sante – possiamo esserne certi – che stanno agendo e, dunque, parlando all’umanità anche adesso, dicendo agli uomini e alle donne di questo tempo che c’è una salvezza che ci riguarda e che non è una fuga all’indietro, ma una corsa in avanti verso un orizzonte cristiano che coincide, anche se non si esaurisce, con l’umanesimo che fa fare pace al mondo.

Se l’umana caduta è nell’orgogliosa pretesa di sapere “come Dio” ciò che è bene e ciò che è male, da cronista di questo tempo penso che la Chiesa abbia la possibilità e il dovere di dire e di far comprendere alle persone del XXI secolo che la santità riconosciuta dai cristiani è il cammino di chi risale la china per ritrovare il limite, e sa attraversarlo non per orgoglio ma per amore. E che questo è l’unico modo per essere per davvero “come Dio”, cioè per essere “a sua immagine e somiglianza”. La Chiesa può non perché i suoi occhi sono gli occhi del mondo, ma perché ha occhi sul mondo. E, seguendo il suo Signore, ha a cuore tutto ciò che è profondamente umano.

Mi accorgo di aver osato aggiungere alla “grazia di Dio” e alla “buona volontà”, secondo la lezione di san Paolo VI, una terza “cosa” necessaria per “fare la santità”: il senso del limite. E forse l’attesa che sento più urgente nella stagione dell’umanità che stiamo vivendo. Penso che attestando la qualità e la verità di vite sante, cioè buone, giuste e salvate – ciò che a nostro modo facciamo anche noi che lavoriamo in un’informazione non rassegnata al gossip e attenta alla sostanza più umana e fraterna di ciò che ogni giorno avviene – la Chiesa svolga un grande servizio. Aiuta a riconoscere l’umano limite, ad aver chiaro nella conoscenza a volte confusa e smemorata del bene e del male che ci caratterizza che noi non siamo perfetti, che solo Dio lo è. E che noi possiamo vivere con bontà, realizzare la bellezza, cercare e incontrare la verità, ma non possiamo metterci al posto di Dio. Lui è perfetto – noi cristiani lo crediamo e lo contempliamo, contemplando e facendo la storia che Lui ha toccato una volta per tutte – e per questo ha voluto e saputo mettersi al posto nostro, si è fatto carne mortale, martoriata e uccisa, è entrato nella nostra finitezza e l’ha sconvolta fino a rivelarci l’eternità che esplode con la Resurrezione: la sua e quella che ci è promessa nella nostra stessa carne. Cristo continua a entrare nella storia e a rivelaci la nostra condizione e la nostra vocazione.

Canta Giuseppe Ungaretti in “Mio fiume anche tu”, poesia scritta nella guerra che insanguinò il cuore del Novecento e pubblicata nel 1947:

Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D’un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.

Il posto degli uomini e delle donne “santi” non è al posto di Dio, del Dio-Amore così innamorato dell’umana libertà, dell’umana possibilità di liberamente corrispondergli e di corrispondere alla Sua grazia che ci si è fatto Fratello. Sino a esserne crocifisso. Lui, sì, Santo. Tre volte Santo, come ripete il poeta, Santo che s’immola “perennemente per riedificare umanamente l’uomo”.

Non al posto di Dio, dunque, nella vertigine di conquistare pezzi del Suo potere infinito, ma accanto al Suo cuore e perciò accanto agli altri uomini e alle altre donne, cioè dentro la città dell’uomo e in tutte le sue possibili periferie, affollate o solitarie.

I santi e le sante tengono aperta la strada, che passa sotto casa nostra. E su cui si può camminare. Questo rincuora e di questo si può essere felici. Non tutti lo considerano un evento da prima pagina. Eppure, se nel mondo c’è speranza, è perché continua ad accadere sotto gli occhi di Dio e dentro gli occhi degli altri.

 

Marco Tarquinio

Relatore

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Per comprendere meglio il tema dello ‘scarto’ bisogna andare al pensiero di Papa Francesco che lo ha lanciato a partire da Evangelii Gaudium: “Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello ‘scarto’ che, addirittura, viene promossa … Gli esclusi non sono sfruttati, ma rifiuti, avanzi” (EG, 53). Questa non è un’enfatizzazione della realtà. Francesco ha colto un passaggio globale della società globale: i poveri non sono più inclusi, seppur marginalmente, all’interno del nostro sistema; specie nelle megalopoli vengono eliminati come scarti, rifiuti della società; diciamo: immondizia che non ha valore. È un dato dell’economia del mondo globale; l’immagine di questa umanità scartata, vista, è quella dei bambini che sono nelle discariche o vivono lì: la loro vita è già segnata, sono rifiuti.

Nei Paesi che noi chiamiamo “emergenti”, la città globale è realtà i slum, favelas, dicias miserias; gli slums ospitano il 31% della popolazione mondiale: un enorme popolo di esclusi, di scartati, che vive in abitazioni improprie, soprattutto che non ha futuro, i cui figli non avranno un futuro diverso dal loro. Il 72% della popolazione dell’Africa sub-sahariana abita negli slums, mondi di affollamento e di esclusione.

Cosa significa parlare di santità in questo mondo e di fronte a questo mondo? Questa seria domanda mette in discussione la nostra conoscenza di questo mondo di scartati – spesso ci fermiamo alla soglia – ma mette anche in discussione i limiti di un’idea di santità e ci spinge a comprendere più a fondo, con più finezza, le correnti di spiritualità e le vicende di santità.

Sempre il Papa, nel 2014, ha detto: “Dai poveri e dagli anziani si inizia a cambiare la società. Gesù dice di sé stesso: «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo» (Mt 21,42). Anche i poveri sono in qualche modo “pietra d’angolo” per la costruzione della società. Oggi purtroppo un’economia speculativa li rende sempre più poveri, privandoli dell’essenziale”[1].

Non c’è solo la santità di chi si immedesima nel mondo degli scartati e vive in mezzo a loro amicizia e solidarietà (ne farò cenno poi), ma c’è una santità difficile da cogliere, quella dello scartato, la santità della pietra scartata. Don Tonino Bello, in un piccolo libro pubblicato nel 1993, “Pietre di scarto”, diceva: “Pietre scartate dai costruttori che fanno le sorti della storia; il loro anelito di vita, muti in serbatoio di speranza, questa allucinante ballata di tombe che è la Terra”. È il parlare di Tonino Bello. La santità delle pietre scartate non è casuale, ma si fonda sulla dimensione cristologica del povero stesso. Questo è uno sguardo radicato nel Vangelo. Pensiamo alla parabola del giudizio finale (Mt 25), approfondita dai padri, come Giovanni Crisostomo: “Senza i poveri sarebbe demolita in larga parte la nostra salvezza. Il Crisostomo predica con insistenza al popolo di Antiochia e addita le diverse figure di poveri e degli scartati mostrando come in loro vive Cristo e come in loro debbono trovare Cristo. Questa affermazione radicale dei Padri è stata sbiadita in una pratica assistenziale che ha perso senso evangelico e profetico - quel senso che viene dall’incontro dei poveri - che restringe la santità ad alcuni modelli, che ridimensiona la presenza del povero nella vita della Chiesa. Lo scartato è Lazzaro, nella parabola del ‘ricco epulone’; sappiamo come i Padri abbiano notato che il ‘ricco epulone’ non ha nome, Lazzaro sì, tanto che la pietà della Chiesa è andata a modo suo, ha canonizzato nei secoli Lazzaro, facendone un lebbroso, protettore dei lebbrosi; da qui i “lazzaretti” e poi i “lazzaroni” (è una distorsione napoletana). Crisostomo scrive che un uomo è uomo nel confronto con Lazzaro. Dice: “Se tu vuoi bene ai poveri, sei un uomo. Se ti occupi solo di commerci, sei una quercia; se hai un nimo feroce, sei un leone; se sei rapace, un lupo”.

La santità degli scartati contagia e salva. Soeur Emmanuelle, religiosa della Congrégation Notre Dame de Sion, che ha vissuto gli ultimi trent’anni della sua vita (è morta a quasi cento anni) tra gli straccivendoli del Cairo (per questo fu soprannominata la “petite soeur des chiffonniers”), raccoglitori di immondizia, in condizioni disumane, dice: “In mezzo a loro, gli scartati dell’immondizia, ho incontrato l’uomo, il figlio e la figlia di Dio. Ho sperimentato il segno visibile della presenza di Dio nel povero, nei poveri. Sono loro che mi hanno insegnato il Vangelo. Il mio vangelo di cristiana lo avevo letto e riletto sulla carta, ma qui l’ho letto nei cuori viventi, nei cuori dei bambini chiffonniers”.

Esperienza spirituale, amicizia e solidarietà con gli scartati si intrecciano in un modo tanto forte da far apparire insensata la divisione e la contrapposizione tra spiritualità e solidarietà.

Una figura canonizzata nel mondo ortodosso, Madre Maria di Parigi, monaca russa in mezzo agli scartati, agli ebrei ricercati dai nazisti, parlava del “sacramento del fratello”, avendo negli occhi il perseguitato, il povero.

In particolare (e qui introduco, seppur velocemente, un altro mondo di scartati) durante l’occupazione dei nazisti di Parigi, quegli scartati erano gli Ebrei destinati, nel programma di dominio criminale nazista, allo sterminio. L’aiuto agli ebrei le costò la deportazione nel lager di Ravensbruck. Qui tocchiamo un altro mondo di scartati a cui è stato tolto tutto, anche la minima umanità: è il sistema concentrazionario, grande invenzione del ‘900, i lager nazisti, i gulag sovietici e altri campi. Qui tutti, senza esclusione, uomini, donne, anziani, bambini sono destinati allo scarto, primi tra tutti gli ebrei che sono untermenschen (sotto-uomini, sub-umani).

Il cardinale Wojtyla, nel 1976, disse – predicando gli esercizi spirituali a Paolo VI e alla Curia Romana: “I campi di concentramento rimarranno per sempre simboli reali dell’inferno in terra. In essi si è espresso il massimo del male che l’uomo è capace di fare ad un altro uomo. In un tale campo di concentramento, nel 1941, morì padre Massimiliano Kolbe. Tutti i prigionieri sapevano che era morto per sua libera scelta. Morì un uomo, ma l’umanità si salvò”. La morte di Kolbe, come la preghiera, come l’amore, nel sistema concentrazionario, mostrano la vittoria disarmata della santità sulla disumanizzazione di un sistema di disprezzo e di odio, che voleva ridurre l’uomo e la donna a niente, per nullificarlo.

In quel sistema noi troviamo una corrente impetuosa di santità. La santità è resistenza alla disumanizzazione: la storia di Kolbe, la storia di Titus Brandsma, fine intellettuale olandese, di Madre Maria: di fronte alla violenza sperimentarono una grande estrema debolezza, ma quella debolezza è una risorsa. Mi piace molto una frase di Solgenitsin nel romanzo “Nel primo cerchio”. Un detenuto dice al direttore del campo: “Voi siete onnipotenti finché non togliete tutto a noi prigionieri, ma quando noi non abbiamo più niente, noi siamo di nuovo liberi. Voi non potete più niente contro di noi”. Ed è l’affermazione di un abitatore del gulag come Solgenitsin.

Un prete greco-cattolico ucraino, sposato e padre di sei figli, Omeljan Kovč, beatificato, fu portato dai nazisti nel lager di Majdanek, in Polonia. Visitando questo lager mi ha colpito che dei prigionieri uccisi è rimasto niente, se non un’enorme vasca di cenere. Omeljan, di quelle sofferenze disse: “Tranne il Cielo, questo è l’unico posto dove vorrei essere, perché qui siamo tutti uguali: polacchi, ebrei, ucraini, russi, lettoni, estoni”; possiamo capire meglio oggi i problemi che esistono in questo mondo. Lui dice: “Qui vedo Dio, Dio lo stesso per tutti, nonostante le differenze di religione che ci sono tra noi”.

Sì, c’è una storia di santità nell’inferno concentrazionario che è la povertà totale e la resistenza alla disumanizzazione e che dobbiamo in larga parte scoprire. Mi colpisce che ricevendo i reduci dei campi nel 1945, il cardinale Suhard, arcivescovo di Parigi, dice: “Voi di Dachau, che siete tornati, siete dei confessori; quelli che a Dachau hanno incontrato la morte sono dei veri martiri”.

Qui c’è un tema di memoria di una santità, di un’offerta della vita, che non è canonizzata, ma che è un flusso tremendo e meraviglioso di storie di vita cristiana.

Le correnti di santità attraversano il mondo degli scartati. Mi viene da pensare a un mondo totalmente inesplorato: la fede e la preghiera di taluni rifugiati morti nelle incredibili traversate in mare o i duri percorsi via terra; affiorano appena flebili segni, qualche testimonianza di preghiera, di affidamento al Signore di quelli che poi perdono la loro vita: rosari, vangeli, bibbie… Un mondo totalmente inesplorato di gente scartata due volte dal proprio paese e da chi non li accoglie.

Santità è anche dislocare se stessi e la propria vita nel mondo degli scartati (ad es. Suor Emmanuelle). Anche la recente canonizzazione di Fratel Carlo di Gesù, figura ispiratrice di un filone di fede vissuta nel cuore delle masse – come diceva padre René Voillame – abbia introdotto a ripensare questa figura, sottolineando non solo l’eremitaggio nel deserto, ma la sua volontà di essere vicino a questo popolo scartato, a questo mondo scartato dei tuareg del deserto. Il deserto è per lui una realtà, ma una realtà di deserto umano: un popolo marginalizzato dagli arabi, dai francesi, ignorato nella propria realtà. La via che sceglie è la via dell’immedesimazione e fratel Carlo addita alla Chiesa di inizio ‘900 la necessità di una dislocazione presso gli scartati come via della santità.

Come tutti sappiamo Fratel Carlo muore ucciso senza lasciare eredi e discepoli e attraverso quale strada la sua eredità diventa testimonianza vivente della sua famiglia? Attraverso una storia, attraverso uno scritto che è la Biografia di René Bazin “Charles de Foucauld, esploratore del Marocco, eremita nel Sahara”. La prende in mano padre Voillame, la prende in mano Piccola Sorella Magdeleine che riprende l’intuizione di Fratel Carlo, senza averlo conosciuto, con le Piccole Sorelle. Lei scrive: “Guardate la carta del mondo; è un’inezia quel che percorriamo, ma guardate nel mondo il numero degli infelici che ci chiamano: carcerati, deportati, straccivendoli, spazzini, gente nei dormitori pubblici, lavapiatti; accoglieteli nella preghiera perché siete in attesa di essere presenti in mezzo a loro.

Bisogna avere la pazienza e la finezza spirituale di cogliere questi percorsi di santità, studiare questa santità tra gli inutili; studiare questa santità inutile vuol dire conservare una memoria che ha un valore profondo, il valore di raccogliere queste gocce di vita e di sangue perché non vadano disperse. Il grande studioso Mircea Eliade diceva: “Noi moderni siamo destinati a risvegliarci alla vita dello Spirito mediante la cultura” e – riflettevo – siamo arrivati a Santa Teresina attraverso il suo Diario, attraverso un testo scritto.

Il valore di una cultura della santità, soprattutto vissuta nei luoghi dove è stata ignorata, è profondo perché la santità, anche quella che è piccola, nascosta, quasi scartata dalla vita, fa storia e fa storia in profondità.

 

Andrea Riccardi

Relatore