“Lumen Gentium”: attualità della costituzione dogmatica sulla Chiesa sessant’anni dopo
Intervento al Convegno “Il Concilio Vaticano II nel 60° anniversario della sua chiusura (1965-2025)”
Lumen Gentium (= LG) è una delle quattro «costituzioni» del corpus magisteriale del Concilio Vaticano II, insieme con Dei Verbum qualificata come «dogmatica». Essa fu approvata dai Padri conciliari il 21 novembre 1964 con 2151 voti favorevoli e 5 contrari. Nella medesima data la Costituzione fu promulgata, una cum patribus, dal Papa Paolo VI.
L’impianto della Costituzione e i suoi contenuti
Prima di addentrarci un po’ nel contenuto del testo potrebbe essere utile indicarne l’impianto logico. Ad un primo sguardo esso si presenta con una forma alquanto armonica, che procede alternando il polo comunitario della Chiesa e il suo polo personale; ossia il polo del «tutti» e quello dell’«alcuni».
Nella costituzione LG, il «tutti» nella Chiesa è trattato dal capitolo secondo sul popolo di Dio, dal capitolo quinto sull'universale vocazione alla santità e dal capitolo settimo sull’indole escatologica della Chiesa. La vocazione e missione di «alcuni» appare, invece, nel capitolo terzo dedicato alla sua costituzione gerarchica, nel capitolo quarto dedicato ai laici e nel capitolo sesto dedicato ai religiosi.
L’insieme è racchiuso in due capitoli: il primo, che è concentrato sul mistero del Christus totus («Nel mistero di Cristo e della Chiesa», dice il titolo di questo capitolo) e l’ultimo, ossia il capitolo ottavo, che è dedicato alla Beata Vergine Maria, in cui la Chiesa si rispecchia e si ritrova e a cui guarda come modello eccellentissimo nella fede e nella carità (cf. LG 53).
Quella proposta ha solo lo scopo di orientarci nei contenuti dei singoli capitoli, che ora sommariamente richiamo.
Il Capitolo primo (nn. 1-8) ci offre della Chiesa una visione svincolata da ogni quadro sociologico, ma riferita essenzialmente al mistero trinitario, per culminare nell’affermazione, tratta da san Cipriano, che «la Chiesa universale si presenta come “un popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (n. 4). I numeri successivi (5-7) illustrano alcuni passaggi di ecclesiologia biblica come le immagini della Chiesa e la sua indicazione come Corpo di Cristo. Mi soffermo un po’ sul n. 8, conclusivo del capitolo, dove il mistero della Chiesa è illustrato ricorrendo all’analogia con il mistero dell’Incarnazione. Qui si legge pure che l’unica Chiesa di Cristo «costituita e organizzata in questo mondo come società, sussiste nella (subsistit in) nella Chiesa cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai vescovi che sono in comunione con lui»: formula che apre al riconoscimento della presenza di molteplici valori ecclesiali anche nelle altre Chiese e comunità non cattoliche. Il capitolo si conclude con una tematica molto familiare all’epoca del Concilio e tornata in primo piano con il magistero di Papa Francesco: l’ecclesia pauperum. Si allude pure alla questione del peccato nella Chiesa: santa, che comprende peccatori nel proprio grembo ed è per questo bisognosa di purificazione.
Il capitolo secondo (nn. 9-17) è dedicato alla figura della Chiesa come popolo di Dio, pellegrino di un nuovo Esodo. Esso colloca la Chiesa nel movimento della storia della salvezza (cf. n. 9) e afferma l’identità intrinseca della comune condizione di tutti i battezzati, anteriormente ad ogni distinzione fra sacri ministri e altri fedeli e alla distinzione nei diversi stati di vita cristiana (cf. n. 10-12). Nella sua prima parte questo capitolo contiene la prima dichiarazione dottrinale ufficiale riguardante il sacerdozio comune dei fedeli (cf. n. 10) e un’importantissima ripresa dei temi del sensus fidei del popolo di Dio suscitato e sostenuto dallo Spirito e della dottrina dei carismi, effusi dal medesimo Spirito su tutti i fedeli (cf. n. 12). La seconda parte espone la dottrina sulla cattolicità interna ed esterna della Chiesa, ossia la sua «unità cattolica» e la sua missionarietà (cf. n. 13-17). Si tratta di temi che si trovano ripresi e ampliati nei decreti sull’ecumenismo, sulle religioni non cristiane e sull’attività missionaria della Chiesa.
Il capitolo terzo (nn. 18-29), dedicato alla struttura gerarchica della Chiesa, tratta quasi per intero dell’episcopato. Solo in fine esso tratta dei presbiteri (n. 28, poi ripreso e ampliato nel decreto Presbyterorum ordinis) e dei diaconi, con l’auspicio (poi realizzato per l’intervento motu proprio di Paolo VI) del ripristino del diaconato come grado proprio e permanente della gerarchia. Si tratta di uno dei capitoli più sofferti e dibattuti dell’intera costituzione; il suo contenuto, tuttavia, era fra i più attesi, vista la volontà di condurre a termine l’opera intrapresa dal Vaticano I e l’intento di collocarla in un più ampio quadro ecclesiologico. Su questo punto il testo della costituzione LG comprende una prima sezione, che tratta dell’origine storica e sacramentale dell’episcopato (n. 19-21); una seconda sezione, che si occupa del problema, molto vivacemente dibattuto, del collegio dei vescovi, del suo Capo e delle relazioni che v’intercorrono tra i vescovi (n. 22-23); una terza sezione, che tratta del ministero dei vescovi e del loro triplice ministero nella Chiesa, d’insegnare, santificare e governare (n. 24-27).
Il capitolo quarto (n. 30-38) è dedicato al ruolo attivo e responsabile dei fedeli laici nella Chiesa, alla loro partecipazione al sacerdozio di Cristo e alla sua funzione profetica e regale, alla loro azione tesa a impregnare di valori evangelici la cultura e le opere umane (n. 31-36). È la prima volta che un Concilio riserva specificamente ai fedeli laici una così ampia e approfondita esposizione. Il mio auspicio è che si riprenda a considera il compito e la missione dei fedeli laici nella prospettiva conciliare, ossia quella relativa all’indole secolare propria e specifica dei fedeli laici. A me pare (e quanto vorrei sbagliarmi!) che oggi molti fedeli laici amino avere un posto nel «presbiterio» di una chiesa, piuttosto che «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio» (n. 31).
Il capitolo quinto (nn. 39-42) tratta della vocazione alla santità nella Chiesa. Il capitolo s’introduce (n. 39) con un’affermazione sulla santità della Chiesa, da intendersi come dono trinitario e come compito al quale tutti sono chiamati a corrispondere e che si esprime in forme diverse. Tra queste c’è di sicuro la pratica dei «consigli evangelici», ma di recente Leone XIV ha ricordato alcuni altri spazi dove i cristiani devono rispondere e hanno risposto alla vocazione alla santità. Mi riferisco a una Omelia del 25 ottobre scorso dove ha richiamato gli spazi della politica (con il SdD Alcide De Gasperi), della magistratura (con il Beato Rosario Livatino) e delle forze armate (con il venerabile Salvo D’Acquisto).
Il capitolo sesto (nn. 43-47) tratta esplicitamente dei religiosi il cui stato di vita, costituito dalla professione dei consigli evangelici, «pur non riguardando la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene tuttavia indiscutibilmente alla sua vita e alla sua santità» (n. 44). È la prima volta che un Concilio dedica uno spazio rilevante a quella che oggi, includendo forme diverse, è chiamata «vita consacrata».
Il capitolo settimo (nn. 48-51) proviene da un primitivo progetto di schema sul culto dei santi e permette, così, di considerare la Chiesa nel suo insieme, compreso il suo coronamento finale. In tale quadro lo stesso culto dei santi ne acquista in profondità, sia dal punto di vista storico che dottrinale.
L’ottavo capitolo (nn. 52-69) è il testo più ampio che nella storia di tutti i concili sia stato dedicato alla Vergine. Il titolo, “la beata Vergine Maria, Madre di Dio, nel mistero di Cristo e della Chiesa”, riprendendo il termine «mistero» presente nel primo capitolo della Costituzione, mostra quale sia il terreno nel quale è collocata Maria, ossia l’unico mistero di Cristo e della Chiesa. Dopo aver esposto la funzione di Maria nella storia della salvezza (n. 55-60), il capitolo tratta del rapporto fra la Beata Vergine e la Chiesa, riassumendolo nel binomio «tipo» e «modello».
Lumen Gentium al centro dei documenti conciliari
Considerando con sguardo retrospettivo l’intero magistero del Vaticano II pare potersi dire che oggetto fondamentale dei suoi enunciati è proprio la realtà della Chiesa. Presentando l’edizione italiana di un volume di Leo Scheffczyk sull’ecclesiologia postconciliare, J. Ratzinger scriveva: «Il Concilio Vaticano II è stato indubbiamente un concilio “ecclesiologico”, nel senso che la direzione principale verso la quale si è concentrata l’attenzione dei Padri è quella dell’approfondimento del mistero della Chiesa e del suo rinnovamento».
All’interno di tale convinzione, riguardo ai sedici documenti conciliari emerge la centralità della costituzione Lumen Gentium. Il teologo italiano L. Sartori, osservò a suo tempo che, ponendo Lumen Gentium al centro dei testi conciliari, si potrebbe raffigurare un diagramma che visualizza due affluenti, da cui essa attinge, e quattro defluenti, che essa alimenta. Si tratta, quanto ai primi, delle fonti di cui vive la Chiesa, ossia la Parola di Dio [Dei Verbum] e la Sacra Liturgia [Sacrosanctum Concilium]; quanto ai secondi, della sua missionarietà [Ad Gentes], del dialogo ecumenico [Unitatis Redintegratio] e interreligioso [Nostra Aetate] e del dialogo col mondo contemporaneo [Gaudium et Spes]. Per gli altri documenti è facile vedere come gran parte di essi siano di fatto testi applicativi di capitoli interni di Lumen Gentium.
Oggi, la centralità della costituzione de Ecclesia necessita probabilmente di una «ricollocazione». Il teologo Ch. Theobald, ad esempio, rileva che la distanza – non solo cronologica, ma anche culturale – dall’evento e, non ultimi, i ricorrenti conflitti sulla sua interpretazione, ci riportano inevitabilmente verso l’unica domanda circa l’identità del Vaticano II. Da qui l’importanza di ritrovare in qualche modo il principio di unità del corpus conciliare. In tale prospettiva egli si sofferma in particolare sulla costituzione Dei Verbum. Per altro verso, un altro teologo, M. Faggioli, sottolineando il fatto che l’avvio ai lavori conciliari fu dato con la costituzione Sacrosanctum Concilium, in sua opera ha molto insistito al rapporto fra liturgia ed ecclesiologia; afferma, ad esempio, che la costituzione liturgica avrebbe anticipato l’evoluzione ecclesiologica di Lumen Gentium mostrandosi, fra l’altro, capace di superare «molte delle controversie sulla presunta contraddizione tra la “collegialità” dei vescovi a livello universale e la “Chiesa sinodale” a livello locale».
Ho indicato solo due esempi di approcci differenti al magistero conciliare, che hanno il pregio di sollecitarci nel continuare ad assumere e a fare propria la «svolta» del Vaticano II. È un Concilio che ha segnato indubbiamente una nuova «soglia» non soltanto per l’ecclesiologia, ma per la vita stessa della Chiesa. All’inizio del secolo passato, era il 1922, Romano Guardini presentì con gioia un «risveglio della Chiesa nelle anime». Il Concilio fu come uno squillo di tromba per quel risveglio. Per alto verso, parlando il 27 febbraio 2000 a un Convegno sull’attuazione del Vaticano II Giovanni Paolo II disse che «il Concilio Ecumenico Vaticano II è stato una vera profezia per la vita della Chiesa; continuerà ad esserlo per molti anni del terzo millennio appena iniziato».
Le immagini quasi contrapposto del risveglio e della profezia ci dicono che, in fin dei conti, il Concilio è ancora un cantiere aperto. H.J. Pottmeyer – un teologo tedesco che molti si è occupato del Vaticano II – fece una istruttiva analogia con la costruzione della nuova Basilica di San Pietro nel secolo sedicesimo. Disse che il nuovo edificio si innalzò avendo come fondamenta la basilica precedente. Dapprima furono innalzati i quattro pilastri, che rimasero incompleti fino a quando non si riuscì a trovare i fondi per portare a termine i lavori. Da qui l’autore sviluppò l’immagine guardando alla Chiesa di oggi: «Accanto all’antico edificio del centralismo romano dei secoli XIX e XX, si stagliano i quattro possenti pilastri di una Chiesa e di una ecclesiologia rinnovate […]; i quattro pilastri di una nuova Chiesa e di una nuova ecclesiologia attendono di essere incoronati dalla cupola di una Chiesa avente la forma di comunione».
Alcuni temi da approfondire
Non è una immagine negativa! Papa Francesco al n. 32 dell’esortazione Evangelii Gaudium ricordò che «il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale» riconoscendo che «un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria». Da Evangelii Gaudium, dunque, colgo, in conclusione, alcuni punti nodali, che mi pare sia doveroso approfondire. Ne indico solo tre.
a) Anzitutto una seria ripresa della nozione di popolo di Dio, che circostanze varie verificatesi proprio nel primo post concilio portarono sotto silenzio. In una intervista concessa nel 2013 al Direttore de «La Civiltà Cattolica» Papa Francesco disse che l’immagine di Chiesa da lui preferita è quella del «santo popolo fedele di Dio» e aggiunse: «Il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Sentire cum Ecclesia dunque per me è essere in questo popolo». La nozione di popolo di Dio non è affatto un rimando a un populismo ecclesiologico bensì una sottolineatura del carattere «storico» della Chiesa, il suo essere «pellegrina» verso il definitivo incontro con Cristo. È, a mio avviso, la vera premessa per tutto quanto oggi si dice attorno al tema della sinodalità: camminare insieme con Cristo, che ci tiene uniti verso il compimento.
b) altro punto messo in luce da Evangelii gaudium è la relazione primato petrino e collegialità episcopale. Penso al n. 32 dell’esortazione apostolica, dove il Papa quasi mette a confronto Lumen Gentium 23 e il motu proprio Apostolos suos di Giovanni Paolo II. In quest’ultimo documento del 21 maggio 1998 si afferma che le conferenze episcopali, per quanto animate da un affectus collegialis, non possono compiere atti strettamente collegiali. In breve, qui le conferenze episcopali sono intese quali strumenti di collaborazione fra i vescovi, ma non propriamente come organi magisteriali, o legislativi con autorità sui vescovi membri e sui loro fedeli. Anche questo è, a mio avviso, un cantiere aperto e sono grato a Papa Francesco che mi invitò a riflettere sull’argomento insieme con il Consiglio di Cardinali il 2 dicembre 2024. Fu l’ultima riunione di quel Consiglio, a motivo dell’infermità del Papa. Quel testo ora è pubblicato sul n. 1/2025 (anno LXXVIII) di «Urbaniana University Journal» pp, 115-150 con il titolo: Le Conferenze episcopali e la loro autorità. Alcune prospettive.
c) Da Evangelii Gaudium traggo un terzo punto da approfondire ed è quello relativo alla dottrina del sensus fidei. In Lumen Gentium il tema si trova al n. 12 dove si legge che «la totalità dei fedeli, la quale ha ricevuto l’unzione dello Spirito santo, non può sbagliarsi nel credere e manifesta questa proprietà che gli è peculiare mediante il senso soprannaturale della fede in tutto il popolo, quando, “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici”, esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di morale». Qui la proprietà del sensus fidei è inquadrata nella partecipazione del Popolo di Dio alla funzione profetica di Cristo e implica una correlazione tra sacerdozio comune dei fedeli e sacerdozio ministeriale. La si trova applicata in Dei Verbum 10 dove si afferma che «aderendo al sacro deposito della Parola di Dio affidato alla Chiesa, il popolo santo, unito ai suoi pastori, persevera costantemente nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nella frazione del pane e nelle preghiere, in modo che nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa, singularis fiat Antistitum et fidelium conspiratio». Di cosa si tratta? Più che a un generico, comune sentire di vescovi e fedeli, questa peculiare forma di consenso ecclesiale rimanda a ogni Chiesa particolare, «nella quale è presente e agisce la Chiesa di Cristo una, santa, cattolica e apostolica» (CD 11). Questo è, difatti, lo spazio dove si attua la circolarità tra la portio Populi Dei e i suoi legittimi pastori che, quali dottori autentici rivestiti dell’autorità di Cristo, predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita (cf. LG 25). Rimanderei, per questo, a una rilettura dell’esort. apost. di Pastores gregis di Giovanni Paolo II: ad es. al n. 44, dove si legge: «Vi è una sorta di circolarità tra quanto il Vescovo è chiamato a decidere con responsabilità personale per il bene della Chiesa affidata alla sua cura e l'apporto che i fedeli gli possono offrire attraverso gli organi consultivi, quali il sinodo diocesano, il consiglio presbiterale, il consiglio episcopale, il consiglio pastorale»; e il n. 62, dove si auspica una ripresa del Concili particolari dove «proprio per la partecipazione in essi anche di presbiteri, diaconi, religiosi, religiose e laici, sebbene solo con voto consultivo, è in modo immediato espressa non soltanto la comunione tra i Vescovi, ma anche la comunione tra le Chiese … Il posto dei Concili particolari, perciò, non può essere preso dalle Conferenze episcopali …, [le quali, invece,] possono essere un valido strumento per la preparazione dei Concili plenari».
Penso che questi punti meritino, oggi, di essere ulteriormente approfonditi e praticati. Lo dico specialmente in rapporto a un tema – quello appena citato della “sinodalità” – che in questi anni ha assunto una particolare e non sempre corretta «loquacità»!
Roma, Parrocchia SS. Redentore, 3 dicembre 2025
Marcello Card. Semeraro