Omelia nella Messa di ringraziamento per la nuova missione

OMELIA NELLA MESSA DI RINGRAZIAMENTO PER LA NUOVA MISSIONE

(Basilica Cattedrale di Albano, 8 dicembre 2020, festa dell'Immacolata Concezione)

 

Non avere paura

1. «La pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie» (Col 3,16). Con queste parole di san Paolo m’introduco nella riflessione in questa Liturgia solenne e sulla parola di Dio che abbiamo appena ascoltato. Accogliamo subito, però, l’esortazione dell’Apostolo a essere persone che ringraziano e questo perché tutti noi, riuniti nel suo corpo che è la Chiesa, siamo stati ricolmati dalla pace di Cristo. Questo fa di noi un’eucaristia, ossia ci permette di acquisire uno stile di vita eucaristico; di avere – come dice il Papa – una «cultura eucaristica» che «spinge a trasformare in gesti e atteggiamenti di vita la grazia di Cristo che sì è donato totalmente». Quali sono? La comunione col Signore Gesù e tra noi, il servizio dei poveri e la misericordia (cf. Discorso del 10 novembre 2018).

Ringrazio di vero cuore per questo momento comunitario di preghiera e di lode. Ringrazio il Vicario generale per le parole che mi ha rivolto e con lui il presbiterio diocesano. Una Chiesa particolare non è mai affidata solamente alla cura del Vescovo, ma sempre a quella del Vescovo coadiuvato dal suo Presbiterio (cf. Christus Dominus, n. 11). Il dono che mi avete fatto, carissimi presbiteri, mi ricorda gli inizi del mio cammino con voi, il 27 novembre 2004 quando, prima di giungere in questa Cattedrale, sostai nelle Catacombe di san Senatore e vidi per la prima volta l’affresco del Pantocrator riprodotto nel vostro dono. Ve ne ringrazio di cuore.

Ringrazio sinceramente i Sigg. Sindaci delle nostre Città. Grazie per la cortesia di avere accettato l’invito a stare insieme questa sera. Ci unisce il servizio alla gente di questo territorio bello, ricco e complesso. Se già il vostro servizio è impegnativo, in questi mesi di pandemia è divenuto certamente più gravoso. Sappiate della mia cordiale simpatia, mentre vi assicuro la mia preghiera perché non vi manchi l’aiuto del Signore.

Con voi saluto le altre Autorità civili, militari e di polizia presenti. Un saluto lo rivolgo anche al Sig. Direttore delle Ville Pontificie, presente con la sua Signora. Ricordo queste parole scritte da san Paolo VI nel suo testamento: «sento che la Chiesa mi circonda»! Le Ville Pontificie sono un piccolo territorio vaticano, circondato dalle Città della nostra Diocesi: sia questo dato geografico un’espressione del nostro amore per il Papa e per la Chiesa.

Viviamo il nostro incontro durante una festa mariana molto cara alla nostra gente: la solennità dell’Immacolata Concezione. Il 28 novembre scorso durante l’intero rito del Concistoro dal mio posto presso l’altare della Cattedra nella Basilica di San Pietro potevo leggere chiaramente, perché collocata di fronte a me, l’epigrafe commemorativa della proclamazione di questo dogma. Guardavo e pregavo Maria. Oggi insieme con tutti voi magnifico il Signore con l’anima di Maria ed esulto in Dio con lo spirito di Maria (cf. S. Ambrogio, Exp. ev. sec. Lc, II, 26).

2. Qualcuno mi ha chiesto come, al di là dei fatti esteriori, abbia vissuto quanto mi è accaduto nelle ultime settimane. Ad aiutarmi è stato il Papa, che nella sua lettera del 26 ottobre scorso paternamente mi ha scritto: «Voglio farti arrivare queste righe di vicinanza nel giorno in cui sei stato designato Cardinale della Santa Chiesa di Roma. Desidero che questa vocazione, alla quale il Signore ti chiama, ti faccia crescere in umiltà e in spirito di servizio». Leggendo queste parole di Francesco risentivo interiormente queste altre di sant’Agostino: «Vuoi essere alto? Comincia dal più basso. Se pensi di costruire l'edificio alto della santità, prepara prima il fondamento dell’umiltà» (Serm. 69, 1.2).

Oggi, poi, le stesse parole del Papa le rimedito nel contesto della confessione di Maria: «Ecco la serva del Signore»! (Lc 1,38). Quale grande professione di umiltà! Maria lascia fare a Dio – come usavano dire i nostri anziani. La sua dichiarazione è, al tempo stesso, un lasciarsi fare da Dio ed è in questa piena disponibilità che Maria «si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda» (Lc 1,39): per raggiungere la casa di Zaccaria dove incontrare Elisabetta; dove percepire l’esultanza delle vite ancora custodite nel grembo materno; dove cantare la misericordia del Signore che si estende per tutte le generazioni.

Il Papa mi ha scritto ancora: «basta la grazia di essere eletto per servire» ed io continuo a riflettere su questa frase. Non è forse questa la missione di un vescovo? Non è la missione che in questi anni ho cercato di vivere con semplicità stando con voi, in mezzo a voi? Questa missione – lo so bene – da un po’ di giorni sta assumendo per me forme nuove. La disposizione fondamentale, però, è sempre quella dell’amore alla Chiesa. Un amore cresciuto nel tempo e maturato specialmente negli anni della mia docenza. Insegnavo, sì, ma per me fu una scuola d’amore alla Chiesa sicché quando, nel 1997 raccolsi in un libro le mie lezioni di ecclesiologia, iniziai così: «Chiesa: una parola che, sulle labbra di un cristiano, risuona vibrante di quella stessa emozione, che porta con sé la pronuncia di un nome caro. È il nome della Madre, della santa madre Chiesa. Ciascuno può ripetere per sé le parole di H. De Lubac: “La Chiesa è mia madre: è mia madre perché mi ha generato alla vita, perché non cessa di alimentarmi e, per poco che io corrisponda, di approfondirmi nella vita. E, se in me la vita è ancora fragile e tremante, la contemplo però fuori di me nella forza e nella purezza del suo zampillare”. Un linguaggio così partecipato suppone, evidentemente, una ben precisa coscienza della Chiesa; un modo d’intenderla, cioè, quale depositaria e titolare di una vita misteriosa e divina, che soltanto la fede può conoscere» (Mistero, comunione e missione, Bologna 2017, 7).

Oggi, carissimi, confermo davanti a voi questo atto di amore; un amore che adesso attinge anche dalla dignità cardinalizia, cui benevolmente il Papa mi ha chiamato. Egli, a me come a ciascuno dei nuovi cardinali, lo scorso sabato 28 novembre ha detto: «Ricevi l’anello dalla mano di Pietro. Sappi che con l’amore del Principe degli Apostoli si rafforza il tuo amore verso la Chiesa». Lo stretto vincolo col Papa e la diretta collaborazione alla sua sollecitudine per tutta la Chiesa sono adesso ulteriore motivo per una mia più generosa e vigorosa dedizione. Perché rimanga fedele a questo proposito, vi domando l’aiuto della preghiera, mentre mi affido a Santa Maria, virgo fidelis.

3. Insieme col suo aiuto, voglio invocare quello di san Giuseppe. Proprio oggi, peraltro, ricorre il 150 anniversario della sua proclamazione a patrono della Chiesa universale e il Papa ha voluto ricordacelo consegnandoci la lettera apostolica Patris corde. «Con cuore di padre: così Giuseppe ha amato Gesù». Al tempo stesso ha stabilito che da oggi sino all’8 dicembre dell’anno prossimo sia celebrato uno speciale «Anno di san Giuseppe». È allora bello che anche noi, questa sera, associamo alla figura di Maria quella del suo Sposo. «Uomo giusto», lo chiama il vangelo (cf. Mt 1,19), ossia sempre e in tutto disponibile a compiere la volontà di Dio. Noi, però, abitualmente lo invochiamo quale “sposo castissimo” della Vergine. Non si tratta, ci spiega Francesco, di un’indicazione meramente affettiva, ma della sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. Castità, difatti, è libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita! «La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù» (Patris corde, n. 7).

È a tutti ben nota la personale devozione del Papa per san Giuseppe. Quand’era arcivescovo a Buenos Aires commentando originalmente la pagina del vangelo, che è stata proclamata questa sera disse: «Mentre lo Spirito Santo compie l’Incarnazione nell’intimo di Maria (che è pura disponibilità, puro lasciar fare ciò che Dio vuole), il Padre – rappresentato da quell’Angelo del Signore – predispone ogni aspetto esteriore con san Giuseppe (che è pura obbedienza, è alzarsi subito e fare quanto richiesto)» (Omelia del 18 dicembre 1999, in Nei tuoi occhi è la mia parola, Milano 2016, 351).

In un’altra circostanza disse qualcosa che voglio adesso ripetere, almeno perché la mia ultima proposta pastorale alla Chiesa di Albano è condensata nell’espressione per una pastorale di cura (cf. la lettera pastorale Non alia charitas del 27 settembre 2020). Mentre il mio ministero episcopale tra voi si avvia verso la conclusione, voglio rafforzare questa consegna con quanto Bergoglio disse nell’omelia della Messa crismale del 2005: domandiamo a san Giuseppe «di farci entrare in modo attivo e contemplativo nell’oggi di Gesù, il figlio adottivo che ha contribuito ad allevare. San Giuseppe ha ricevuto la grazia di entrare per primo in quell’oggi di Gesù che era già entrato in Maria, e di vedere crescere il Bambino in statura, in sapienza e in grazia. San Giuseppe è esperto nel prendersi cura con coraggio di quelle fragilità – quella di Maria, quella del Bambino – che finiscono per dare forza alla propria» (in Nei tuoi occhi è la mia parola cit., 351).

È una bella esegesi del titolo di fidelis custos, ossia di «custode premuroso», che la Liturgia Romana riserva a san Giuseppe (cf. Colletta della Messa del 19 marzo)!

4. Prendersi cura delle fragilità del prossimo aiuta a guarire dalle proprie fragilità! A me pare che questa intuizione di Bergoglio sia davvero preziosa. Forse ha qualcosa in comune con quanto oggi, a partire da alcuni scritti di N. N. Taleb, è chiamato antifragile. La consapevolezza della nostra fragilità e della nostra vulnerabilità, in ogni caso, non può essere una ragione per piangerci addosso, per ripiegarci su noi stessi, per recriminare… Al contrario, per abitare umanamente la nostra e le altrui fragilità, è necessario aprirsi ad un’etica della cura, che si traduce necessariamente in etica della responsabilità; etica, cioè, dove la premura per se stessi si coniuga sempre col rispetto e la sollecitudine per l’altro.

Queste riflessioni, miei carissimi, ci portano quasi spontaneamente a considerare le gravi difficoltà che, a motivo della perdurante pandemia, stiamo vivendo a tutti i livelli: personali e sociali, spirituali, relazionali e affettivi, politici ed economici. Da una recente indagine Censis emerge il volto di una società – la nostra – impaurita, spaventata, dolente e indecisa tra risentimento e speranza (cf. Avvenire del 5 dicembre 2020, 5). Ma cos’è la paura se non «il nome che diamo alla nostra incertezza: alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare – che possiamo o non possiamo fare – per arrestarne il cammino o, se questo non è in nostro potere, almeno per affrontarla» (Z. Bauman, Paura liquida, Roma-Bari 2006, 4)?

Se questo è vero, ritengo che gli esiti possibili della paura siano fondamentalmente due. Uno è il rinchiudersi, ossessionati dal timore di un male oscuro pronto ad aggredirci, nel sospetto e nel risentimento verso l’altro e anche nella tristezza, nella depressione, nell’incapacità di discernere il vero, il buono e il bello. Questo esito, tuttavia, sarebbe estremamente pericoloso per molti aspetti, anche quello sociale e politico, perché la paura diventa facilmente terreno fecondo per meccanismi distorti di controllo sociale e anche di manipolazione delle masse.

Paradossalmente, l’altro possibile esito della paura è l’apertura, lo svelamento di spazi impensati e inediti dove abitano la fiducia, di solidarietà, la carità. Non è quello che abbiamo sperimentato e andiamo sperimentando in questi mesi di pandemia? Quanta gente si è avvicinata a noi e si è pian piano inserita nella vita delle nostre comunità parrocchiali non per le nostre dotte argomentazioni e neppure per i nostri riti sacri, ma per l’esercizio della nostra carità? Ancora l’altro giorno un nostro parroco si è sentito dire da un giovane: «Senti “don”, io non sono battezzato ma vi vedo e mi piacerebbe fare come fate voi. Pensi che all’età mia sia possibile battezzarmi?».

Penso sia proprio vero che «la paura si vince decidendosi per qualcosa che vale, il desiderio di una vita piena, degna di essere vissuta: essa può essere placata solo come risposta dell’unica voce capace di rassicurare il cuore». A ciò noi cristiani possiamo e dobbiamo aggiungere la convinzione che «solo un cammino religioso e spirituale è in grado di rassicurare il nostro cuore pauroso, perché ricorda che la storia, la vita di ciascuno non è preda del caos, o del prepotente di turno, ma si trova saldamente nelle mani di Dio, che ci invita a riporre la nostra fiducia in Lui, e dunque a non temere» (G. Cucci, La forza della debolezza, Roma 2018, 330).

5. Concludo  con le parole di un vescovo della mia terra natale, il Salento; essendo, poi, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi mi piace aggiungere che si tratta di un Servo di Dio: il vescovo Tonino Bello. In molti, forse, lo conoscete. Concludendo in Otranto l’omelia per la festa degli Ottocento Martiri (… sarebbe morto otto mesi dopo) egli auspicò l’avvento di tempi migliori e, prendendo spunto da una frase di Martin Luther King, disse: «Chissà quanta gente ha paura non soltanto del domani, ma anche dell’oggi: paura della malattia, paura della miseria, paura del lavoro che non si trova, paura per i figli, paura dei pericoli. Quante paure! … Non abbiate paura! Se la paura bussa alla tua porta, manda ad aprire la tua fede, la tua speranza, la tua carità, ti accorgerai che fuori non c’è nessuno» (Omelia del 14 agosto 1992 ne L’Eco Idruntina LXXIII, sett. ott. 1992, 484). Fuori non c’è nessuno…

Nelle presenti contingenze queste parole possono confortarci. Oggi, però, abbiamo ascoltato una parola ben più autorevole ed è quella che l’Angelo del Signore rivolse alla Vergine, quando le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio» (Lc 1,20). Sono parole che valgono anche per noi ed è l’Apostolo a rassicurarcene quando dice che Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo e ci ha predestinati ad essere per lui figli adottivi (cf. Ef 1,3-12). Anche a noi, dunque, se ci apriamo alla grazia, è dato di essere «santi e immacolati».

Non c’è soltanto la paura a bussare al nostro cuore ma, come ci ha detto oggi il Papa introducendo la preghiera dell’Angelus, anche «il Signore bussa alla nostra porta, bussa al nostro cuore per entrare con noi in amicizia, in comunione, per darci salvezza».

Non dobbiamo, dunque, avere paura.