Con la gratitudine trasmettiamo speranza
Omelia nella Solennità dell'Ascensione del Signore - Giornata del Ringraziamento
Permettete che dica subito il mio ringraziamento al carissimo fratello Adrian Józef Galbas, arcivescovo metropolita di questa Chiesa di Varsavia, che mi ha invitato a presiedere questa liturgia. Insieme con lui abbraccio l’arcivescovo emerito, cardinale Kazimierz Nycz, con il quale ho vissuto il mese scorso delle giornate molto intense: per la morte di Papa Francesco, prima e poi per la elezione del nuovo Papa. In quei giorni egli mi ha fraternamente ricordato questo appuntamento ed io gli ho risposto che sarei volentieri venuto. A Leone XIV vada, allora, il nostro pensiero con la preghiera: per tutti noi “sia principio e fondamento visibile dell’unità nella fede e della comunione nella carità” (dalla Liturgia).
Eccomi, dunque, qui con voi tutti per lodare insieme il Signore e chiedergli che “trasformi la nostra vita in perenne rendimento di grazie” (dalla Liturgia). Ringraziare! Ricorderete di sicuro che dire grazie è una parola tante volte raccomandata da Papa Francesco. Una volta disse che per un credente la gratitudine “è nel cuore stesso della fede: un cristiano che non sa ringraziare è uno che ha dimenticato la lingua di Dio” (Catechesi del 13 maggio 2015).
Vi confido che con emozione sono tornato a Varsavia e in questo Tempio della Divina Provvidenza. Vi giunsi per la prima volta circa quattro anni or sono per presiedere, a nome del Santo Padre, il rito per la beatificazione del Cardinale Stefan Wyszyński e di Madre Elżbieta Róża Czacka. Appresi, in quella circostanza, il significato e il valore che ha per tutti voi questo Santuario, dove rileggete e ritrovate la vostra lunga storia, religiosa e civile, e ripensate alle figure che in vario modo hanno contribuito a renderla nobile e bella. Fra queste, oggi ricordiamo in particolare la beata Maria Teresa Ledóchowska e il beato Ignazio Kłopotowski le cui reliquie sono state portate in questo Santuario.
La prima nacque il 29 aprile 1863 da nobile famiglia di origini polacche e scelse di spendere la sua vita a favore degli africani oppressi dalla schiavitù. Fondò per questo l’Istituto delle Suore Missionarie di San Pietro Claver con lo scopo di sostenere il lavoro apostolico dei missionari in Africa attraverso la preghiera, le elemosine, gli scritti religiosi e altri aiuti necessari. San Paolo VI, che la beatificò il 19 ottobre 1975, disse di lei che “nello spirito del Vangelo e della carità cristiana, fu un’eccezionale pioniera della moderna richiesta di alfabetizzazione”.
L’altro beato, Ignacy Kłopotowski, nacque il 20 luglio 1866 a Korzeniówka. Già da giovane sacerdote, osservando le povere condizioni di vita di tanti compatrioti, iniziò a fondare delle istituzioni caritative. Al fine, poi, di fornire assistenza spirituale ai più poveri e bisognosi, fondò la Congregazione delle Suore Loretane. Ma non fu solo apostolo della carità: convinto che la parola stampata è come un prolungamento dell’omelia domenicale e che la stampa cattolica fa il lavoro di un missionario, sviluppò anche una intensa attività editoriale. Fu beatificato qui a Varsavia 19 giugno 2005.
Questi due beati ci aiutano a riflettere sul tema della virtù teologale della speranza, opportunamente scelta come tema per questa annuale Giornata di ringraziamento mentre siamo nel vivo di un anno giubilare. Gratitudine e speranza: sono due parole che stanno molto bene insieme. In una sua catechesi Papa Francesco disse: “Se siamo portatori di gratitudine, anche il mondo diventa migliore, magari anche solo di poco, ma è ciò che basta per trasmettergli un po’ di speranza. Il mondo ha bisogno di speranza e con la gratitudine, con questo atteggiamento di dire grazie, noi trasmettiamo un po’ di speranza” (Catechesi del 30 dicembre 2020).
A proposito di speranza, dunque, mi torna alla memoria quanto dice il Concilio Vaticano II, ossia che “l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo della umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione, che adombra il mondo nuovo” (Gaudium et Spes, n. 39). Vuol dire che la speranza cristiana non ci chiede di sederci in una “sala di attesa” e aspettare l’arrivo del treno, o di altro. La speranza è tensione, movimento, cammino: siamo, per questo, pellegrini di speranza, come ci ricorda il motto del Giubileo che stiamo celebrando in questo 2025. In tal senso possiamo interpretare il passo del libro degli Atti degli Apostoli, che è stato proclamato: “stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?»” (At 24,10-11). Intendo dire che la speranza cristiana non consiste nello stare a “guardare il cielo”, ma significa essere pellegrini di speranza. Gesù, oltretutto, è sì andato al cielo, ma non ha lasciato la terra. È solo uscito dal nostro campo visivo. Egli è con noi “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 8,20).
Anche la Parola di Dio che abbiamo ascoltato dalla Lettera agli Ebrei ci chiede di conservare “senza vacillare la professione della nostra speranza” (10,23). Sant’Agostino spiega così questa esortazione: “incoraggiamoci a vicenda stimolandoci alla carità e alle opere buone” (De Script. Sacra Speculum, 403: PL 34, 1027). Io sono convinto, fratelli e sorelle carissimi, che quella “nuova evangelizzazione” tanto cara a san Giovanni Paolo II esige, oggi più di ieri, il compimento di queste “opere buone”. A conferma di ciò, penso a quanto egli diceva l’11 ottobre 1985 parlando VI Simposio del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa: “una categoria fondamentale dell’annuncio evangelico che merita attenzione è la testimonianza, collegata col segno. Senza la testimonianza e senza la conferma del segno, l’annuncio rischia sempre di rimanere lettera morta”.
È così, con le opere e con le parole, che noi vogliamo mantenere senza vacillare la professione della nostra speranza. Come Gesù, il quale – lo abbiamo sentito dalle prime parole del libro degli Atti – “fece e insegnò” (1,1). Prima l’azione, poi la parola. Questa è pure l’indicazione che ci viene dai santi. Penso a san Francesco d’Assisi che nella Regola non bollata dava questa norma: “I frati che vanno tra gli infedeli possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano …” (FF 43). Anche qui: Prima l’azione (anzi la testimonianza con il buon esempio), poi la parola. Aggiungo ciò che in forma simpatica diceva un monaco certosino contemporaneo di san Francesco: “Gesù non era zoppo, ma camminava con entrambi i piedi, cioè con il piede delle opere e con quello delle parole. Con le opere ci dava l’esempio e con le parole ce lo spiegava” (cf. Adamo il Certosino, De ordine, habitu …, IV, 11: PL 198, 476).
Ascendendo al cielo per sedersi alla destra del Padre Gesù ci ha detto la sua volontà: predicare nel suo nome in tutto il mondo la conversione e il perdono dei peccati (cf. Lc 24,47). Come ci andremo, nel mondo? Camminando come ha fatto Lui durante la sua vita terrena: facendo e insegnando; ossia, non zoppicando, ma con ambedue i piedi: quello della testimonianza data con le opere e quello dell’annuncio fatto con la predicazione. È così che oggi noi dobbiamo rispondere alla missione affidataci da Gesù.
Mi torna alla memoria l’immagine di Maria la quale, dopo avere ricevuto l’annuncio dell’angelo e avere dato il suo assenso, non si mise subito a dichiarare la sua gratitudine al Signore e a cantare la sua gioia. Al contrario, come ci racconta il vangelo, “si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda” per fermarsi nella casa di Zaccaria e di Elisabetta. Commentando questa scena, il 5 febbraio scorso Papa Francesco disse: «Dopo lo stupore e la meraviglia per quanto le è stato annunciato dall’Angelo, Maria si alza e si mette in viaggio ... Questa giovane figlia d’Israele non sceglie di proteggersi dal mondo, non teme i pericoli e i giudizi altrui, ma va incontro agli altri». Solo dopo avere vissuto l’incontro Maria canterà il suo Magnificat. Proprio il suo esempio, allora, ci aiuta a imitare Gesù, “che fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo” (At 1,1-2). Amen.
Varsavia, Santuario della Divina Provvidenza, 1° giugno 2025
Marcello Card. Semeraro