Amare Dio a fatti e non a parole
Omelia nella Messa alle Suore Missionarie dell’Incarnazione per l’inizio del loro 6° Capitolo Generale
È significativo e bello, care sorelle, che, disponendovi a dare inizio al vostro VI Capitolo generale, abbiate scelto di celebrare questa Santa Messa presso la tomba dell’Apostolo Pietro. A lui, che aveva appena confessato la sua fede, Gesù disse: «Su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18). Alla luce di questa parola sant’Agostino diceva che la Chiesa «è in quelli che edificano sulla pietra, che ascoltano, cioè, le parole di Cristo e le mettono in pratica». Al contrario, la Chiesa «non è in coloro che edificano sulla sabbia; in coloro, cioè, che ascoltano le parole di Cristo e non le mettono in pratica» (Epist. ad Cath., 60: PL 43, 436). Ed è esattamente quello che oggi noi abbiamo udito dalla proclamazione del vangelo: vera saggezza è costruire la propria casa sulla roccia (cf. Mt 7,24). Ritrovarvi, allora, in questo luogo cristiano è un segno: di voler essere nella Chiesa e di voler esservi in forma viva e operante, totalmente affidate alla sua maternità – la santa madre Chiesa – e totalmente dedite al suo servizio.
Sulla «roccia» dove è poggiata la Chiesa deve esserlo anche la vostra famiglia religiosa. A che servirebbe, infatti, celebrare un Capitolo generale se non a radicarsi sempre più e sempre meglio nella Chiesa? C’è una espressione che in passato è stata molto usata per parlare della famiglia cristiana: ispirandosi a Lumen gentium n. 11 la si chiamava piccola chiesa. È un’espressione che può essere ripetuta anche per la vostra – per ogni – famiglia religiosa e questo comporta pure ritrovare in essa quelle che sono le classiche proprietà della Chiesa, che professiamo nel Credo.
L’unità: abbia il vostro Capitolo come primo scopo quello di rafforzare fra voi l’unità. Nel preparare per questa occasione uno slogan voi avete fatto ricorso all’espressione «comunità sinodale»: ma cosa significa? Da un po’ di tempo mi assale il forte dubbio che questo aggettivo (e peggio ancora l’astrazione «sinodalità») siano diventate una moda, un raccoglitore in cui si vuole mettere di tutto per poi non mettere nulla. È stato spesso tradotta, la sinodalità, come un «camminare insieme», ma questo è solo un elementare mettere insieme i due termini (un prefisso e un sostantivo: con/via) che compongono la parola greca synodos. Nel suo uso linguistico, invece, e questo fin dal principio anche nella Chiesa, la parola sinodo ha sempre avuto il significato di incontro. Si può camminare insieme per kilometri e kilometri e non incontrarsi mai. Quante volte ci è accaduto di stare in viaggio con altri, ma si parla di qualunque cosa, magari pure si chiacchera, ma non si dialoga. Il cammino e il movimento che invece è richiesto dall’incontro è, anzitutto, interiore. Animum debes mutare, non caelum, «è il tuo animo che deve cambiare, non la costellazione del cielo», scriveva a un amico un grande autore latino (cf. Seneca, Ad Lucilium epist., III, 28) Nel cammino esterno cambiano i panorami; nel cammino interiore cambio io!
L’altra proprietà della Chiesa è la santità. Essa rimane una astrazione se poi non si traduce in persone sante. E per diventare santi la pagina del vangelo suggerisce una regola aurea: non accontentarsi di parole, ma compiere fatti. Significa gettarsi in quel mare che – come si esprime un detto famoso – c’è fra il dire e il fare. Il proverbio intende sottolineare la fatica di questo passaggio. Noi, però, ripensiamo alla figura di san Pietro il quale, come racconta Gv 21,7, «appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare». Ecco cosa fa chi ama Gesù. Passa dal dire al fare. Abbiamo ascoltato: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli».
Mi fermo qui, ma è ovvio che quanto ho appena richiamato per il vostro Istituto deve senz’altro valere per ciascuna di voi. Unità deve essere pure personale unità di vita; santità dev’essere impegno quotidiano di «incarnare» Cristo nella vita di ciascuno sino a poter dire come san Paolo: «Non sono più io che vivo; vive in me Cristo» (Gal 2,20).
Chiudo, allora, con alcune espressioni che, presenti verso la fine di una lettera scritta dalla vostra Fondatrice, la Serva di Dio madre Carla Borgheri, il 12 dicembre 1989, ci riportano alla pagina del Vangelo che abbiamo ascoltato insieme. Leggo: «Una sola sia la preoccupazione della Missionaria: amare Lui con tutta se stessa! Amarlo a fatti e non a parole, donando tutto ciò che siamo, bene e male: Il bene che Egli trasformerà in sorgente di grazia e di salvezza, il male, perché Egli lo consumi e lo annienti nella fornace del suo amore».
Grotte Vaticane - Tomba dell’Apostolo, 26 giugno 2025
Marcello Card. Semeraro