Omelia, in italiano e spagnolo, nella beatificazione dei martiri della Chiesa di Jaén

 

I martiri ci testimoniano la grande speranza

Omelia nella beatificazione dei martiri della Chiesa di Jaén

Ancora un rito per la beatificazione di martiri, qui nella terra di Spagna e, oggi, in questa Chiesa di Jaén che il suo Vescovo, carissimi fratelli e amici, non trascura di chiamare «culla di martiri» e «terra abbondantemente irrigata dal sangue dei martiri». Ho letto con attenzione la lettera pastorale con la quale egli ha inteso preparare questo momento di grazia, sottolineando la provvidenziale coincidenza con un anno giubilare dedicato alla virtù della Speranza; un anno che incoraggia tutti noi a essere testimoni di Speranza. Ai tanti martiri che dai suoi inizi sino a epoca più recente sono stati, in questa Chiesa, «seme di cristiani» (Tertulliano, Apologeticus, 50: PL 1, 535), ora si aggiunge una nuova lunga schiera. La storia al tempo stesso dolorosa e luminosa di questa vicenda, anch’essa collocata nelle vicende della guerra civile del secolo passato, è stata rievocata ed io desidero sottolineare quello che il vescovo ha scritto: «umanamente parlando non sono stati eroi, né combattenti per una ideologia e neppure dei caduti in una guerra per interessi terreni... La loro unica arma è stata l’amore. Morirono perdonando ai loro carnefici ... Questo perdono martiriale è il frutto più sublime della speranza che non si arrende al male».

Questa fondamentale riflessione, carissimi, desidero avvalorarla con quanto è stato insegnato da Benedetto XVI nella sua lettera enciclica Spe salvi (cf. n. 39). Tra quindici giorni ricorderemo i tre anni dal suo passaggio nella casa del Padre sicché il ricordare il suo magistero può essere un atto di gratitudine per quanto ha donato alla Chiesa. In quel documento egli avverte che nella nostra vita ci sono tante situazioni per le quali possono bastarci anche delle speranze umane, delle piccole speranze. Ve ne sono altre, però, in cui abbiamo bisogno di qualcosa di più solido, di più consistente, di più valido. Si tratta di circostanze in cui c’è bisogno di una «grande speranza»; sono momenti nei quali abbiamo bisogno di amici, di fratelli e sorelle che con la loro testimonianza ci aiutano a capire che è possibile andare avanti, che possiamo farcela. Sono momenti in cui «abbiamo bisogno di testimoni, di martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da loro dimostrare – giorno dopo giorno. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianità, il bene alla comodità – sapendo che proprio così viviamo veramente la vita».

Da dove nasce questa forza interiore? La risposta del Papa era che alla sua origine non c’è lo sforzo volontaristico, ma la speranza ed enunciava un principio, su cui è bene molto riflettere: ossia che «la capacità di soffrire per amore della verità è misura di umanità». Con questa frase Benedetto XVI non sta per nulla esaltando il dolore in sé; non sta affatto parlando di una sofferenza fine a se stessa, ma sta facendo rimando a una forza che nasce dalla speranza e dall’amore per tutto ciò che è vero, che è giusto, che è santo. Si tratta, in breve, della disponibilità a mettersi in gioco per qualcosa di più grande e questo non mi pare sia inutile sottolinearlo in un contesto culturale nel quale – lo dico con le parole di Romano Guardini, ossia di un grande teologo di cui la Chiesa esamina l’esercizio delle virtù in vista di una possibile beatificazione – va crescendo la fuga da sé e con essa diventano sempre più semplici i modi di togliersi la vita e lo stesso suicidio si fa sempre più facile e banale (cf. Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1992, p. 15). A distanza di molti anni (l’opera apparve per la prima volta nel 1960) il Papa Leone XIV ripete: «c’è nel mondo una malattia diffusa: la mancanza di fiducia nella vita» e torna a sottolineare che vivere invoca un senso, una direzione, una speranza, perché «senza la speranza la vita rischia di apparire come una parentesi tra due notti eterne, una breve pausa tra il prima e il dopo del nostro passaggio sulla terra» (cf. Udienza generale del 26 novembre 2025.

Riflessioni di questo tipo ci pongono la domanda: in definitiva, dov’è il vero coraggio? Considerando la testimonianza dei martiri oggi beatificati penso che la risposta giusta sia ancora quella lasciataci da Benedetto XVI: «Soffrire con l’altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell’amore e per diventare una persona che ama veramente – questi sono elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali distruggerebbe l’uomo stesso … Alla fede cristiana, nella storia dell’umanità, spetta proprio questo merito di aver suscitato nell’uomo in maniera nuova e a una profondità nuova la capacità di tali modi di soffrire che sono decisivi per la sua umanità».

In questa luce i martiri oggi beatificati sono certo un modello di cristianesimo. Il martirio è la testimonianza più alta della fede cristiana, perché incarna l’amore totale per Cristo e per i fratelli, trasformando la sofferenza in redenzione e il sangue in seme di evangelizzazione. Questo è, sì, possibile narrarlo, ma sia davanti alla crudeltà umana, sia davanti alla forza interiore di un martire talvolta le parole non sono più sufficienti. Fu una volta l’esperienza di sant’Ambrogio il quale a proposito di sant’Agnese avrebbe esclamato: Appellabo martyrem, predicavi satis, «ho detto martire, ho detto tutto»! Solo ora, forse, noi stiamo tornando a percepire l’enormità della parola «martire». Per molto tempo nella Chiesa se n’è perduto il valore, poiché l’epoca dei martiri era stata relegata e ritenuta conclusa nei suoi primi quattro secoli. Poi si smarrì addirittura il senso della parola ed è così che «martiri» divennero oramai gli asceti e i monaci, quelli che fuggivano dal mondo. Si diceva che era finito il tempo del «martirio rosso» ed era subentrato quello del «martirio bianco», che si raggiunge mediante la lotta continua contro il male che dall’interno ci insidia con le nostre passioni.

Oggi siamo in una nuova fase. «Io vi dico – disse una volta Papa Francesco – che oggi ci sono più martiri che nei primi tempi della Chiesa. Tanti fratelli e sorelle nostre che offrono la loro testimonianza di Gesù e sono perseguitati. Sono condannati perché posseggono una Bibbia. Non possono portare il segno della croce. E questa è la strada di Gesù […] La vita cristiana non è un vantaggio commerciale, non è un fare carriera: è semplicemente seguire Gesù» (Omelia in Santa Marta del 4 marzo 2014). È storia vissuta in questa Chiesa diocesana, nella Chiesa di Spagna e in tante altre Chiese. Oggi stesso, a Parigi, si sta celebrando un rito come il nostro in cui sono beatificati cinquanta martiri, tra i quali molti sacerdoti, religiosi e laici impegnati nelle associazioni cattoliche.

Concludendo la sua omelia Papa Francesco aggiunse: «Pensiamo se noi abbiamo dentro di noi la voglia di essere coraggiosi nella testimonianza di Gesù …». Venerando questi nuovi Beati e anche tutti gli altri che a loro sono compagni chiediamo al Signore di sentirla, di conservarla quella voglia, che è unita alla virtù cristiana della fortezza: una virtù che, fra l’altro, ci rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni consapevoli della parola di Gesù: «Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo (Gv 16,33)» (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n, 1808). Allora preghiamo: O Signore, per intercessione dei nuovi Beati e di tutti i loro compagni sostienici sempre nella speranza e nel coraggio del Tuo amore. Amen.

 

Cattedrale di Jaén (Spagna), 13 dicembre 2025

 

Marcello Card. Semeraro

 

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Los mártires nos dan testimonio de la gran esperanza

Beatificación de los 124 mártires de la Iglesia de Jaén

 

Otro rito más para la beatificación de mártires, aquí, en tierra española y, hoy, en esta iglesia de Jaén que su obispo, queridos hermanos y amigos, no deja de llamar «cuna de mártires» y «tierra abundantemente regada con la sangre de los mártires». He leído atentamente la carta pastoral con la que ha querido preparar este momento de gracia, subrayando la providencial coincidencia con un año jubilar dedicado a la virtud de la Esperanza; un año que nos anima a todos a ser testigos de la Esperanza. A los muchos mártires que, desde sus inicios hasta épocas más recientes, han sido en esta Iglesia «semilla de cristianos» (Tertuliano, Apologeticus, 50: PL 1, 535), se suma ahora una nueva y larga lista. La historia, a la vez dolorosa y luminosa, de este acontecimiento, que también se inscribe en los acontecimientos de la guerra civil del siglo pasado, ha sido evocada y deseo subrayar lo que ha escrito el obispo: «No fueron héroes, humanamente hablando, ni luchadores ideológicos, ni caídos en una guerra por intereses terrenales... Su única arma fue el amor. Y murieron perdonando a sus verdugos... Este perdón martirial es el fruto más sublime de la esperanza que no se rinde ante el mal».

Queridos hermanos, deseo corroborar esta reflexión fundamental con lo que enseñó Benedicto XVI en su encíclica Spe salvi (cf. n. 39). Dentro de quince días recordaremos los tres años de su paso a la casa del Padre, por lo que recordar su magisterio puede ser un acto de gratitud por lo que ha dado a la Iglesia. En ese documento advierte que en nuestra vida hay muchas situaciones en las que nos pueden bastar incluso las esperanzas humanas, las pequeñas esperanzas. Hay otras, sin embargo, en las que necesitamos algo más sólido, más consistente, más válido. Se trata de circunstancias en las que se necesita una «gran esperanza»; son momentos en los que necesitamos amigos, hermanos y hermanas que con su testimonio nos ayuden a comprender que es posible seguir adelante, que podemos lograrlo. Son momentos en los que « necesitamos también testigos, mártires, que se han entregado totalmente, para que nos lo demuestren día tras día. Los necesitamos en las pequeñas alternativas de la vida cotidiana, para preferir el bien a la comodidad, sabiendo que precisamente así vivimos realmente la vida».

¿De dónde nace esta fuerza interior? La respuesta del Papa es que su origen no es el esfuerzo voluntarista, sino la esperanza, y enuncia un principio sobre el que conviene reflexionar mucho: que «la capacidad de sufrir por amor de la verdad es un criterio de humanidad». Con esta frase, Benedicto XVI no está en absoluto exaltando el dolor en sí mismo; no está hablando en absoluto de un sufrimiento como fin en sí mismo, sino que se refiere a una fuerza que nace de la esperanza y del amor por todo lo que es verdadero, justo y santo. Se trata, en resumen, de la disposición a comprometerse por algo más grande, y no me parece inútil subrayarlo en un contexto cultural en el que —lo digo con las palabras de Romano Guardini, un gran teólogo cuya práctica de las virtudes está siendo examinada por la Iglesia con vistas a una posible beatificación— crece la huida de uno mismo y, con ella, se vuelven cada vez más sencillos los modos de quitarse la vida, y el suicidio mismo se hace cada vez más fácil y banal (cf. Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1992, p. 15). Muchos años después (la obra apareció por primera vez en 1960), el papa León XIV repite: «en el mundo hay una enfermedad difundida: la falta de confianza en la vida» y vuelve a subrayar que vivir invoca un sentido, una dirección, una esperanza, porque «sin esperanza la vida corre peligro de aparecer como un paréntesis entre dos noches eternas, una breve pausa entre el antes y el después de nuestro paso por la tierra» (cf. Audiencia general del 26 de noviembre de 2025.

Reflexiones de este tipo nos plantean la pregunta: en definitiva, ¿dónde está el verdadero valor? Teniendo en cuenta el testimonio de los mártires beatificados hoy, creo que la respuesta correcta sigue siendo la que nos dejó Benedicto XVI: «Sufrir con el otro, por los otros; sufrir por amor de la verdad y de la justicia; sufrir a causa del amor y con el fin de convertirse en una persona que ama realmente, son elementos fundamentales de humanidad, cuya pérdida destruiría al hombre mismo... En la historia de la humanidad, la fe cristiana tiene precisamente el mérito de haber suscitado en el hombre, de manera nueva y más profunda, la capacidad de estos modos de sufrir que son decisivos para su humanidad».

En este sentido, los mártires beatificados hoy son sin duda un modelo de cristianismo. El martirio es el testimonio más elevado de la fe cristiana, porque encarna el amor total a Cristo y a los hermanos, transformando el sufrimiento en redención y la sangre en semilla de evangelización. Sí, es posible narrarlo, pero ante la crueldad humana y ante la fuerza interior de un mártir, a veces las palabras ya no bastan. Así lo experimentó una vez san Ambrosio, quien, refiriéndose a santa Inés, exclamó: Appellabo martyrem, predicavi satis, ¡he dicho «mártir», lo he dicho todo!. Solo ahora, tal vez, estamos volviendo a percibir la enormidad de la palabra «mártir». Durante mucho tiempo se perdió su valor en la Iglesia, ya que la época de los mártires había quedado relegada y se consideraba concluida en sus primeros cuatro siglos. Luego se perdió incluso el sentido de la palabra y así fue como los «mártires» pasaron a ser los ascetas y los monjes, aquellos que huían del mundo. Se decía que había terminado la época del «martirio rojo» y había llegado la del «martirio blanco», que se alcanza mediante la lucha continua contra el mal que nos acecha desde dentro con nuestras pasiones.

Hoy nos encontramos en una nueva etapa. «Os digo —dijo una vez el papa Francisco— que hoy hay más mártires que en los primeros tiempos de la Iglesia. Muchos de nuestros hermanos y hermanas que dan testimonio de Jesús y son perseguidos. Son condenados por poseer una Biblia. No pueden llevar la señal de la cruz. Y este es el camino de Jesús […] La vida cristiana no es una ventaja comercial, no es hacer carrera: es simplemente seguir a Jesús» (Homilía en Santa Marta, 4 de marzo de 2014). Es historia vivida en esta Iglesia diocesana, en la Iglesia de España y en muchas otras Iglesias. Hoy mismo, en París, se celebra un rito como el nuestro en el que se beatifican a cincuenta mártires, entre los que hay muchos sacerdotes, religiosos y laicos comprometidos en asociaciones católicas.

Al concluir su homilía, el papa Francisco añadió: «Pensemos si tenemos dentro de nosotros el deseo de ser valientes en el testimonio de Jesús...». Al venerar a estos nuevos Beatos y también a todos los demás que los acompañan, pedimos al Señor que nos ayude a sentir y conservar ese deseo, que está unido a la virtud cristiana de la fortaleza: una virtud que, entre otras cosas, nos hace capaces de vencer el miedo, incluso al de la muerte, y de afrontar las pruebas y las persecuciones conscientes de la palabra de Jesús: «Tened confianza; yo he vencido al mundo (Jn 16,33)» (cf. Catecismo de la Iglesia Católica, n. 1808). Oremos, pues: Oh Señor, por intercesión de los nuevos Beatos y de todos sus compañeros, sostennos siempre en la esperanza y en el valor de Tu amor. Amén.

 

Catedral de Jaén, 13 diciembre 2025

 

Marcelo Card. Semeraro