Antonio Lucci
(1682-1752)
- 25 luglio
Vescovo di Bovino, dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, che rifulse per la sua straordinaria dottrina e fu tanto generoso nell’assistere i poveri, da non badare neppure alle proprie necessità
Angelo Nicola Lucci, nato il 2 agosto 1682 ad Agnone in Molise, entra nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali e nel 1698 compie la professione dei voti assumendo il nome di Antonio. Nel 1705 è ordinato sacerdotale e nel 1709 diventa dottore in teologia.
Da umile frate francescano, dedito alla preghiera come un contemplativo, studioso di teologia e maestro delle verità di fede tra i fratelli dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, educatore ed esperto di ascetica, Antonio fu ben presto scelto per uffici importanti nella sua comunità. In seguito, lo stesso mio predecessore, Papa Benedetto XIII, lo volle tra i teologi di due Sinodi, come consultore del santo Ufficio e, infine, come Vescovo di Bovino.
In questa città il suo zelo si espanse, come “cedro magnifico” (Ez 17, 23), con iniziative di una carità senza confini. Anzitutto la carità spirituale, per riportare il clero ad una vita religiosa e pastorale corrispondente alle esigenze dell’Ordine sacro e del ministero; poi la carità sociale e materiale, per la difesa dei diritti della povera gente, asservita alla terra, e per la tutela dei deboli, vittime di soprusi.
Per questo egli si fece catechista del suo clero e della sua gente, annunciò il Vangelo con la limpida semplicità del francescano, preparò egli stesso i fanciulli ai sacramenti dell’iniziazione cristiana; ma si dedicò, altresì, alla loro cultura elementare, istituendo scuole gratuite, premuroso persino di vestirli e di offrire loro gli strumenti del lavoro. Arrivò a privarsi, per questo, integralmente dei beni della mensa vescovile, nel desiderio di dare una concreta risposta alle incalzanti ed inesauribili esigenze della carità in un ambiente di miseria endemica. Come un albero, divenuto grande, anch’egli allargò i rami delle sue iniziative di carità per offrire rifugio e ristoro a quanti si trovavano nel bisogno.
BEATIFICAZIONE DEL VESCOVO ANTONIO LUCCI
E DI MADRE ELISABETTA RENZI
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Domenica, 18 giugno 1989
1. “Il Regno di Dio è come un uomo, che getta il seme nella terra (Mc 4, 26).
La liturgia di questa domenica, in cui sono stati proclamati beati i servi di Dio Antonio Lucci, Vescovo di Bovino, e suor Elisabetta Renzi, fondatrice delle Maestre Pie dell’Addolorata, ci invita a riflettere sulla vita della Chiesa, considerata nel suo misterioso ed imprevedibile sviluppo nel tempo e tra gli uomini; di quella Chiesa che, ancora peregrinante in terra, seguendo le orme di Cristo nell’umiltà, nella tribolazione e nella persecuzione, svolge la sua missione con generosa fiducia, “e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi con il suo Re nella gloria” (Lumen Gentium, 5).
Il seme, nel linguaggio evangelico, è la Parola di Dio. Come l’umile seme gettato nella terra, la Parola opera con la forza di Dio stesso nell’animo di chi l’ascolta. Dio è colui che semina e che miete e, nello stesso tempo, è colui che realizza l’imprevedibile sviluppo del seme.
Egli ha affidato la sua Parola alla terra, alla nostra terra, cioè all’umanità concreta e storica, di cui noi facciamo parte. L’incontro tra il seme divino e la terra è avvenuto. Ora si possono attendere i frutti, perché Dio stesso guida lo sviluppo della sua Parola e ne segna l’efficacia. Si tratta, in verità, di una parola creatrice, destinata a raggiungere il suo fine, cioè a divenire “il chicco pieno nella spiga”. Attraverso vie che l’uomo non sempre può controllare, in un modo che l’uomo “non sa”, Dio opera la crescita e la porta a compimento.
2. Il brano evangelico ci parla oggi del “granellino di senapa”, il più piccolo, indice per natura sua della povertà degli inizi del Regno di Dio. L’annuncio del Regno davvero è cominciato così, con passi umili, nella povertà e nella persecuzione, poiché il Figlio di Dio, facendosi uomo, ha assunto “la natura di servo” (Fil 2, 7), ha accettato l’umiliazione della Croce; ed anche la Chiesa, come “piccolo gregge”, ha iniziato il suo misterioso itinerario di testimone della salvezza tra gli uomini. A lei, nascosta nella terra, Dio ha affidato il compito di diventare “dimora” per tutti gli uomini, segno e sacramento visibile della loro salvezza: “Lo pianterò sul monte alto di Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà” (Ez 17, 23). La Chiesa, quel piccolo seme, quel ramoscello umile, nella carità, nella verità, nella fedeltà alla Parola costituisce in terra il germe e l’inizio del Regno, nel quale l’uomo trova salvezza.
3. Il Vescovo Antonio Lucci e suor Elisabetta Renzi si sono affidati alle promesse di Cristo. Nella loro fede essi hanno compreso che accogliere la Parola di Cristo significa affidarsi ad un annuncio profetico ed alla irresistibile forza della crescita del Regno di Dio nella carità.
Nello stesso tempo essi hanno sperimentato che Dio li chiamava a condividere la missione di servire, di aprire le braccia ai fratelli nelle loro necessità, di prodigarsi per loro, di chinarsi verso le loro esigenze, per poter comunicar loro i frutti della salvezza quasi ripercorrendo la via di Cristo nella povertà, nelle difficoltà, nel passaggio attraverso la Croce ed il seppellimento nella terra, affinché di lì, dal nascondimento e dall’umiltà nascessero la pianta rigogliosa, la spiga gonfia di grano. Dio stesso avrebbe dato incremento al loro servizio conducendoli attraverso vie imprevedibili, proprio come avviene per il seme.
Inviati come gli apostoli al mondo, Antonio Lucci ed Elisabetta Renzi furono attenti ai segni dei tempi, cioè all’appello che scaturiva per loro dalla forza degli eventi e dalle condizioni della loro società. Questo era il luogo dove il grano doveva essere gettato e nascosto, perché il piccolo seme si aprisse e divenisse pianta. La comunità umana rappresenta proprio quel complesso di problemi, di difficoltà, di prove, di resistenze e di sfide, dentro le quali sempre, in ogni epoca senza eccezioni, l’azione irresistibile di Dio continua ad operare per portare a compimento il Regno.
4. Ogni credente attento al messaggio del Vangelo è invitato oggi ad “intendere” (Mc 4, 33) il significato del contrasto tra la povertà degli inizi dell’annuncio e l’avvenire grandioso della missione.
Nessuno potrà lasciarsi sorprendere o deprimere dal mistero della Croce o dall’umiliazione della Chiesa nascente, poiché è Dio che porta a compimento ciò che ha iniziato: egli fa risorgere, egli dà incremento, egli domina e conduce la storia. L’evento della salvezza, un tempo promesso a tutti gli uomini, raffigurati negli uccelli del cielo, è già stato deciso in modo gratuito ed irresistibile con la venuta storica di Gesù. Nel mistero di Cristo morto e risorto tale promessa ha raggiunto la sua pienezza.
“Fa’ crescere in noi, Signore, il seme della tua parola”. Questa è l’invocazione che abbiamo cantato insieme, rivolgendoci a Dio con stupore e gratitudine, con coraggio e gioia, chiamati come siamo, tutti, a sperimentare la liberalità di Dio, il quale dona “prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga” (Mc 4, 28). Tutti siamo chiamati a riconoscere la sua misericordia senza confini, che offre rifugio ai lontani, ai dispersi, ai popoli “senza pastore” (Mc 6, 34). “Ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà” (Ez 17, 23).
5. “Come un granellino di senapa che . . . è il più piccolo di tutti i semi . . ., ma appena seminato cresce” (Mc 4, 31): la parabola evangelica rispecchia in modo eloquente la vita del Vescovo Antonio Lucci.
Da umile frate francescano, dedito alla preghiera come un contemplativo, studioso di teologia e maestro delle verità di fede tra i fratelli dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, educatore ed esperto di ascetica, Antonio fu ben presto scelto per uffici importanti nella sua comunità. In seguito, lo stesso mio predecessore, Papa Benedetto XIII, lo volle tra i teologi di due Sinodi, come consultore del santo Ufficio e, infine, come Vescovo di Bovino.
In questa città il suo zelo si espanse, come “cedro magnifico” (Ez 17, 23), con iniziative di una carità senza confini. Anzitutto la carità spirituale, per riportare il clero ad una vita religiosa e pastorale corrispondente alle esigenze dell’Ordine sacro e del ministero; poi la carità sociale e materiale, per la difesa dei diritti della povera gente, asservita alla terra, e per la tutela dei deboli, vittime di soprusi.
Per questo egli si fece catechista del suo clero e della sua gente, annunciò il Vangelo con la limpida semplicità del francescano, preparò egli stesso i fanciulli ai sacramenti dell’iniziazione cristiana; ma si dedicò, altresì, alla loro cultura elementare, istituendo scuole gratuite, premuroso persino di vestirli e di offrire loro gli strumenti del lavoro. Arrivò a privarsi, per questo, integralmente dei beni della mensa vescovile, nel desiderio di dare una concreta risposta alle incalzanti ed inesauribili esigenze della carità in un ambiente di miseria endemica. Come un albero, divenuto grande, anch’egli allargò i rami delle sue iniziative di carità per offrire rifugio e ristoro a quanti si trovavano nel bisogno.
6. Seguendo il disegno di Dio, misterioso ed umanamente inesplicabile, Elisabetta Renzi portò a compimento la sua vocazione, come chi “getta il seme nella terra . . . il seme germoglia e cresce; come egli stesso non sa” (Mc 4, 27).
Nel burrascoso periodo dell’invasione francese, che seguì alla rivoluzione, Elisabetta fu quasi strappata dal nascondimento del monastero delle monache agostiniane; ma, reinserita nel mondo, poté meglio conoscere le urgenti necessità della Chiesa del suo tempo, e rendersi conto che una nuova chiamata del Signore la riguardava. Dio stesso l’aveva come trapiantata accanto ai problemi della gioventù femminile della sua terra. Comprese, così, che occorreva preparare le giovani del popolo ad affrontare le nuove condizioni di vita che le attendevano in una società secolarizzata, a contatto con le nuove strutture politiche ed amministrative non di rado avverse alla fede. Elisabetta si accorse, con intuito profetico, che stava sorgendo un’epoca in cui la donna avrebbe assunto nuove responsabilità sociali.
Si potrebbe dire che Elisabetta Renzi divenne fondatrice non tanto per una scelta, quanto perché una serie di circostanze la indussero e quasi la costrinsero a realizzare un’opera organica e stabile a vantaggio delle giovani, nella sua terra di Romagna. Ma dovette affrontare per questo enormi difficoltà, e lottò con discernimento illuminato per vincere ostacoli che la tentazione spesso le presentava come insuperabili. La sua regola di vita fu proprio quella di abbandonarsi a Dio, affinché egli disponesse i passi ed i tempi per lo sviluppo dell’opera come a lui piaceva.
Talvolta le difficoltà sorgevano all’interno della stessa comunità ecclesiale, non sempre aperta a riconoscere i mutamenti irreversibili intervenuti nella società e forse ancora legata in certi suoi uomini a nostalgie di un passato ormai definitivamente tramontato.
Come un seme messo nella terra, Elisabetta sopportò le sue prove con operosa speranza. Scrisse: “Quando tutto s’intricava, quando il presente mi era così doloroso e l’avvenire mi appariva ancora più buio, chiudevo gli occhi e mi abbandonavo, come una creaturella tra le braccia del Padre che è nei cieli” (Ex epistula fratri Giancarlo missa).
7. Ecco, cari fratelli e sorelle, due figure di beati, umanamente così diversi per le responsabilità ecclesiali, la missione, i tempi ed i luoghi in cui vissero; eppure così vicini per la loro operosa e fiduciosa risposta alla vocazione della carità, attuata in corrispondenza ai segni del loro tempo.
Ambedue compresero di essere come “in esilio” (2 Cor 1, 6-10), e perciò al servizio del Popolo di Dio peregrinante. Camminarono, così, “nella fede”, attenti agli impulsi della grazia ed alla voce di Dio, per essere autentici profeti nella loro comunità. Furono “pieni di fiducia”, e sopportarono, per questo, grandi prove, convinti di dover scomparire nella terra, come il seme nascosto, ma altrettanto certi che la mèta di tutto il loro indefesso lavoro sarebbe stata quella di “abitare presso il Signore”.
Perciò, tanto nella laboriosa esistenza, quanto nel momento del commiato da questo mondo, cioè “sia dimorando nel corpo sia esulando da esso”, cercarono di “essere a Dio graditi” mediante la generosa corrispondenza alla loro vocazione.
8. Guardando al loro esempio, vengono spontaneamente alle labbra le parole del Salmo: “È bello dar lode al Signore . . . annunziare il tuo amore . . . la tua fedeltà” (Sal 91, 2-3). L’amore e la fedeltà di Dio si manifestano proprio nelle opere dei suoi eletti, dei discepoli fedeli, che hanno raccolto il messaggio della Parola di Cristo e hanno saputo esserne testimoni. Essi sono stati “piantati nella casa del Signore” (Sal 91, 14) e si sono dissetati alle sorgenti della sua grazia, così da poter fiorire e crescere con una straordinaria fecondità nell’adempimento della missione loro affidata da Cristo.
La loro vita non conosce tramonto perché le loro iniziative hanno trovato nella Chiesa continuità ed espansione. Per questo noi, oggi, riconoscenti a Dio, annunziamo “quanto è retto il Signore” (Sal 91, 16), considerando che nei suoi servi fedeli egli opera con misericordia ed amore, con giustizia e santità.
La Chiesa oggi loda il Signore per l’esaltazione dei nuovi beati. Infatti, nulla esalta e manifesta “quanto è retto il Signore” più della santità dei figli e delle figlie degli uomini, sui quali Dio ha impresso il suo sigillo ed ha manifestato la sua misteriosa ed ininterrotta azione, “di notte e di giorno”, per far germogliare e crescere il seme della sua Parola.
Per l’intercessione dei beati Antonio ed Elisabetta, “fa’ crescere in noi, Signore - anche in noi tuoi umili servi - il seme della tua parola”. Amen!