I missionari dei primi tempi

I missionari dei primi tempi

-Bonifacio, il più grande apostolo del suo tempo

 

“Esercitò il suo benefico influsso sull’Europa più di qualsiasi altro personaggio del suo tempo”, questa frase, attribuita ad un suo contemporaneo, viene riferita a colui che è stato ritenuto il più grande dei monaci evangelizzatori del Medioevo e forse di tutti i tempi: Bonifacio. A lui dedicò il Papa Benedetto XVI una catechesi delle sue udienze generali del mercoledì, l’11 marzo 2009 e in essa parlava della grandezza di questo figlio di Benedetto e la profonda traccia che lasciò nel suo tempo:

“Mi impressiona sempre questo suo zelo ardente per il Vangelo: a quarant'anni esce da una vita monastica bella e fruttuosa, da una vita di monaco e di professore per annunciare il Vangelo ai semplici, ai barbari; a ottant'anni, ancora una volta, va in una zona dove prevede il suo martirio. Paragonando questa sua fede ardente, questo zelo per il Vangelo alla nostra fede così spesso tiepida e burocratizzata, vediamo cosa dobbiamo fare e come rinnovare la nostra fede, per dare in dono al nostro tempo la perla preziosa del Vangelo.”

Diverse fonti ci offrono una ricca narrazione di Winfrido, tra cui spiccano le sue eloquenti lettere, le quali, nel corso del tempo, sono state oggetto di attento studio, interpretazione e sfruttamento da parte degli storici. Nato con il nome di battesimo Winfrido, con molta probabilità a Crediton, nella contea di Devon, nel regno di Wessex, uno dei sette dell'Eptarchia anglosassone dell'Inghilterra, egli proveniva da una famiglia di nobili origini.

Fin dalla giovane età di sette anni, Winfrido fu affascinato dalle descrizioni della vita monastica fornite da alcuni monaci che visitavano la sua casa. Il suo desiderio di intraprendere lo stile di vita monastico fu tale che i genitori acconsentirono a permettergli di vivere e studiare nel monastero di Exeter. Qui, divenne il prediletto discepolo dell'Abate Wimberto, una figura di grande saggezza. Posteriormente decise di dedicarsi completamente alla vita monastica a Nursling, nello Hampshire, sotto la guida dell'Abate Wulfardo, il suo secondo e venerato maestro.

Winfrido ricevette un'educazione accurata che lo avvicinò ai tesori dell'antica saggezza, una ricchezza che si svelava sempre di più di fronte ai suoi occhi. Tuttavia, fu soprattutto la Scrittura divina a conquistare il suo cuore, tanto che egli le dedicò le ore migliori della sua esistenza. “Avvantaggiato negli studi, fu designato maestro della scuola monastica. Essendo stato ordinato sacerdote ai 30 anni, esercitò anche nel suo monastero di Nursling la carica di predicatore, il che presto lo rese celebre. Tuttavia, egli percepiva che la sua vocazione era di andarsene da missionario ad altri paesi e così nel 716, col permesso dei superiori, insieme con un altro confratello, partì per missionarie nella Germania.

I monaci allora (e quando no?) viaggiavano assai. Gli uni, colmi di devozione, si recavano a Terra Santa, a Roma, o a qualcuno dei celebri santuari, allo scopo di venerare le reliquie dei santi martiri; per farlo sembra ottenessero l’acquiescenza, senza troppa difficoltà, dai rispettivi abbati. Altri, i famosi girovaghi, si davano all’ozio e ad andare da un monastero all’altro senza proposito definito, il che naturalmente era malvisto. Altri, infine, optavano per la cosiddetta “peregrinatio ascetica”, che da quel che sappiamo, consisteva in un vero e proprio espatriarsi con fini missionari.

Nella primavera del 716, Winfrido sbarcò a Duursted, capitale commerciale della Frisia, sicuramente in cerca di un altro confratello missionario chiamato Willibrordo e del quale avremo occasione di parlare. Ma Willibrordo si era ritirato a Echternach nell’entroterra, fuggendo dalla violenta reazione pagana di Redbaldo, duca dei Frisoni. Winfrido comprese che non c’era niente da fare in quelle terre e decise di non rimanervi. Alcuni pensano che fu eletto Abate e non accettò la carica perché il suo scopo era invece di peregrinare ed evangelizzare.

Così, ritornò in Inghilterra alla sua amata abbazia di Nursling. I suoi confratelli lo accolsero con gioia e, desiderosi di assicurarsi che non si allontanasse nuovamente, lo elessero successore del defunto Abate Wimberto. Tuttavia, Winfrido sentiva ancora la chia-mata di Dio a svolgere il ruolo di missionario, per cui decise di re-carsi a Roma per la prima volta con una lettera del vescovo Daniel di Winchester. Qui, il Papa Gregorio II, cambiò il suo nome da Winfrido a Bonifacio e lo inviò come missionario in terre pagane, senza però specificare la regione.

All’inizio e durante tre anni, la sua attività si svolse sotto la direzione di Willibrordo, ma quando si accorse che questo grande apostolo voleva designarlo suo successore come vescovo di Utrecht, se ne andò in missione ad altre contrade come semplice sacerdote. Qualche tempo dopo scrisse al Sommo Pontefice rendendogli conto dei successi ottenuti il che determinò il Papa di chiamarlo a Roma. Nel 722, fu consacrato vescovo da Gregorio II, che gli consegnò una raccolta di canoni, gli concesse pieni poteri per tutta la Germania e gli diede delle lettere e un salvacondotto.

Tra quelle lettere c’era una rivolta a Carlo Martello. Egli era adesso maggiordomo di palazzo di tutto il regno franco e non soltanto di Austrasia, e si era reso celebre per la battaglia di Poitiers (732), nella quale sconfisse i saraceni che avevano già invaso tutta la Spagna, tagliandoli il varco dei Pirenei. La lettera che gli portò Bonifacio era la prima che riceveva da Roma ed in essa il Papa gli faceva una indicazione generica sul territorio da evangelizzare da Bonifacio: la Germania e la riva orientale del Reno.

Ma la regione specifica non era chiaramente definita, forse a causa della limitata conoscenza di Roma sulla distribuzione delle popolazioni pagane. Tuttavia, detta ambiguità si rivelò vantaggiosa per Carlo, il quale redasse una lettera non indirizzata al Papa, ma a Bonifacio, come se fosse un suo suddito e inviato. A lui consegnò un documento sigillato, conferendogli pieni poteri per transitare e predicare in tutti i domini di Carlo. Pertanto, con l'autorità sia della Chiesa sia del potere temporale, Bonifacio fu in grado di svolgere il suo lavoro missionario senza restrizioni.

Dopo aver predicato nella regione di Turingia (dal 725 in poi) e aver fondato il monastero di Ohrdruff, vicino Gotha, in un terzo viaggio a Roma, il Papa Gregorio III lo preconizzò arcivescovo con giurisdizione su tutta la Germania e li concesse il pallio, segno di comunione e anche di appoggio da parte del Pontefice. Di ritorno, la prima cosa che si propose Bonifacio in Germania fu di finire con le superstizioni e vane osservanze pagane.

Una delle più radicate tra i germani era la venerazione di un albero immenso cui attribuivano dei poteri divini e nei cui rami credevano abitassero gli dei. Bonifacio spiegò a quella gente che la loro credenza era vana e, per dimostrarne la falsità annunciò loro che in un certo giorno ad una certa ora lui stesso avrebbe abbattuto il venerato albero. I pagani si erano impauriti nella convinzione che se qualcuno si avvicinava all’albero per tagliarlo, gli dei lo avrebbero fulminato con i loro folgori. Ma Bonifacio ed i suoi collaboratori si accostarono con le loro asce all’albero e, in mezzo ad una grande folla, lo rovesciarono in breve tempo: né fulmini né fuoco caddero dal cielo. E così, passo a passo, Bonifacio si diede a distruggere le loro vane osservanze.

Dall’Inghilterra arrivarono anche donne per contribuire alla conversione dei paesi germani, imparentati con quello loro (non si dimentichi che quell’isola era stata invasa e popolata dai sassoni, che dominarono la popolazione anglica). Fra quelle prime donne missionarie spiccavano: Tecla, Walburga e Lioba, quest’ultima pare che fosse cugina di Bonifacio. Esse furono all’origine dei conventi femminili in Germania, che in seguito fiorirono grandemente.

Bonifacio proseguì il suo compito di fondare monasteri e celebrare sinodi, sia in Germania sia in terra dei Franchi, grazie a cui i due popoli rimasero intimamente uniti a Roma. Dopo un quarto viaggio all’Urbe, venne investito dal Papa come legatus Germanicus, e come tale riorganizzò le chiese di Baviera e del resto di Germania; eresse le diocesi di Buraburgo, Wurzburgo e Eichstätt, e fondò il monastero di Fulda. Dopo la morte di Carlo Martello (con chi aveva avuto non poche discrepanze), intraprese la vasta opera della riforma della chiesa franca. Bonifacio capiva che nel fondo della questione c’era la disorganizzazione ecclesiastica in quelle terre.

Che atteggiamento assumere davanti a vescovi come quel Milo di Treviri, che aveva ereditato la sede dai suoi genitori? Il vescovo di Magonza era caduto in una battaglia per questioni temporali e un figlio di Carlo Martello governava tre diocesi e due abbazie, sorgenti di cospicue rendite. Erano vescovi immersi negli affari temporali, senza alcuna coscienza della loro missione pastorale e spirituale. Come reagire contro questa situazione di decadenza?

Bonifacio cominciò con l’organizzare adunanze di tutti i vescovi di quelle terre l’anno 747; riuscì a convocare un sinodo in cui si dettarono delle leggi per finire con gli abusi. Ciononostante, dalla parte dei vescovi franchi la partecipazione fu piuttosto scarsa: solo sette vi furono presenti. Erano assenti vescovi importanti come quelli di Magonza e Treviri. Fu Carlomagno, figlio di Carlo Martello, chi diede valore legale alle decisioni del sinodo.

Quali erano le riforme proposte? Innanzitutto, era urgente il ristabilimento dell’ordine gerarchico ecclesiastico con arcivescovi e vescovi e la celebrazione annua di sinodi secondo il diritto canonico. In secondo luogo, si stabilì che la responsabilità nell’amministrazione delle diocesi ricadeva soltanto nei vescovi, il che andava contro i signori feudali che avevano l’autorità su certe chiese. Così i preti non potevano più scusarsi dall’ubbidienza al vescovo con il pretesto dell’intromissione dei signori temporali. Ogni sacerdote doveva rendere conto della sua vita e le sue attività al proprio vescovo all’inizio di ogni quaresima e il Giovedì Santo avrebbe ricevuto il santo crisma da lui. I beni usurpati dai laici alla Chiesa andavano restituiti. In terzo luogo, si escludeva ai chierici che non vivevano canonicamente, in particolare i concubinari.

Come ricompensa di tutto ciò, il Papa san Zaccaria concesse a Bonifacio il titolo di primate della Germania e legato apostolico per il regno dei Franchi. In una lettera ai suoi amici monaci inglesi li diceva: “Se il Sommo Pontefice non mi avesse dati pieni poteri e se il governante della nazione non mi avesse offerto tutto il suo sostegno, non avrei potuto correggere gli abusi che c’erano né portare a tanti a compiere le leggi della Chiesa”. Da allora la Chiesa nel regno dei franchi cominciò una epoca di rinnovato fervore, sebbene per l’opposizione di alcuni nobili, particolarmente gli ecclesiastici, la riforma non poté verificarsi interamente.

L’anziano predicatore aveva raggiunto gli ottanta anni, ma desiderava ritornare in Frisia (gli attuali Paesi Bassi), giacché gli erano giunte delle notizie secondo cui i convertiti da lui avevano apostatato. Durante una nuova missione rivolta a quelle terre e che era stata intrapresa 753, pronto a completare la conversione di quella regione al cristianesimo, Bonifacio cadde a Dokkum nelle mani di briganti che lo assassinarono vilmente insieme ai suoi compagni di viaggio il 5 giugno 754. La tradizione riferisce che il santo vescovo tentò di proteggere il suo capo dalla spada con un libro, lo stesso che si conserva nella chiesa capitolare di Fulda e mostra nella sua coperta la traccia di un colpo di spada. La morte di Bonifacio è stata sempre ritenuta martirio, poiché egli perì come aveva vissuto: cercando soltanto la gloria di Dio. Sarebbe stato sepolto nel monastero di Fulda, nel riparo costituito dalla salmodia monastica che aveva tanto amata.

Tale fu, in stretta sintesi, la molteplice attività di Bonifacio. Per più di quarant’anni, quale instancabile missionario, si spostò da un luogo all’altro, a piedi o servendosi di molto modesti mezzi di locomozione, spargendo il seme del Vangelo, riformando e fondando monasteri, organizzando le diocesi, anche facendo fronte a principi e dignitari ecclesiastici, diffondendo generosamente bontà. D’altra parte, si è messo in rilievo il solido vincolo che unì la sua missione evangelizzatrice e riformatrice alla Santa Sede, che sempre gli diede sostegno. Tuttavia non fu tanto che i Papi Gregorio II, Gregorio III, Zaccaria e Stefano II eccitassero lo zelo di Bonifacio, come che lo zelo di Bonifacio seppe contagiare ai Papi. A un grande coraggio nel proclamare le dottrine cattoliche univa una sbalorditiva capacità di lavoro, una simpatia traboccante che gli cattivava i cuori e un’umiltà e semplicità che lo rendevano amico di tutti.

Nella menzionata catechesi di Benedetto XVI su Bonifacio nel marzo 2009, il Pontefice spiegò le conseguenze molto benefiche che per il nostro tempo può portare la conoscenza della testimonianza di questo grande monaco missionario:

“A distanza di secoli, quale messaggio possiamo noi oggi raccogliere dall’ insegnamento e dalla prodigiosa attività di questo grande missionario e martire? Una prima evidenza si impone a chi accosta Bonifacio: la centralità della Parola di Dio, vissuta e interpretata nella fede della Chiesa, Parola che egli visse, predicò e testimoniò fino al dono supremo di sé nel martirio. Era talmente appassionato della Parola di Dio da sentire l’urgenza e il dovere di portarla agli altri, anche a proprio personale rischio. Su di essa poggiava quella fede alla cui diffusione si era solennemente impegnato al momento della sua consacrazione episcopale: «Io professo integralmente la purità della santa fede cattolica e con l'aiuto di Dio voglio restare nell'unità di questa fede, nella quale senza alcun dubbio sta tutta la salvezza dei cristiani». (Epist. 12)”.

E aggiungeva il Papa:

“La seconda evidenza, molto importante, che emerge dalla vita di Bonifacio è la sua fedele comunione con la Sede Apostolica, che era un punto fermo e centrale del suo lavoro di missionario, egli sempre conservò tale comunione come regola della sua missione e la lasciò quasi come suo testamento. In una lettera a Papa Zaccaria affermava: ‘Io non cesso mai d'invitare e di sottoporre all'obbedienza della Sede Apostolica coloro che vogliono restare nella fede cattolica e nell'unità della Chiesa romana e tutti coloro che in questa mia missione Dio mi dà come uditori e discepoli’ (Epist. 50)”

Alla fine della sua riflessione, concludeva affermando l’attualità della sua testimonianza, non soltanto nell’Europa, ma in tutto il mondo: “egli ci ricorda che il cristianesimo, favorendo la diffusione della cultura, promuove il progresso dell’uomo. Sta a noi, ora, esse-re all’altezza di un così prestigioso patrimonio e farlo fruttificare a vantaggio delle generazioni che verranno.”

 

-Agostino, apostolo dell’Inghilterra

 

Il Papa Gregorio Magno, come ben noto, è entrato nella storia come il primo grande Pontefice missionario, grazie al suo impegno nell'evangelizzazione dei popoli barbari del Nord dell’Europa, evidenziato soprattutto dall'invio di monaci in Inghilterra. Infatti, quando divenne Papa, la sua attenzione non si limitò solo alla città di Roma, nel suo ruolo di vescovo e pastore, né all'Italia, ma si estese anche a territori che oggi identifichiamo come Europa. In quei tempi, in cui intere popolazioni si spostavano da un luogo all'altro, Gregorio si adoperò per creare un punto di incontro tra di loro. Il suo obiettivo era favorire una convivenza che non si basasse sulla sopraffazione o sull'eliminazione di un popolo rispetto all'altro. La sua visione si distinse per la volontà di promuovere l'unità e il rispetto reciproco in un'epoca di grandi trasformazioni e spostamenti di popolazioni.

Gregorio giunse alla convinzione che questi popoli giunti nel bacino del Mediterraneo potessero trovare nella fede cristiana la comune ragione di una pacifica convivenza, da fratelli, e cominciò con organizzare la missione presso gli Angli. Ecco dove si colloca la vicenda di Agostino, monaco, missionario e vescovo. Torniamo ora a Benedetto XVI, che in un discorso alla comunità del Venerabile Collegio Inglese di Roma, il 3 dicembre 2012, inseriva la figura di questo monaco nella storia dell’evangelizzazione dell’Inghilterra, insieme a san Bonifacio:

“Per grazia di Dio, la comunità cattolica in Inghilterra e in Galles è stata benedetta con una lunga tradizione di zelo per la fede e di lealtà alla Sede Apostolica. Più o meno nello stesso tempo in cui i vostri antenati sassoni costruivano la Schola Saxonum, stabilendo una presenza a Roma vicino alla tomba di Pietro, san Bonifacio era impegnato a evangelizzare i popoli della Germania. Quindi, essendo stato io sacerdote e Arcivescovo della sede di München und Freising, che deve la propria fondazione a questo grande missionario inglese, sono consapevole che la mia ascendenza spirituale è collegata alla vostra. Ancor prima, naturalmente, il mio predecessore Gregorio Magno era stato spinto a inviare Agostino di Canterbury sulle vostre coste, per piantare il seme della fede cristiana nel suolo anglosassone.”

Probabilmente romano di nascita, divenne monaco e poi priore, del monastero di Sant’Andrea al Celio, a Roma, dove anni prima era stato a carico lo stesso Gregorio; una volta divenuto Papa, nel 596 scelse Agostino per inviarlo, a capo di un nutrito gruppo di monaci, a ravvivare la fede degli anglosassoni. La situazione era particolare perché dopo l'invasione dei Sassoni (V–VI secolo), in Britannia si era diffuso il paganesimo e l'idolatria, in precedenza soppiantati dal cristianesimo portato da importanti personalità come san Patrizio e san Columba di Iona.

La situazione vide una svolta quando il Re del Kent Ethelbert, sposò Berta, figlia del cristiano Caruberto, Re di Parigi (che era della dinastia merovingia) e, secondo il vescovo san Gregorio di Tours (536–597) della sua prima moglie Ingoberga (circa 520–589), della quale non si conoscono gli ascendenti. Berta era stata pupilla di san Gregorio di Tours al tempo in cui aveva occupato un posto eminen-te alla corte dei Merovingi. In un viaggio a Roma è probabile che egli abbia fatto presente al lungimirante Pontefice le possibilità di una conversione degli anglosassoni attraverso il vescovo di Senlis, Lui-dardo, aveva potuto accompagnare la Regina come cappellano.

L’autore della più antica Vita di Gregorio Magno, un monaco di Withby che scrisse intorno al 710 utilizzando tradizioni più antiche, racconta che Gregorio, non ancora Papa, era rimasto impressionato alla vista di schiavi anglosassoni in vendita nel foro romano, e uscì nella famosa esclamazione: “Non angli ma angeli”. È probabile che lo stesso Gregorio avesse pensato di condurre di persona questa missione, ma dopo l’elezione a vescovo di Roma dovette delegarla ad altri, per cui scelse Agostino.

Questa coraggiosa iniziativa rischiò però di fallire ancora prima di cominciare: la comitiva era partita da Ostia, ma quando raggiunse la Provenza alcuni dei partecipanti cercarono di tirarsi indietro per le troppe incertezze, i pericoli e le difficoltà e anche spaventati dai racconti che facevano i Sassoni un popolo crudele e intollerante. Anche Agostino volle tirarsi indietro, ma Gregorio si rifiutò di annullare la missione, e scrisse una famosa lettera in cui li invitava ad avere fede in Dio e fiducia e incoraggiava Agostino, nominato loro superiore. Essi erano stati in precedenza provvisti di lettere di presentazione, grazie alle quali è possibile ricostruire la loro rotta: passarono per Lerins, Marsiglia, Aix-en-Provence, Arles, Vienne, Lione, Autun e Tours. Da lì proseguirono probabilmente in direzione nord via terra, attraversando la Manica da Boulogne o da Quentavic. Quando raggiunsero il Kent, il gruppo era composto da quaranta persone, forse trenta monaci e dieci franchi, tra i quali alcuni sacerdoti; a quel punto, come pare certo dalle lettere di san Gregorio, Agostino era stato già consacrato vescovo dai vescovi della zona di Reims.

Dopo aver trascorso l’inverno a Parigi, bene accolti da Clotario II, il Re di Neustria, nella Pasqua del 597 sbarcarono nella isola di Thanet, alle foci del Tamigi, non lungi dall’attuale città di Ramsgate. Il missionario mandò subito alcuni ad annunciare il Re Ethelbert, il quale risiedeva a Canterbury, che erano arrivati da Roma per portar-gli la buona novella della fede. Il sovrano, uomo prudente, rispose di attendere nell’isola finché egli non avesse preso una decisione assicurando nel frattempo il loro sostentamento. Alcuni giorni dopo li andò a trovare in persona.

I monaci gli andarono incontro cantando le Litanie in uso a Roma, preceduti da una croce d’argento e da un quadro raffigurante il Salvatore. Il monarca li fece sedere davanti a sé sotto una quercia e, dopo aver udito le loro richieste insieme a quelli del suo corteo, pur senza promettere di adoperarsi per influenzare il suo popolo ad aderire alla loro religione, diede loro una residenza a Canterbury insieme ad adeguate provvigioni, cioè delle terre dove lavorare, e la libertà di predicare.

Dopo questi promettenti inizi, come racconta Beda, il gruppo abbracciò lo stile di vita apostolica della Chiesa primitiva, dedicandosi alla preghiera e la predicazione. La prima chiesa utilizzata per la loro liturgia fu una dedicata a san Martino di Tours, che si credeva di costruzione romana e che era stata fatta ricostruire dalla Regina Berta. Momento decisivo di ogni missione cristiana in un popolo barbaro era costituito dalla conversione del re, il quale di solito non si avventurava tanto facilmente nell’impresa di un cambio radicale di religione senza il sostegno della nobiltà; per assicurarsi tale sostegno era necessario del tempo. In una data non precisata (tra il 597 e il 601) Ethelbert si fece cristiano.

Secondo la tradizione, in poco tempo si convertirono e furono battezzati 10.000 Sassoni. Agostino non tardò ad inviare a Roma due dei suoi compagni, Lorenzo, che lo avrebbe sostituito come arcivescovo e Pietro, che sarebbe stato poi il primo Abate del nuovo monastero costruito attorno alla chiesa dei Santi Pietro e Paolo, affinché portassero al Papa notizia della conversione del re alla fede cattolica, e gli chiedessero altri collaboratori. Non si sa che ruolo abbiano svolto la moglie Berta e il vescovo Liutardo, la prima fu cortesemente rimproverata da Gregorio per non aver fatto di più, mentre il secondo doveva essere vecchio o malato.

Alla testa della nuova colonia, composta di dodici monaci, si trovavano Mellito e Giusto, che avrebbero occupato l’uno dopo l’altro la sede metropolitana di Canterbury, e Paolino, che avrebbe dovuto evangelizzare il Northumberland. Ad essi il Papa consegnò nel 601 una lettera di felicitazioni per il Re e la Regina, e anche di esortazione ad estendere il regno di Gesù Cristo ancora di più e di seguire in tutto le direttive del loro vescovo, Agostino, "cresciuto nella regola monastica, ripieno della scienza delle divine Scritture e ricco di buone opere agli occhi di Dio".

Nella lettera al re il Papa aveva consigliato la distruzione dei templi pagani. Dopo più attenta riflessione mutò di parere, e spedì un corriere con una lettera a Mellito, in viaggio verso l’Inghilterra, con la quale gli ordinava di avvertire Agostino di non distruggere i templi, ma di purificarli e di trasformarli in chiese. In tal modo, si avrebbe evitato di offendere la sensibilità degli anglosassoni, e così sarebbe stato più agevole conquistare le anime per Dio. L’avveduto Pontefice consigliava anche di modificare alcune pratiche popolari durante festività o incontri cristiani.

Mellito e Giusto e altri portarono, assieme alla lettera del Papa, dei libri, alcune reliquie ma soprattutto il pallium simbolo della dignità arcivescovile, che Agostino ricevette dalle mani di Virgilio d’Arles, e così divenne primate d'Inghilterra. San Gregorio indicò al nuovo arcivescovo di ordinare quanto prima dodici nuovi vescovi ausiliari e di inviare un vescovo a York. Nel 604 Agostino consacrò Mellito vescovo di Londra e Giusto vescovo di Rochester.

Utilizzando antiche testimonianze della Britannia romana, Gregorio aveva deciso che la sede metropolitana meridionale sarebbe stata a Londra; invece poiché Agostino aveva posto la sua sede a Canterbury, principale città del più potente Re d’Inghilterra, questa sistemazione rimase inalterata anche dopo la sua morte. Si conviene oggi che molte delle disposizioni di Agostino siano state configurate sul modello della Roma contemporanea: fondò il monastero dei Santi Pietro e Paolo fuori le mura, che sarà chiamato di Sant’ Agostino dopo la sua morte, consacrò la cattedrale denominandola Chiesa di Cristo -come la più antica cattedrale romana, posteriormente chiamata San Giovanni in Laterano- e istituì anche una sede suburbicaria a Rochester, che nasceva in analogia a quelle di Roma. Ma siccome la fondazione di Canterbury era molto piccola ve n’era una sola rispetto alle sette romane. Furono anche utilizzati nomi di martiri romani per le prime chiese del Kent, come Pancrazio e i Quattro Martiri Coronati, le cui reliquie potrebbero essere state inviate in Inghilterra insieme ai rinforzi del 601. Inoltre, la Scuola Reale di Canterbury attribuisce ad Agostino la propria fondazione, il che ne farebbe la scuola più antica del mondo, anche se le prime fonti documentarie risalgono al XVI secolo.

Per mancanza di documentazione, è difficile trovare particolari riguardanti l’apostolato di Agostino; sappiamo però che egli combatté una battaglia su due fronti diversi: da una parte la resistenza pagana oppostagli dai germani, che cercò di battere anche usando -con il permesso di Gregorio- tecniche di inculturazione che cercavano di salvare quante più tradizioni pagane possibili, cristianizzandole; e dall’altra contro alcune Chiese cristiane celtiche, ormai ridotte alle comunità della Britannia meridionale, evangelizzate dai monaci irlandesi, che egli tentò di piegare alle nuove istituzioni e alle nuove pratiche liturgiche direttamente dipendenti da Roma.

A questo scopo, il nostro santo cercò di prendere contatto con i vescovi, separati da molto tempo dal resto dell’Europa, e di fare riconoscere da essi la propria giurisdizione. Fu con l’aiuto del Re Ethelbert che riuscì a congregarli ad Aust, nel 602, sotto una quercia, presso le rive del fiume Severn, Galles, ma essi non ne vollero sentire di adattarsi agli usi romani riguardo alla celebrazione della Pasqua, l’amministrazione del battesimo e la forma della tonsura, e neppure si dimostrarono disposti ad aiutarlo nell’evangelizzazione degli anglosassoni, loro nemici. Solo dopo il sinodo di Withby del 664 la Chiesa celtica avrebbe rinunziato alle sue tradizioni.

Agostino, deluso ma non scoraggiato, ritornò a Canterbury e continuò ad occuparsi dell’organizzazione della Chiesa. Leggiamo che alla pazienza e al rispetto che egli mostrò verso i pagani, nella convinzione che l'adesione autentica al vangelo potesse avvenire soltanto nella piena libertà, non seppe unire un'analoga pazienza verso i problematici gruppi di cristiani già presenti nei territori meridionali della Britannia. Di conseguenza, pur avendo istituito le diocesi di York, di Londra e di Rochester, egli non riuscì a ottenere la piena unità dei cristiani britannici.

Nei suoi viaggi missionari, che compiva sempre a piedi e senza rifornimenti, raggiunse anche i sassoni della contea di Dorset, sulla Manica, ma non sempre fu bene accolto; anche i pagani una volta lo cacciarono dal loro territorio attaccando alle sue vesti e a quelle dei suoi compagni, in segno di obbrobrio, delle code di pesci. Di conseguenza, praticamente egli limitò il suo apostolato a quelle regioni sottomesse al Re Ethelbert, che morì nel 616. Il favore accordato ad Agostino dal più potente Re inglese del tempo gli permise anche di fondare una cattedrale a Londra, allora parte del territorio orientale dei sassoni, nel luogo su cui oggi sorge la cattedrale anglicana di San Paolo. Questa impresa subì contrattempi politici a causa del desiderio d’indipendenza dei re locali nei confronti di Ethelbert, e per un certo periodo fu abbandonata, ma la perseveranza del buon vescovo missionario ottenne la costruzione della chiesa più emblematica della capitale inglese, sebbene quella che vediamo oggi non ci fa immaginare come fosse l’originale.

Come era la vita dei monaci portati da Agostino in Britannia? Le istruzioni di Gregorio prevedevano che i monaci rimanessero nei monasteri e l’evangelizzazione fosse affidata al clero diocesano; inviando in Inghilterra una trentina di monaci, Gregorio, con la sua abituale saggezza, doveva aver però compreso che un’impresa così particolare richiedeva maggiore elasticità; infatti, nella stessa sede di Canterbury sembra probabile che, in linea con le usanze romane, i monaci si unissero ai sacerdoti della cattedrale per gli uffici del mattino e della sera. Non è sicuro che tutti i monaci fossero preti, anche se alcuni di essi certamente lo furono.

Agostino morì il 26 maggio 604 o 605, dopo aver consacrato Lorenzo come suo successore. Fu sepolto nel cimitero dei monaci e, quindi, nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo appena fu terminata, nel 613. Nel 1538 sotto Enrico VIII il monastero fu rovinato e le ossa del santo disperse. Dopo la restaurazione della gerarchia cattolica in Inghilterra nel 1850, l’episcopato inglese sollecitò da Roma che il suo nome fosse inserito nel calendario della Chiesa universale. Il Papa Leone XIII esaudì la richiesta nel 1882.

 

-Tre monaci intrepidi percorrono il nord dell’Europa

 

Dopo aver parlato sulle figure di Bonifacio e di Agostino, è il turno di altri tre figli di san Benedetto ai quali dobbiamo in grande parte l’evangelizzazione del nord dell’Europa. Forse poco noti negli ambienti mediterranei, più che altro a causa della lontananza di quelle regioni e dei molti altri santi che abbiamo nel nostro ambito culturale, essi sono invece molto noti tra quei popoli, dove sono venerati come i padri della loro fede.

L’epopea missionaria dei monaci anglosassoni nel continente prese inizio alla fine del VII secolo. La chiesa anglosassone era di stampo romano come nessun’altra in Occidente fuori di Roma e diffuse mediante le sue missioni dei tratti tipici della Chiesa romana in quella Franca. I suoi missionari cercarono di avere uno stretto rapporto con la famiglia più potente tra i Franchi, cioè i Carolingi e difatti ebbero con loro un forte vincolo. L’idea poi di arrivare sul continente derivò dal monachesimo Irlando-scozzese ed il suo stile di pellegrinaggio: si andava su una contrada per evangelizzarla e, se non c’era successo, si continuava avanti su un’altra contrada e così via fino ad arrivare a Roma per venerare le sacre reliquie. Il monaco Erberto del monastero di Ripon fu uno dei primi a mettere in pratica questo sistema nel 691.

La motivazione missionaria era più forte tra i monaci anglo-sassoni che tra gli irlandesi, i primi ebbero una profonda coscienza della loro vicinanza nazionale col popolo del continente che era rimasto nella sua terra senza invadere l’isola della Britannia. Difatti, la prima grande figura di queste missioni nel nord dell’Europa fu Willibrordo (658–739), monaco di Ripon, vicino York, e discepolo di Vilfrido, uno dei primi benedettini che misero piede in quelle terre. Nato nella regione inglese di Northumbria (come indicato dal nome: al nord del fiume Humber), di famiglia anglosassone, suo padre lo affidò per la prima educazione ai monaci del monastero di Ripon, nel North Yorkshire, dove poco dopo prendeva il saio. Verso il 678 si trasferì in Irlanda, al monastero di Rath Melsigi, dove rimase dodici anni e ricevette l’ordinazione sacerdotale.

Nel 690, Willibrordo s’imbarcò verso il continente a capo di un gruppetto di dodici monaci allo scopo di predicare il Vangelo nella Frisia meridionale, allora occupata dai Franchi, dopo che il Re friso-ne Redbad fu vinto in battaglia da Pipino di Herstal, detto anche “il giovane”, maggiordomo di palazzo di Austrasia. Questa circostanza fece possibile la realizzazione dei sogni missionari di Erberto, nobile di Northumbria che aveva fatto voto di vivere in terra straniera e reggeva da Abate il monastero irlandese di Rath Melsigi, dove risiedeva Willibrordo. Vilfrido, che si vantava di aver introdotto la Regola di san Benedetto in Inghilterra, aveva predicato la fede cristiana ai frisoni in tempo del re Egfrido di Northumbria, il che spiega l’interesse per l’evangelizzazione della Frisia dell’Abate Erberto.

Non era facile il compito fidato a Willibrordo ed al suo piccolo gruppo di monaci missionari. Il popolo germanico dei Frisoni, che occupava lo sbocco dei grandi fiumi che muoiono sulle coste dei Paesi Bassi (il Reno, il Mosa ed il Waal), era come un campo ribelle ad ogni coltura. Quei barbari dalla statura imponente, dalle barbe rosse e dalle lunghe chiome erano guerrieri feroci, testardi, attaccati alle loro vecchie tradizioni ed estremamente amanti della loro libertà ed indipendenza; altri avevano fallito davanti alla loro ostinazione.

I missionari dovevano per forza ricorrere alla protezione dei Franchi e così i Frisoni li ritenevano alleati dei loro benefattori. Willibrordo ebbe bisogno anche dell’approvazione della Santa Sede: la chiese e la ottenne senza difficoltà. Anzi, il Papa Sergio I gli conferì personalmente l’episcopato nel 695 e gli concesse anche il pallio arcivescovile in segno di comunione dopo colmarlo di benedizioni, reliquie, oggetti sacri e libri. Fu la prima volta che apparve su quelle regioni questa dignità, ma diversamente da Agostino, nominato arcivescovo di Canterbury, Willibrordo lo fu non per un territorio ma per un popolo: quello dei Frisoni.

Dopo aver vinto grandi difficoltà, il nuovo prelato fissò la sua sede nel rovinoso castrum romano di Ultraiectum (Utrecht), che gli fu regalato da Pipino di Herstal, e dal 696 fino al 717 risiedette costantemente nella Frisia occupata dai Franchi. Eresse la cattedrale, riforbì la chiesa di San Martino –resto delle antiche missioni evangelizzatrici– e creò una scuola per la formazione del clero. Fu in quelle terre dove Willibrordo svolse il suo fecondo apostolato. Ma secondo la tradizione benedettina che aveva vissuto e che lo aveva portato nel continente, volle anche fondare un monastero destinato a servire da caposaldo dell’azione missionaria.

L’abbazia veniva presentata come il modello concreto della vita religiosa e sociale ed i monaci servivano di esempio a quelli che pretendevano convertire al cristianesimo. Questo monastero di Willibrordo e della missione di Frisia fu Echternach, situato prudentemente in Lussemburgo, cioè in territorio franco, lontano dai rischi dell’avanguardia missionaria. Willibrordo lo concepì come un luogo di riposo per i missionari, ma anche come un rifugio dove ripiegarsi in caso di pericolo. Ogni due anni vi andava Willibrordo per trascorrere qualche mese di ristoro e di raccoglimento: Echternach era la sua amata abbazia, la sua residenza prediletta.

Pian piano, si rivelavano le qualità dell’arcivescovo dei Frisoni, che era, secondo il testimonio di san Bonifacio, “uomo di grande santità e di meravigliosa austerità”, gentile e paterno con tutti. Da tipico anglosassone (paziente e tenace, umile ed abile, zelante e realistico, dotato da volontà incrollabile e prudenza mai smentita), Willibrordo aveva la tempra di un grande conduttore di uomini, di un ottimo organizzatore. L’unico interesse che lo guidava in tutte le azioni era il consolidamento della sua opera. Le sue ansie apostoliche non tracimavano i limiti di quel che gli sembrava sicuro.

Senonché nei mesi di dicembre dell’anno 714 morì Pipino di Herstal. Non tardò a scoppiare nella Frisia una reazione politico-religiosa di estrema violenza in cui furono distrutte parecchie chiese cristiane, riapparirono i tempi pagani ed i missionari furono espulsi. Anche lo stesso Willibrordo dovette abbandonare il paese. Ma nel 718, dopo le vittorie di Carlo Martello (figlio e successore di Pipino), Willibrordo e i suoi collaboratori poterono ritornare ai loro compiti. Quando Carlo Martello ristabilì la pace, il nostro monaco aveva già raggiunto la settantina, ma non sognava ancora a riposarsi; non si lagnò neanche dei danni avvenuti in quegli anni di distruzione. L’opera della sua vita si trovava quasi totalmente rovinata, ma egli ed i suoi monaci si misero a rifarla. Fu allora quando gli si associò per alcun tempo un tale Vinfrido, che doveva diventare il celebre san Bonifacio, di cui abbiamo ormai parlato.

Willibrordo morì molto probabilmente nel suo monastero di Echternach il 7 novembre 739. Le ultime notizie che ne possediamo ce le fornisce san Beda nel 734: “[Willibrordo] inferisce ogni giorno nuove sconfitte al diavolo; malgrado la sua anzianità, ancora combatte ma il vecchio lottatore sospira per la ricompensa eterna”.

Aveva contribuito a convertire al cristianesimo tutta la Frisia sottomessa alla potenza franca, sebbene le sue brame missionarie non andarono oltre il che lui riteneva fattibile. Tentò certamente di evangelizzare la Frisia settentrionale e addirittura viaggiò in Dani-marca con lo stesso scopo, ma capì subito che tali imprese erano premature e quindi impossibili, e desistette senza sprecare tempo ed energie. Infatti, era un monaco missionario non un avventuriero irresponsabile e lo zelo apostolico che veramente lo animava non annebbiò mai il suo sano realismo.

Per avere una visione d’insieme della la cronologia di questi missionari, ricordiamo che Willibrordo morì nel 739, Bonifacio nel 754, e nel 753 finiva la sua vita terrestre ancora un altro, distintosi nell’area dell’espansione monastica e missionaria, figura enigmatica e controversa. Il suo nome latino era Pirminius oppure Pirmenius; i tedeschi ed i francesi lo chiamano Pirmin; gli italiani, Pirminio, come gli spagnoli, che anche gli danno il nome di Fermín (Firmino). Le fonti agiografiche del IX secolo che ci informano sulla sua vita e i suoi miracoli non hanno alcun valore storico e invece d’illustrarci, ci imbrogliano. A stento si trovano documenti autentici che gettino luce su Pirminio. Ciò che sappiamo con certezza sul suo agire e la sua persona si riduce a pochi dati.

Grande sconosciuto nel mondo ecclesiastico spagnolo, sembra tuttavia che Pirminio potesse avere origini spagnole, anche se c’è chi ne dubita. In realtà, la ricerca del luogo della sua provenienza ha innescato più ipotesi, che si contradicono e distruggono a vicenda e, quindi, niente c’è di sicuro su questo punto. L’unico certo, dicono quei insigni agiografi che furono i Bollandisti, è che non era francese e anche che fu monaco a Reichenau, monastero tedesco le cui radici spagnole ci spiega Justo Pérez de Urbel:

“fu un centro d’influsso spagnolo sulla sponda del Reno, creato da un fitto gruppo di monaci procedenti da Toledo. Li capitanava san Pirminio, un vescovo di quelli che, secondo san Fruttuoso, vivevano sotto la Regola. Pirminio arrivava nel Lussemburgo verso il 720, imparò la lingua del paese e, forte dell’approvazione di Gregorio II, penetrò nella Svizzera, nella Baviera e nell’Alsazia, catechizzando i popoli e fondando abbazie che, come Reichenau e Murbach, diventa-rono fari d’irradiazione culturale durante molti secoli”.

L'Abate Pérez de Urbel è giustamente annoverato tra i primi sostenitori dell'origine spagnola di Pirminio. A questo soggetto ha dedicato diversi scritti che, almeno per chi non è un esperto (come chi scrive queste righe), appaiono abbastanza persuasivi, sebbene la questione non sia stata ancora definitivamente risolta

Non si sanno neanche le date della sua nascita né della sua morte. Nemmeno è sicura l’attribuzione a lui d’un opuscolo dal titolo Liber de singulis canonicis scarapsus, anche se la tradizione lo ritiene un suo scritto. Fu pubblicato molti secoli dopo la sua morte da un altro benedettino, il grande erudito Mabillon, da chi lo prese il Migne per la sua monumentale Patrologia (series latina). Si tratta d’una sorte di manuale di catechesi per l’azione missionaria conte-nente delle norme e istruzioni sulla vita cristiana per combattere i residui pagani e le superstizioni. Nella prima parte fa un riassunto della storia sacra dalla creazione dell’universo fino al mandato di Cristo per annunciare il Vangelo; nella seconda spiega i sacramenti del battesimo, l’eucarestia e la penitenza. Le sue fonti principali sono, inoltre la Scrittura, sant’Agostino, san Cesario di Arles e san Martino di Braga.

Sappiamo con certezza storica che nella prima metà del VIII secolo Pirminio, Abate e vescovo, evangelizzava nell’antica Germania e l’Alsazia; nel 724 fondò un monastero in un isolotto del lago di Costanza, dal nome Reichenau; nel 728 diede come compiuta la fondazione di quello di Murbach nell’Alsazia; forse prima del 744 fondò un altro monastero –quello di Hornbach– nel Palatinato. Il suo carattere episcopale è certo, ma non si conosce quale fosse la sua diocesi: possibilmente non ebbe nessuna assegnatagli.

Pirminio e i suoi collaboratori prediligevano luoghi isolati e poco accessibili, in sintonia con lo stile del loro monastero d'origine a Reichenau, situato su un isolotto come detto sopra. Essi si facevano chiamare "monaci pellegrini" giacché, ispirati da Abramo, avevano abbandonato la propria patria per seguire Cristo con totale libertà. Tuttavia, va sottolineato che la loro dimora in cenobi situati in territori "stranieri" (in terris peregrinorum) non implicava affatto una specie di nomadismo fine a sé stesso o un vagabondare senza meta, ma piuttosto una scelta ponderata e finalizzata a coltivare la vita monastica in luoghi considerati estranei.

Queste informazioni provengono da un documento datato 728, un privilegio di esenzione concesso da Eidegern, vescovo di Strasburgo, al monastero di Murbach durante il sinodo diocesano celebrato in occasione della festa dell'Ascensione. Nel suddetto documento, Pirminio si attribuisce, insieme ai monaci che lo seguono, l'ardente spirito di una comunità che vive in sintonia con il modello della Chiesa primitiva, come descritto nel capitolo quarto degli Atti degli Apostoli.

Pirminio collaborò nelle sue fondazioni con la nobiltà locale che dirigeva la vita politica: ottenne da Carlo Martello la donazione dell’isolotto di Reichenau, fondò il monastero alsaziano di Murbach per incarico del conte Everardo, acconsentì che il monastero di Hornbach fosse annoverato tra le proprietà familiari dei Widonen, insomma, accettò –volentieri o meno– la mentalità della sua epoca, che riteneva il sovrano come il luogotenente di Dio e alla nobiltà aristocratica come legittimata dalla Providenza. Pirminio finì per diventare, se non l’unico evangelizzatore, sì almeno quello di più spicco tra i missionari della Alsazia, la Svizzera e la Baviera, e gli si attribuisce il titolo onorifico di “apostolo degli Alamanni”. In realtà, la sua opera veramente duratura la costituirono i monasteri ch’egli fondò, i quali a loro volta generarono altre comunità. Attraverso Reichenau e Morbach principalmente, l’opera di Pirminio ebbe un ruolo di prim’ordine nella storia medievale europea ed esercitò un potente influsso sulla cultura e lo sviluppo della Chiesa.

Il terzetto di monaci missionari si chiude con sant’Anscario oppure Oscar. Nato probabilmente nelle vicinanze di Amiens nella Piccardia verso l’anno 801, aveva appena cinque anni quando morì la madre: non potendo il padre curarsi convenientemente della sua educazione, lo affidò ai monaci benedettini di Corbie, sempre nella Piccardia francese, dove prese l’abito all’età precoce di tredici anni, nel 814 (anno della morte di Carlomagno). Questo monastero aveva avuto in passato molta rilevanza giacché, costruito su suoli dai discepoli di san Colombano scissi dal distretto di Luxeuil, era stato testimone della decadenza della dinastia merovingia e del sorgere di quella dei Carolingi. Il Re di Aquisgrana Ludovico Pio, figlio e anche successore di Carlomagno, chiamava talvolta al suo Abate a venire da lui, in altre occasioni era lui a visitare il monastero, consapevole del coraggio con cui i suoi membri avevano condiviso il sogno del suo augusto padre di diffondere il regno di Cristo.

Lì trovò Anscario l’ideale dell’Impero cristiano in miniatura, perché Corbie era un grande monastero tipico del IX secolo ed i monaci, dopo anni di lavoro paziente, avevano eretto una dimora dove regnava la pace e prevaleva lo spirito di pietà. Quando contava 17 anni fu nominato, insieme ad un altro monaco, rettore della scuola abbaziale, anche se, come dovrebbe riconoscere molti anni dopo, non era stato un modello di studente né un monaco particolarmente osservante.

Senonché ad un certo punto, il pensiero di sua madre e la nostalgia dei tempi di splendore del monastero con Carlomagno produssero nel giovane monaco una sorta di conversione. Non gli mancò l’opportunità di dimostrare le sue nuove disposizioni di spirito, giacché nel 822 l’abbazia di Corbie fondava in territorio della Renania il monastero di Corvey e Anscario si unì al gruppo guidato dall’Abate Adalardo, che si dirigeva verso una terra strana, sconosciuta e forse ostile, per intraprendere la fondazione. Nel nuovo monastero, con ogni probabilità, fu addetto all’insegnamento ai più giovani, com’era già stato il caso nella casa madre.

Durante il IX secolo i popoli scandinavi (i Normanni, cioè gli uomini del Nord), molto fiorenti in quell’epoca, sviluppavano una grande attività. Per il loro dominio assoluto del commercio e la navigazione nei mari del Nord e, più ancora, con le loro continue incursioni piratiche per le costiere e perfino nell’interiore del continente europeo, tenevano l’impero in un costante stato di allarme. Si capisce che sia Carlomagno che Ludovico Pio ed i suoi successori avessero il massimo interesse per attrarre alla loro orbita politica quei popoli focosi, almeno riducendoli alla pace e la tranquillità per mezzo della religione. Difatti, il Nord dell’Europa continuava ad essere un insieme di paesi sommersi nelle ombre del paganesimo, senza che nessuno ci badasse. Anscario fu l’uomo provvidenziale che doveva compiere la battaglia pacifica del nord.

Nel 826, la sua vita si capovolse totalmente quando Harald Klak, pretendente al trono del Danimarca, si battezzò e Ludovico Pio non permise ch’egli tornasse al suo paese senza la compagnia di “un uomo santo e pio che fosse per lui un maestro nella scienza della salvezza”. Il Re si consigliò con i prelati e i grandi dell’Impero e tutti furono d’accordo nel riconoscere che non sapevano di qualcuno disposto, in nome di Cristo, ad accettare quella specie di esilio. Tutti tranne Walla, Abate di Corvey, che si ricordò di un monaco della sua comunità che “desiderava patire grandi sofferenze per il nome di Dio”. Prudentemente aggiunse l’Abate che ignorava se quel suo suddito “andrebbe volentieri in quell’esilio”. Walla parlò con Anscario e questi accettò la pericolosa missione; e mantenne poi con fermezza la sua decisione, resistendo alle molte voci contrarie che cercavano di dissuaderlo. Infatti, la sua vocazione missionaria era profondamente radicata e inamovibile.

A quelli che li rinfacciavano il fatto di abbandonare la patria e i suoi parenti per andarsene in regioni lontane e “vivere con degli sconosciuti, in mezzo ai barbari”, rispondeva con semplicità: “Mi si è chiesto se, per il nome di Dio, avrei consentito di andare verso delle nazioni barbariche per predicarvi il Vangelo di Cristo. Non ho voluto rifiutare questa proposta. Anzi, desidero con tutte le mie forze che mi sia data l’occasione di partire. Nessuno potrà frangere la mia risoluzione”.

È significativo che soltanto un monaco si offrisse volontario per accompagnarlo, si chiamava Auberto. Così, tutti i due partirono insieme a Harald in veste di cappellani. Questi si dimostrò un uomo sconsiderato e difficile da trattare, ma permise che i due missionari cominciassero per fondare una scuola nella reggia per l’educazione cristiana dei fanciulli che li mandava il Re e di quelli che egli stesso riscattava dai pirati normanni, numerosi da quelle parti. Ma visti i risultati, il suo primo sforzo apostolico diede poco frutto: non poté radunare che una dozzina di ragazzi e convertì pochi infedeli. D’altronde, subito se ne accorse che la conversione non era stata che una manovra politica. A peggiorare le cose, Auberto morì l’anno seguente al suo arrivo e la missione fallì strepitosamente. Nel 827 Harald fu deposto e Anscario, solo e sconfitto, tornò a Corbie.

Ma presto poté ripristinare le sue attività missionarie. Questa volta fu il Re di Svezia, Bjorn II Ericsson, chi nel 829 inviò i suoi legati alla corte dell’Imperatore per chiedergli missionari. L’Abate Walla propose ancora ad Anscario di andare in missione e, non c’è bisogno di dire che costui fu felice di accettare l’incarico. Anche questa volta si trovò un volontario per accompagnarlo, il monaco Vitmaro. Durante il viaggio i missionari furono sorpresi dai pirati che li rubarono tutti i doni inviati tramite loro dall'Imperatore al re e inoltre una collezione di libri destinati all’insegnamento nella missione. Arrivati al termine dell’accidentato viaggio, dedicarono il loro apostolato prevalentemente ai prigionieri cristiani e non molto dopo lo estesero anche ai pagani del paese. Un governatore e consigliere del Re, convertitosi al cristianesimo, fece costruire la prima chiesa in quei territori.

Nel frattempo, avendo deciso il Re Ludovico Pio di fondare un’arcidiocesi ad Amburgo, Anscario venne promosso arcivescovo. Consacrato nel 831, viaggiò a Roma, dove il Papa Gregorio IV gli concesse il pallio, e lo fece suo legato “nel Settentrione” con diritto ad inviarvi missionari e consacrare vescovi.

Senza dimenticare le missioni settentrionali, Anscario si occupò personalmente della sede amburghese, la cui popolazione, in parte sassone ed in parte slava, conservava ancora molti residui pagani. In questo si trovò in solitudine, giacché molti lo abbandonarono per causa della povertà alla quale si vedeva ridotto. Ma Anscario non si scoraggiò e continuò a vivere come poteva insieme con i pochi fedeli che rimasero con lui.

Malgrado le necessità, non consentì di rinunciare all’impegno che si era preso, fece quel che poté, costruì chiese, ricostruì quella di Amburgo ed eresse accanto un monastero, ma purtroppo nel 845 i pirati danesi s’impadronirono della città e distrussero tutto, per cui Anscario dovette fuggire portando soltanto le reliquie ricevute dal Papa. Nel colmo delle contrarietà, il nuovo Re Carlo il Calvo, figlio e successore di Ludovico Pio come Re nella Francia occidentale, in lotta con i suoi fratelli, confiscò ad Anscario le proprietà che per la sussistenza materiale della sua sede di Amburgo aveva ricevuto dal defunto Imperatore. Persi questi sussidi, i pochi compagni che gli erano rimasti, lo abbandonarono.

Nel suo ruolo di legato del Papa, Anscario si impegnò inizialmente per rafforzare la missione in Svezia, inviando a questo scopo il vescovo Gozberto, da lui stesso consacrato. Tuttavia, dopo alcuni anni, Gozberto, il vescovo designato, fu costretto ad abbandonare il paese a causa della reazione intollerante dei pagani. Nonostante le avversità capitate ad Anscario, la sua determinazione non vacillò. Secondo i suoi compagni di vita, la sua energia sembrava risorgere con ancora maggiore vigore.

Nel 847 fu promosso vescovo di Brema in unione personale con Amburgo; da allora e per lo spazio di vent’anni (gli ultimi della sua travagliata vita), lavorò soprattutto per la cristianizzazione della Germania, senza dimenticare la Danimarca e la Svezia. Lo stesso anno della nomina a Brema ricominciò la missione tra i danesi, alla fine riuscì a farsi amico del re Horico I Gudfredsson e grazie a ciò poté costruire una chiesa dedicata alla Beata Vergine nello Schleswig, la prima del Danimarca. Neanche questa volta ebbe lunga durata la prosperità, poiché il figlio e successore di Horico, Erik Barn, lo costrinse a chiudere la chiesa e proibì ai cristiani l’esercizio della loro religione. Ma Anscario non si diede per vinto e pazientemente riuscì a convincere il Re dell’utilità del cristianesimo per consolidare il suo regno. Ottenne con ciò il permesso di riaprire la chiesa dello Schleswig e di costruire un’altra, alla quale dotò di campane, molto temute dai superstiziosi pagani.

Non appena assicurata la missione danese, Anscario partì di nuovo per la Svezia, governata allora dal Re Olaf, che per fortuna non si oppose al ritorno del vescovo missionario e anche ottenne dall’assemblea generale del regno il consenso perché Anscario predicasse il Vangelo e costruisse una Chiesa. Presto dovette tornare l’intrepido prelato in Germania, lasciando in Svezia un sacerdote di fiducia per continuare la missione.

Di ritorno a Brema, proseguì come prima la sua instancabile attività pastorale nel fondare monasteri, nel costruire scuole, nel predicare ai pagani, nell’aiutare i poveri, i malati e i viaggiatori, per i quali fece edificare un ospizio. Tuttavia, si dice che queste attività non lo distolsero neanche un giorno solo dai suoi obblighi di monaco austero e pio. La sua morte avvenne il 3 febbraio 865 e il Papa Niccolò I riconobbe pubblicamente molto venerato dai cristiani del Nord, ma con le rivolte protestanti del XVI secolo, le sue reliquie furono disperse dagli eretici; in realtà, anche se infuriati contro Roma, avrebbero potuto benissimo rispettare i resti le spoglie di quel per cui la fede in Cristo era arrivata nella loro terra.

Gli esiti ottenuti in vita da questo apostolo del Nord poterono sembrare irrilevanti agli occhi dei suoi contemporanei. Occorre considerare però che Anscario s’imbatté generalmente con la mancanza di collaboratori; i pochi che lo seguirono continuarono con successo variabile l’opera incominciata. Ma il frutto doveva vedersi più tardi, quando degli interi popoli, come la Sassonia superiore, il Danimarca e la Svezia abbracciarono in massa la fede seminata in quelle regioni dall’umile monaco piccardo.

 

Tratto da “SAN BENEDETTO E I SUOI FIGLI - Un popolo nella Storia”

 

Alberto Royo Mejía