Il senso della sofferenza cristiana in don Enrico Smaldone e Alfonso Russo

 

Il senso della sofferenza cristiana in don Enrico Smaldone e Alfonso Russo

Convegno nel 40° anniversario della lettera apostolica Salvifici doloris

 

1. Sono grato al vostro vescovo, cui sono legato da lunga e fraterna amicizia, non soltanto per l’invito rivoltomi a commemorare il 40° anniversario della lettera apostolica Salvifici doloris di san Giovanni Paolo II, ma anche per l’opportunità offertami di conoscere in questa circostanza le figure dei due Servi di Dio per i quali egli ha aperto il processo diocesano per la beatificazione e canonizzazione: il sacerdote Enrico Smaldone e il cav. Alfonso Russo. Per un Vescovo, questo è un atto di grande responsabilità ed è pure uno dei compiti più impegnativi. Mi sia dunque, permesso, anche nell’attuale mia veste di Prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi sottolineare qualcosa proprio a favore del vostro Vescovo, poiché in un sito internet ho visto delle espressioni che mi paiono non solo irriguardose e superficiali, ma anche ingiuste nei suoi confronti: ossia che senza alcuna ragione abbia ritardato l’avvio della Causa per la Beatificazione di uno di questi due vostri Servi di Dio.

Sta il fatto che la Costituzione Apostolica Divinus perfectionis Magister di Giovanni Paolo II, che attualmente regola questa delicata materia, demanda proprio al vescovo diocesano il compito d’indagare non sia sulla vita e le virtù (o, se il caso, sul martirio e sull’offerta della vita) di un, o di una fedele e, prima ancora, sulla fama di santità che lo circonda. Quest’ultimo è un elemento davvero importante e, anzi, decisivo: un processo per la beatificazione e canonizzazione non nasce, infatti, dal desiderio, proveniente da alcuni, o di un gruppo più o meno numeroso, di vedere qualcuno, pure bravo ed esemplare, premiato, o insignito di un titolo onorifico. La beatificazione e la canonizzazione non sono affatto questo. Per tale scopo si può fare dell’altro, come l’intitolazione di via o piazza, un monumento, una biografia ecc. La ufficiale dichiarazione da parte della Chiesa della santità è, invece, cosa ben più rilevante, che deve essere sapientemente vagliata e distinta dalla buona reputazione, dalla pubblica considerazione, dalla notorietà sociale e culturale.

Un beato e un santo – disse san Paolo VI proprio riguardo a un giovane abruzzese, che però concluse la sua vita a Napoli ed è stato poi canonizzato da Papa Francesco (parlo di san Nunzio Sulprizio), deve essere come uno «specchio per conoscere noi stessi» e anche la provocazione per una domanda molto personale: se l’ha fatto lui, non potrò farlo anch’io? (cf. Agostino, Confessioni, VIII, 11, 27). È questa la ragione per la quale il vostro vescovo ha preso il tempo necessario per fare il discernimento e solo dopo ha deciso di avviare i due processi per la beatificazione e la canonizzazione. In questo non può che essere lodato.

2. Vi confesso che, mentre leggevo i tratti biografici dei Servi di Dio Enrico Smaldone e Alfonso Russo mi tornava di continuo alla memoria l’espressione citata da papa Francesco nelle prime pagine dell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo:

Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, «la classe media della santità» (n. 7).

E d’altra parte, in questi giorni di Sinodo a Roma, ripensavo alla figura dei due vostri Servi di Dio anche quando al mio tavolo di “circolo minore” sentivo l’invitato speciale Carlo Casarini (il fondatore di Mediterranea, noto per la sua attività di salvataggio in mare di tanti profughi) parlare di «microsinodalità», ossia dell’incontro fra due povertà, che però si aiutano reciprocamente.

Come icona di questo incontro voi avete scelto la bellissima riproduzione del Buon Samaritano di Vincent van Gogh. È uno degli ultimi dipinti dell’artista, prima della morte. Egli era in una fase davvero difficile della vita e i critici dicono che in quell’uomo gettato al lato della strada ha voluto rappresentare il suo bisogno di essere aiutato. Nel vedere il dipinto mi colpisce la rappresentazione dello sforzo con il quale il samaritano abbraccia l’uomo ferito per cercare di metterlo sopra la sella del cavallo, dopo averlo curato dalle ferite. Vuole dirci che per aiutare davvero il prossimo dobbiamo «sopportarlo», ossia farcene carico.

Ma c’è un «però» ed è il fatto che il samaritano della parabola evangelica, dopo avere portato in un albergo il malcapitato ed essersi preso cura di lui, «il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”» (Lc 10,35). I commentatori spiegano che la somma di due denari in quell’epoca era sufficiente per trascorrere in una locanda più di una settimana: sufficiente, dunque, perché il malcapitato potesse riprendersi… All’albergatore il samaritano aggiunge: «ciò che spenderai in più (dei due denari), te lo pagherò al mio ritorno». Ciò significa che era una persona benestante. «microsinodalità» di cui dicevo, però, intende delle povertà che si aiutano l’una con l’altra e «fanno spazio a qualcosa che dovremmo oggi cercare disperatamente nel mondo dell’odio: l’amore»!

3. I due Servi di Dio che oggi ricordiamo non erano potenti e ricchi; erano poveri e hanno vissuto secondo quello che scrive san Paolo: «afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma capaci di arricchire molti» (2Cor 6,10). Com’è agli antipodi della mentalità mondana, questa vita cristiana! Il mondo apprezza solo chi è ricco e potente ed è un mondo in cui – come già osservò Paolo VI nell’enciclica Populorum Progressio – «i poveri restano ognora poveri, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi».

Era il 1967, ma oggi noi leggiamo che in Italia, nell’ultimo decennio, i ricchi, puntando su investimenti finanziari, sono diventati ancora più ricchi, mentre la classe media si è ulteriormente impoverita, trascinata giù dalla flessione del mercato immobiliare. Nella Relazione annuale 2023 della Banca d’Italia, pubblicata il 3 giugno scorso si legge: «In Italia, nell’ultimo decennio, i ricchi sono diventati ancora più ricchi puntando su investimenti finanziari, mentre la classe media si è impoverita, trascinata giù dalla flessione del mercato immobiliare». E il Corriere della Sera del 25 luglio scorso titolava: «Super ricchi sempre più ricchi (e disuguaglianze alle stelle): grandi patrimoni cresciuti di 42mila miliardi in dieci anni».

Ecco, allora, lo scandalo cristiano: poveri, ma capaci di arricchire molti e questo perché? Perché «Cristo da ricco che era divenne povero perché noi diventassimo ricchi della sua povertà» (2Cor 8,9). È in questa luce che noi cristiani dobbiamo leggere pure il senso della sofferenza.

Giunco così al tema assegnatomi per questa conversazione. Lo scopo per la quale Giovanni Paolo II scrisse la sua lettera apostolica Salvifici Doloris era quello di analizzare la tematica del dolore, che quando è vissuto dall’essere umano acquista il nome di sofferenza Questa, poi, sussiste in due forme: quella fisica e quella morale. L’uomo, infatti, non subisce semplicemente il dolore; egli soffre consapevolmente e s’interroga riguardo alla sua sofferenza: se ne domanda il perché, cioè per quale causa e per quale fine. È una domanda che riguarda non solo l’origine, ma pure la finalità della sofferenza.

La risposta definitiva a questa domanda fondamentale è offerta da Cristo crocifisso e risorto. Egli non è solo Redentore attraverso la sofferenza, ma pure Redentore della sofferenza la quale, proprio grazie a Cristo, si trasforma da effetto di un male in causa di salvezza per l’umanità. In forza di ciò ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo e così dare valore all’offerta del proprio soffrire.

Chi ha vissuto gli anni del pontificato di san Giovanni Paolo II sa pure che egli non ci ha solo lasciato un insegnamento sul valore della sofferenza; ce ne ha lasciato pure una testimonianza. Possiamo rileggerla nel suo ultimo libro, che ha per titolo: Memoria e Identità (Rizzoli 2005). Ne ha lasciato un mirabile commento il suo successore Benedetto XVI, in quale nel suo primo Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 ne fece motivo di riflessione e di insegnamento. Leggo solo qualche passaggio:

Giovanni Paolo II […] ci dice (che) la sofferenza di Dio crocifisso non è soltanto una forma di sofferenza accanto alle altre… Cristo, soffrendo per tutti noi, ha conferito un nuovo senso alla sofferenza, l’ha introdotta in una nuova dimensione, in un nuovo ordine: quello dell’amore… La passione di Cristo sulla Croce ha dato un senso radicalmente nuovo alla sofferenza, l’ha trasformata dal di dentro… È la sofferenza che brucia e consuma il male con la fiamma dell’amore… Ogni sofferenza umana, ogni dolore, ogni infermità racchiude una promessa di salvezza… Il male… esiste nel mondo anche per risvegliare in noi l'amore, che è dono di sé… Certo, noi dobbiamo fare del tutto per attenuare la sofferenza ed impedire l’ingiustizia che provoca la sofferenza degli innocenti. Tuttavia dobbiamo anche fare del tutto perché gli uomini possano scoprire il senso della sofferenza, per essere così in grado di accettare la propria sofferenza e unirla alla sofferenza di Cristo. In questo modo essa si fonde insieme con l’amore redentore e diventa, di conseguenza, una forza contro il male nel mondo.

4. Carissimi amici, noi siamo nella prospettiva di un nuovo anno giubilare che Papa Francesco ha voluto fosse sigillato dalla virtù della speranza. La bolla di indizione porta come titolo la frase paolina Spes non confundit, «la speranza non delude» (Rm 5,5). «La speranza – scrive subito il Papa –nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce».

Questo significa che quando è vera, la speranza è sempre una virtù condivisa, al punto che gli altri diventano «la nostra speranza». Non la gioia epidermica di chi non riesce a stare solo, bensì quella della creazione che – come dice san Paolo – geme e soffre nell’attesa di essere liberata dalla corruzione per entrare nella gloria dei figli di Dio.

Anche i due Servi di Dio che oggi ricordiamo e onoriamo sono testimoni di una speranza condivisa. Ce lo dicono le due opere che hanno generato: uno, la Pia Unione Ammalati Cristo Salvezza, titolo che ci dice subito chi e dove è la fonte della guarigione: in Cristo; l’altro, per prendersi cura dei ragazzi abbandonati e rimasti soli ha scelto il titolo di «città». La parola città – così la spiegava Isidoro di Siviglia nelle sue Etimologie – indica l’incontro delle vite di molti: quod plurimorum consciscat, et contineat vitas, raccoglie e contiene le vite di molti (cf. XX, II, 1).

La missione dei due Servi di Dio è stata proprio questa: dare speranza. Hanno certo sofferto in prima persona, ma soprattutto hanno alimentato la vita e sono stati testimoni di speranza. Nell’odierno contesto culturale, segnato da un marcato edonismo, questo loro comportamento non ha senso: la sofferenza è ritenuta un male per il semplice fatto di essere il contrario del piacere. Ma questo non vuol dire che le scelte dei nostri Servi di Dio non abbiano i caratteri della pro-vocazione. La santità cristiana non ha mai aggirato il dolore e non lo ha fatto perché non lo ha fatto Gesù: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà» (Mt 26,42; cf. Lc 22,42). Essere santi non vuol dire certo cercare il dolore. La santità non è questo. Il santo non cerca il dolore, ma quando lo subisce, come il Samaritano lo sop-porta e lo trasforma in amore.

 

Sala Congressi de «La Filanda» – Sarno (SA), 11 ottobre 2024

 

Marcello Card. Semeraro