Intervento al Convegno Diocesano Caritas: «Le tre vie»

 

LA VIA DEL VANGELO

Intervento al Convegno Diocesano Caritas: «Le tre vie»

 

    Rileggendo il discorso rivolto nel giugno scorso dal Papa ai membri della Caritas italiana [1] mi sono domandato se non sia possibile distinguere in qualche modo le tre strade da lui indicate al fine di proseguire il cammino intrapreso cinquant’anni prima e questo «nell’attuale cambiamento d’epoca, quando – dice il Papa – le sfide e le difficoltà sono tante, sono sempre di più i volti dei poveri e le situazioni complesse sul territorio».

I

    A me pare che la prima via – quella degli ultimi, su cui abbiamo appena ascoltato la testimonianza di Ernesto Olivero – ponga una questione che direi ermeneutica. Se non si parte dagli ultimi, «dai più fragili e indifesi… non si capisce nulla», ha detto Francesco e, rileggendo queste sue parole, mi è tornato alla memoria il senso che gli intende allorquando parla di periferie. In un suo messaggio quaresimale del 21 febbraio 2007 indirizzato alla Chiesa di Buenos Aires di cui era vescovo, J. M. Bergoglio scriveva: «Come Giona, possiamo sentire una chiamata insistente che torna a invitarci a vivere l’avventura di Ninive, ad accettare il rischio di essere protagonisti di una nuova evangelizzazione, frutto dell’incontro con Dio che è sempre novità e che ci spinge a rompere con il passato, partire e spostarci per andare al di là di ciò che conosciamo, verso le periferie e le frontiere, dove c’è l’umanità più ferita e dove gli uomini, dietro l’apparenza della superficialità e del conformismo, continuano a cercare una risposta alla domanda sul significato della vita. Aiutando i nostri fratelli a trovare una risposta, anche noi troveremo di nuovo il significato di tutte le nostre azioni, il ruolo di tutta la nostra preghiera e il valore di ogni nostro impegno».[2]

    In questo medesimo senso, in Evangelii gaudium Francesco scriverà: «Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (n. 20). A tale proposito, durante un colloquio personale, un giorno gli domandai cosa intendesse anzitutto col termine periferie. Francesco mi rispose subito, senza esitare: «Un principio ermeneutico!» e me lo spiegò raccontandomi che quando, giunto alla fine del continente americano Magellano guardò all’Europa, si rese conto che era ben altra cosa rispetto a quella vista dal centro di Madrid! Ecco come lo sguardo da una «periferia» è un principio ermeneutico. Il termine, dunque, nel linguaggio di Francesco non indica soltanto un luogo verso cui dirigersi, magari come nel movimento di una chiesa in uscita, espressione comparsa in Evangelii gaudium n. 20 e poi ripetuta. Qui il Papa parla di «uscita missionaria».[3] Il termine: periferia non indica soltanto un luogo verso cui andare: così parla chi abita nel «centro»! Periferia è pure un luogo da cui partire per comprendere: per arrivare al «centro», che in ultima analisi, come dirò, è Cristo. Analogamente si potrà dire di quelle periferie non geografiche, ma esistenziali che sono i poveri. Alle Caritas Francesco chiede di allargare lo sguardo, partendo dagli occhi del povero che ho davanti…».

    Considerando, poi, la terza via, quella della creatività – di cui ci parlerà la dr.ssa Tiziana Ciampolini – io ho pensato che essa pone a tutti noi l’urgenza del prendere sul serio la questione del cambiamento d’epoca, di cui spesso parla Francesco. Richiamerei qui almeno il discorso che egli tenne alla Curia romana per gli auguri natalizi il 21 dicembre 2019. Disse: «quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza… L’atteggiamento sano [con cui viverla] è (piuttosto) quello di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente e di coglierle con le virtù del discernimento, della parresia e della hypomoné. Noi dobbiamo avviare processi e non occupare spazi: “Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa”».

II

    Ho fatto questi richiami alle altre due vie non per invadere le tematiche assegnate ad altri, bensì nell’intento d’individuare rispetto ad esse il senso della via del Vangelo, su cui mi è stato chiesto d’intervenire. Citerò, allora la spiegazione che ne ha dato Mons. Carlo Roberto M. Redaelli, arcivescovo di Gorizia e Presidente di Caritas italiana, illustrando il tema nella recente Assemblea Generale della CEI (22-25 novembre 2021). Egli ha sottolineato che è possibile percorrere questa via «solo se c’è una reale frequentazione del Vangelo stesso e in genere della Paola di Dio». Ha aggiunto che «un maggiore ascolto del Vangelo non potrebbe che fare bene alle nostre Caritas, preservandole dal pericolo di diventare di fatto solo o quasi un’organizzazione di volontariato, di persone ben intenzionate ma non realmente discepoli del Signore». Concludeva: «Dobbiamo maturare molto su questo».

    La riflessione di Mons. Redaelli è senz’altro opportuna e il suo suggerimento è certamente molto utile. Ciò detto, tuttavia, permettete che vi confidi che negli anni del ministero episcopale nella Chiesa di Albano io ho maturato una convinzione che si muove in direzione inversa e questo attraverso la conoscenza di uomini e donne prima molto distanti dalla vita della Chiesa e addirittura estranei, che dopo le si sono accostati incoraggiati non da un «annuncio» verbale, ma dalla testimonianza della carità. A partire da qui – da una Chiesa attenta, o in uscita verso il «povero» – hanno incontrato Cristo.

    È accaduto a loro qualcosa di molto simile a ciò che accadde a san Pacomio. Questi nacque nel 292 nell’Alto Egitto da una famiglia pagana, probabilmente di contadini. Nel 312, quando egli aveva vent’anni, ci fu la mobilitazione generale dell’esercito di Massimino, che si era coalizzato con Costantino e Licinio contro Massenzio. In tale contesto Pacomio fu reclutato a forza e portato a Tebe dove, insieme coi tanti altri uomini, anche loro reclutati a forza, fu rinchiuso in un carcere. Proprio qui, però, avvenne l’evento decisivo per la sua vita. Nelle sue biografie si narra che in quei dolorosi frangenti, giunta la sera, dei cristiani misericordiosi messi al corrente della cosa portarono loro da mangiare e da bere, dando loro pure altri aiuti giacché li vedevano nell’afflizione. Il giovane Pacomio volle informarsi su chi fossero quelle persone ed apprese che si chiamavano «cristiani» e che, proprio per questo, praticavano la misericordia verso gli stranieri e verso tutti gli uomini. Domandò allora chi fossero questi «cristiani» e gli fu risposto: «Sono uomini che portano il nome di Cristo, l’unigenito figlio di Dio e fanno del bene a tutti, poiché sperano in Colui che ha fatto il cielo, la terra e noi uomini». Al sentir questo Pacomio rimase stupito e meravigliato per essere stato oggetto della cura di quella gente e, ritiratosi in disparte, promise: «O Dio, creatore del cielo e della terra, se volgendo lo sguardo su di me vedrai la mia povertà, poiché io non conosco te, unico vero Dio, e mi libererai da quest’afflizione, servirò la tua volontà tutti i giorni della mia vita e, amando tutti gli uomini, li servirò secondo il tuo comandamento». Il giorno dopo lui e le altre reclute furono portate ad Antinoe per la battaglia, ma vi erano appena giunti quando arrivò a notizia della vittoria di Costantino e della morte di Massenzio (battaglia di Ponte Milvio, 28 ottobre 312). L’esercito fu, dunque, smobilitato. Pacomio, però, non tornò a casa. Fedele alla promessa fatta, si ritirò in un villaggio quasi deserto sulle rive del Nilo e iniziò il catecumenato che si concluse col battesimo la notte di Pasqua del 313.

    È una storia di santità e l’avvio di una nuova forma di vita nella Chiesa: tutto nasce da un gesto di cura, che traduceva la carità nelle opere di misericordia. Ad essa ho fatto spesso riferimento nel tempo del mio episcopato ad Albano, soprattutto quando poi è intervenuta l’ancora perdurante pandemia, che in qualche modo ha smantellato il delirio di onnipotenza nel quale sembravamo caduti come drogati dalla fiducia cieca nella scienza e nelle possibilità della tecnica. E tutto questo con le conseguenti crisi «di astinenza», come mi vien da chiamarle, che pure oggi ci affliggono. Il 55° Rapporto Censis pubblicato all’inizio di questo mese di dicembre esordisce in questi termini: «La razionalità che nell’ora più cupa palesa la sua potenza risolutrice e lascia il posto in molti casi a una irragionevole disponibilità a credere alle più improbabili fantasticherie, a ipotesi surreali e strafalcioni, a svarioni complottisti, in un’onda di irrazionalità che risale dal profondo della società… Di fianco alla maggioritaria società ragionevole e saggia, si leva un’onda di irrazionalità, magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà circostante… Di fianco alla maggioritaria società ragionevole e saggia, si leva un’onda di irrazionalità, un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà circostante. Dalla medicina alla tecnologia, nulla sfugge al tritacarne dell’irrazionale…». 

    Oggi, d’altra parte, la vulnerabilità è assunta come categoria centrale dell’antropologia, per di più dal carattere multidimensionale sì da rendere possibili approcci di vario tipo; non ultimo, pastorali. Sicché ho gradualmente maturato la convinzione che riguardo al «divenire cristiano», ossia l’iniziazione cristiana il punto di partenza non potrà più essere, come nel passato in una «società cristiana», il catechismo, bensì la testimonianza della carità! È quanto già sottolineava l’episcopato italiano negli Orientamenti pastorali per gli anni ’90 Evangelizzazione e testimonianza della carità (8 dicembre 1990), dove nelle prime pagine si legge: «Sempre e per natura sua la carità sta al centro del vangelo e costituisce il grande segno che induce a credere al vangelo. Nel nostro tempo tutto questo assume però una specifica attualità e rilevanza, proprio perché sono cresciuti il bisogno di rapporti autentici fra le persone e il senso della solidarietà. Ed anche perché solo sulla base di esperienze forti e concrete è possibile superare i condizionamenti di una cultura più incline al sospetto che alla fiducia e all'adesione verso le grandi proposte e le grandi istituzioni…» (n. 9). 

    Più avanti, richiamando alcune scelte operative, nel medesimo documento si legge che «un'attenzione privilegiata dev’essere riservata agli adolescenti, che nel contesto della nostra società domandano di essere accompagnati con grande passione educativa e senza incertezze verso Gesù Cristo. Anche nell’itinerario di preparazione al sacramento della cresima la catechesi abbia concreto riferimento al vangelo della carità, attraverso opportune esperienze di coinvolgimento e di servizio» (n. 45)

    Percorrere la via del Vangelo, dunque, per me vuol dire qualcosa di più rispetto a ciò che, pure opportunamente, ha ricordato nella CEI il Presidente della Caritas italiana. A mio parere l’indicazione di percorso data dal Papa a noi figli della Chiesa che dimoriamo in Italia chiede anzitutto di non dimenticare gli impegni assunti nel passato. In Evangelizzazione e testimonianza della carità, ad esempio, ancora leggiamo che «I1 vangelo della carità deve dare profondità e senso cristiano al doveroso servizio ai poveri delle nostre Chiese, risvegliando la consapevolezza che questo servizio è “verifica della fedeltà della Chiesa a Cristo, onde essere veramente la Chiesa dei poveri”…» (n. 47). Nel terzo Convegno ecclesiale celebrato a Palermo dal 20 al 24 novembre 1995 tali scelte furono peraltro ribadite sicché nella successiva nota pastorale Con il dono della carità dentro la storia (26 maggio 1996) si ripeté: «Ci sentiamo confermati nella convinzione che per la nuova evangelizzazione è necessario rifare con la carità il tessuto delle nostre comunità cristiane. Dobbiamo edificare comunità di carità vissuta, che siano segno tangibile della novità di Cristo nella storia, lievito umile, ma fecondo, nella società individualista e conflittuale» (n. 19).

    Ho ricordato a voi, della Chiesa di Firenze, questi testi anche perché il vostro arcivescovo, il cardinale G. Betori, fu coordinatore della segreteria del Convegno ecclesiale di Palermo e questo prima di essere chiamato nel settembre 1996 ad essere Sotto-segretario della stessa CEI. Per lui, dunque, quanto ho solo ricordato, è stato «pane quotidiano».

III

    Per quanto, allora, riguarda il mio intervento partirò da questa frase presente nel discorso di Francesco: «la via del Vangelo ci indica che Gesù è presente in ogni povero». Il rimando evangelico è a Mt 25, centrato sull’affermazione: «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (v. 40). «La storia si guarda dalla prospettiva dei poveri, perché è la prospettiva di Gesù», aveva detto poco prima ed ora la ragione è chiara: i poveri sono i vicari di Cristo. [4] «I credenti – leggiamo nel recente Messaggio del Papa per la V Giornata mondiale dei poveri, – quando vogliono vedere di persona Gesù e toccarlo con mano, sanno dove rivolgersi: i poveri sono sacramento di Cristo, rappresentano la sua persona e rinviano a Lui» (n. 4).

    La tematica non è nuova; la troviamo, anzi, già nella patristica. In quella greca il testo più vicino alla metafora usata da Francesco mi pare sia questo di Gregorio Nazianzeno: «Per quanto ci è possibile, nel povero visitiamo Cristo, prendiamoci cura di Cristo, abbiamo a cuore Cristo, vestiamo Cristo, risolleviamo Cristo, onoriamo Cristo... [5] Gli è imparentato quest’altro del Crisostomo: « Si riempia la vostra mensa di zoppi, storpi e handicappati: Cristo ti viene accanto per mezzo di loro viene e tramite i ricchi». [6] Nella patristica latina fa eco Leone magno: «chi nutre Cristo nel povero, si prepara un tesoro nel cielo».[7]

    Echi di questa cristologia si trovano, per quanto in stile oratorio, ma non per questo meno importanti, in J. B. Bossuet (1627-1704). Nella Domenica di settuagesima del 1659, tenne davanti a Vincenzo de’ Paoli e su sua richiesta egli tenne un discorso sulla «eminente dignità del povero» e parlando del Cristo-povero esclamò: «tutti gli altri poveri soffrono ciascuno per se stesso; solo Gesù Cristo patisce in tutti i miserabili». Un’altra volta, predicando il venerdì santo 1662 e questa volta davanti a Luigi XIV di Francia (il «re sole»), ancora Bossuet dirà che Jésus souffre dans les pauvre e userà la formula Jésus-Christ souffrant dans le pauvres. [8] Più esplicitamente, il p. H. D. Lacordaire (1802-1861) dirà che «il povero è un sacramento, così come è un mistero: è un sacramento intermedio, che non richiede da parte nostra preparazione alcuna, ma che ci comunica la grazia e ci dispone a ricevere il frutto dei sacramenti propriamente detti».[9] 

    Giungiamo ai nostri giorni e troviamo il magistero del Concilio Vaticano II: «Come Cristo […] è stato inviato dal Padre “ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo» (Lumen Gentium n. 8). In questa prospettiva, durante il suo viaggio a Bogota del 1968, nella sua Omelia del 23 agosto parlando Campesinos Paolo VI disse: «Siamo venuti a Bogota per onorare Gesù nel suo Mistero eucaristico, e siamo pieni di gioia che Ci sia data l’opportunità di farlo venendo in mezzo a voi per celebrare la presenza del Signore fra noi, in mezzo alla sua Chiesa e al mondo, nelle vostre persone. Voi siete un segno, voi un’immagine, voi un mistero della presenza di Cristo. Il sacramento dell’Eucaristia ci offre la sua nascosta presenza viva e reale; mai voi pure siete un sacramento, cioè un’immagine sacra del Signore fra noi, come un riflesso rappresentativo, ma non nascosto, della sua faccia umana e divina».

    In tale contesto ecclesiale-teologico-spirituale si inseriranno le insistenze di Francesco: Gesù è presente in ogni povero! Nella stessa luce si comprende meglio pure l’immagine, da egli stesso ripetuta, dei poveri-carne di Cristo. Nella Veglia di Pentecoste del 18 maggio 2013, disse: «Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri. La povertà, per noi cristiani, non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale. Direi, forse la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo, la povertà che ci ha portato il Figlio di Dio con la sua Incarnazione. Una Chiesa povera per i poveri incomincia con l’andare verso la carne di Cristo. Se noi andiamo verso la carne di Cristo, incominciamo a capire qualcosa, a capire che cosa sia questa povertà, la povertà del Signore».

    Se, dunque, con la «via del povero» penso si possa indicare un principio ermeneutico, e con quella della «creatività» un principio per entrare nella complessità della nuova epoca, che stiamo vivendo, la via del Vangelo diventa, a mio avviso, il principio della identità. Gesù è presente in ogni povero; davanti all’interpellanza del povero, anzi, si discrimina l’esperienza cristiana! È in forza di questa identità che nel suo discorso alla Caritas italiana parla di un’assunzione da parte nostra dello stile di Cristo. Nelle righe qui dedicate alla via del Vangelo la parola stile ricorre sette volte: «Mi riferisco allo stile da avere, che è uno solo, quello appunto del Vangelo. È lo stile dell’amore umile, concreto ma non appariscente, che si propone ma non si impone. È lo stile dell’amore gratuito, che non cerca ricompense. È lo stile della disponibilità e del servizio, a imitazione di Gesù che si è fatto nostro servo. È lo stile descritto da San Paolo, quando dice che la carità «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,7)... stile integrale… lo stile della prossimità, della compassione e della tenerezza». Perché, poi, non ci smarriamo nel nostro percorso, nel suo discorso Francesco ci indica due mappe: insieme con Mt 25 ci sono le Beatitudini, cui il Papa rimanda nella versione del vangelo secondo Matteo (5,3-12).

    Per concludere, allora, citerò il servo di Dio don Primo Mazzolari da una che è tra le sue prime pubblicazioni: risale, infatti, al 1939 e s’intitola La Via crucis del povero, dedicata «Ai miei cari genitori che mi insegnarono a voler bene ai poveri per amore di Cristo». Si legge: «La prima beatitudine non è campata nella fantasia esaltata di un mistico , ma nella realtà immutabile: definisce l’uomo nella sua sostanza, che è di limite, cioè di povertà. Il “povero in ispirito” è l’uomo promosso a uomo. “Son ridiventato uomo” diceva uno che aveva perduto tutte le ricchezze… Uno sprovveduto del senso della povertà cristiana, ha tanto sottomano per costruirvi sopra non so qual fantasia classista o demagogica. Ma il povero non è una classe, ma l’umanità, e Gesù si è fatto povero per essere con tutti, non con questi a esclusione di quelli… La povertà di Gesù non è un’arma, né un pretesto di piccole rivendicazioni: è la nostra umanità, l’umanità di tutti, nessuno escluso… Non c’è una dottrina più rivoluzionaria di quella di Cristo; non ce n’è una meno classista o partigiana, Chi l’inscrive sulle carte delle piccole rivendicazioni di parte, non capisce che Gesù povero non ha rivendicato il diritto alla ricchezza, ma osò affermare la povertà come l’unica condizione di vita umana che spalanca il regno della beatitudine».[10]

 

    Spazio Reale, Campi di Bisenzio, 11 dicembre 2021

 

Marcello Card. SEMERARO

 

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[1] Cf. testo ne L’Osservatore Romano del 26 giugno 2021 (Anno CLXI n. 143 ), 2-3.

[2] J. M. BERGOGLIO, PAPA FRANCESCO, Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires (1999-2013), Rizzoli, Milano 2016, 505.

[3] Nel Discorso del 30 novembre 2019 ai partecipanti all’incontro internazionale «Chiesa in uscita. Ricezione e prospettive di Evangelii gaudium» Francesco accennò a un altro senso della formula: «Abbiamo bisogno di una Chiesa libera e semplice, che non pensa ai ritorni di immagine, alle convenienze e alle entrate, ma ad essere in uscita. Qualcuno diceva che la vera Chiesa di Gesù per essere fedele sempre deve essere in disavanzo nel bilancio. È buono questo: il disavanzo».

[4] Così recita il titolo di una ricca antologia di testi cristiani sul tema: J. I. GONZÁLEZ FAUS, I poveri, vicari di Cristo. Testi della teologia e della spiritualità cristiana. Antologia commentata, EDB, Bologna 2012. Per quel che segue, cf. M. SEMERARO, «Vorrei una Chiesa povera e per i poveri», in «Lateranum» 81 (2015)/1, 19-35

[5] De pauperum amore, 50: PG 35, 910.

[6] In epist. I ad Thess. cap. V, hom XI, 5: PG 62, 468.

[7] Sermo VI: PL 54, 157.

[8] Cf. Oeuvres de Bossuet, t. II, Didiot, Paris 1852, 293-299; 652-653.

[9] Cit. da GONZÁLEZ FAUS, I poveri, vicari di Crist, 515-516.

[10] P. MAZZOLARI, La Via crucis del povero, EDB, Bologna 2000, 22-24. Cf. pure un suo discorso su I poveri, volto di Cristo in P. MAZZOLARI, Discorsi. Ed. critica a cura di P. Trionfini, EDB, Bologna 2006, 562-565.