Intervento alla “Giornata di riflessione e di presentazione dei rinnovati percorsi di studio

 

Studiare l’ecclesiologia alla PUL

Intervento alla “Giornata di riflessione e di presentazione dei rinnovati percorsi di studio”

 

L’invito rivoltomi – per il quale sono grato – e il titolo assegnato al mio intervento: Studiare l’ecclesiologia alla PUL, hanno riportato la mia memoria a quando, quarant’anni or sono, pubblicai sulla nostra rivista Lateranum un articolo dal titolo Studiare teologia a Roma. Il tema fu motivato dal fatto che già nell’aula conciliare, specialmente da parte dei vescovi dei cosiddetti «territori di missione», si erano fatte udire alcune voci critiche sul fatto che, per compiere i propri studi di base, i candidati al presbiterato fossero inviati a Roma. Le ragioni erano di vario genere. Conseguenza fu che dal decreto Ad gentes giunse questa raccomandazione: «gli studi preparatori al sacerdozio si compiano, per quanto è possibile, mantenendo ciascuno il più stretto contatto con la propria nazione» (n. 16). Nel frattempo, però, si erano fatte sentire pure altre voci che, al contrario, mettevano in evidenza le opportunità, presenti a Roma più che altrove, per giungere ad una «teologia internazionale» (cf. Ph. J. Rosato); si richiamava anche il fatto che su di una «teologia europea», in quanto «sorella anziana» delle teologie, ricadevano specifici compiti e responsabilità (cf. K. Rahner).[1]

L’incontro odierno mi propone di focalizzare la medesima questione riguardo sia al luogo, sia al tema: studiare ecclesiologia nella PUL. La domanda non deve, di per sé, apparire strana. I «luoghi» non sono indifferenti per il sorgere, lo svilupparsi e il consolidarsi di una teologia. Una conferma l’abbiamo avuta poco fa nel lucido e prezioso intervento del Card. Víctor Manuel Fernández sul tema «Una teologia per il popolo di Dio». Si tratta, com’è noto, di una corrente teologica nata all’interno della Commissione Episcopale per la Pastorale istituita nel 1966 dall’episcopato argentino per accogliere in Argentina, contestualizzandoli, lo spirito e gli insegnamenti del Concilio Vaticano II.[2] Arretrando nel tempo, potrei citare l’opera Teologia del dolore di Dio scritta nel 1946 da K. Kitamori, un teologo giapponese luterano, nel contesto del dramma per la distruzione atomica, dove si propone un rapporto tra i concetti giapponesi di tsutsumu e tsuraso (amore naturale e morte autosacrificale), con i principi cristiani.[3] Solo due esempi, per sottolineare che il «luogo» e il «contesto» dove si fa teologia non sono indifferenti per la teologia stessa.

Nel trovo una conferma magisteriale in quanto papa Francesco disse a Bari, il 23 febbraio 2020, riguardo al «Mediterraneo»: «Il Mare nostrum è il luogo fisico e spirituale nel quale ha preso forma la nostra civiltà, come risultato dell’incontro di popoli diversi… La trasmissione della fede non può che trarre frutto dal patrimonio di cui il Mediterraneo è depositario…». Qualcosa di simile lo aveva già detto l’anno precedente, intervenendo a Napoli nel Convegno su «La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto mediterraneo» (21 giugno 2019). Si tratta, diceva Francesco, di «giungere là dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappresentazioni delle persone e dei popoli. Giungere là – come “etnografi spirituali” dell’anima dei popoli, diciamo – per poter dialogare in profondità…».

Il dove (e quando) si fa teologia non è, torno a dirlo, questione da sottovalutare e questo vale, ovviamente, anche per l’ecclesiologia. Vi riflettevo di recente leggendo pagine di appunti tratti da alcune lezioni di D. Bonhoeffer nel corso universitario che tenne a Berlino nel semestre estivo 1932, vigilia di periodi particolarmente drammatici. Disse, fra l’altro, che la Chiesa non ha bisogno di un Führer, ma di apostoli e di evangelizzatori... Aggiunse che la Chiesa ha sempre bisogno di un «luogo», perché «un’esistenza senza luogo è l’esistenza di Caino, il ramingo». Quello della Chiesa, però, non può essere il luogo prediletto dal mondo![4]

Quanto alla nostra Università Lateranense un passaggio significativo in tal senso è quanto disse Giovanni Paolo II nel discorso del 16 febbraio 1980: «Voi costituite a titolo speciale l’università del Papa: titolo indubbiamente onorifico, ma per ciò stesso oneroso» (n. 2).[5] Nel proseguire il Papa spiegò le sue parole con una certa progressione: dall’essere una università, poi dall’essere cattolica, quindi pontificia sino a giungere alla particolare fisionomia del Laterano con l’enucleazione di alcuni criteri derivanti anzitutto dalla «diretta dipendenza dal Papa».

Il primo fra questi è la fedeltà da non intendersi in un senso generico, né – tanto meno – nel senso riduttivo di un limitarsi a rimanere nei confini dell’ortodossia, bensì di un «deciso e stabile orientamento, che ispira e segue da presso la ricerca: significa porre quella parola di Dio, che la Chiesa “religiosamente ascolta” (cf. Dei Verbum, 1), all’origine stessa del processo teologico e riferire ad essa ognuna delle acquisizioni e conclusioni, a cui man mano si perviene; implica un confronto attento e permanente con ciò che la Chiesa crede e professa» (n. 4a). Il rimando all’incipit di Dei Verbum è di grande rilievo ancora oggi.

Altro criterio richiamato da Giovanni Paolo II è la cattolicità; tema che per un aspetto lo porta a un richiamo al pluralismo teologico,[6] e per l’altro lo conduce direttamente al nostro argomento. Disse: «Un settore eletto, in cui un simile lavoro può svolgersi, è, senza dubbio, quello della dottrina ecclesiologica, ed al riguardo io desidero tributarvi una meritata lode, perché so che da voi un tale studio è coltivato con particolare assiduità…». In quegli anni, in effetti, i piani di studio per la specializzazione in Teologia Dogmatica prevedevano anche quella in ecclesiologia. Per essi il Papa tracciò un «ideale quadrilatero» (così lo chiamò) costituito dalle encicliche Mystici Corporis di Pio XII e Ecclesiam Suam di Paolo VI, e dalle costituzioni Lumen Gentium e Gaudium et Spes del Vaticano II entro il quale condurre lo studio, «senza dimenticare ovviamente l’eredità preziosa che la tradizione patristica e scolastica ci offre intorno alla vera Ecclesia Christi».[7]

Dopo quel discorso di Giovanni Paolo II, il richiamo al titolo di «università del Papa» sarà qui ricorrente. Per l’uso di papa Francesco richiamo almeno due testi: uno è nella lettera al Gran Cancelliere in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico e dell’istituzione del nuovo corso di studi in «scienze della pace» (12 novembre 2018), dove si legge che la PUL «in modo specifico partecipa alla missione del Vescovo di Roma»; il secondo è la lettera del 1 agosto 2023 al nuovo Rettore, S.E. Mons. Alfonso V. Amarante. Qui come primo compito della PUL si indica quello di «annunciare la verità e la gioia del Vangelo attraverso lo studio, la riflessione e il lavoro accademico». Non è difficile risentire in queste parole il magistero di Evangelii Gaudium, che giunge a modificare il «quadrilatero» di Giovanni Paolo II e trasformarlo in un «pentagono»! Non è un problema! Tutta la patrologia ha applicato alla Chiesa il testo di Isaia: «Allarga lo spazio della tua tenda…» (Is 54,2ss).

Con queste premesse, quale potrebbe essere l’insegnamento della ecclesiologia nella PUL? Per offrire una risposta non mi distanzierei da quanto oggi appare nell’attuale piano di studi: rispetto a quando fui chiamato ad insegnarvi (inizi degli anni ’80 del ‘900), vedo che l’originaria sezione di Ecclesiologia è stata opportunamente ampliata in Ecclesiologia e Sacramentaria.

Dico opportunamente, perché – per citare un famoso testo di A. Dulles – «la Chiesa è in prima istanza un segno. Deve significare in forma storicamente tangibile la grazia redentrice di Cristo. Deve significare che la grazia è data attualmente agli uomini di ogni età, razza, genere e condizione. La chiesa deve quindi incarnare se stessa in ogni cultura umana».[8] Opportunamente, ripeto, perché il primo luogo in cui si apprende il sensus Ecclesiae (ossia il vivere e il sentire con la Chiesa e nella Chiesa)[9] non sono gli incontri di catechesi e le lezioni di teologia, ma la partecipazione alla vita liturgica della Chiesa e soprattutto alla celebrazione Eucaristica.[10]

Un conforto, però, ci giunge dalla lettera Desiderio desideravi (29 giugno 2022) di papa Francesco (cf. nn. 14-15), documento valido anche per trasformare il precedente pentagono in un «ideale esagono». Sacrosanctum Concilium, del resto, fin dalle sue prime battute ci ha lasciato della Chiesa una descrizione inclusiva di molti paradigmi ecclesiali, come quando scrive che la Chiesa è «nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina…» (n. 2).[11]

Fatto è che lo svolgersi della storia pone sempre istanze nuove alla Chiesa ed è così che con la sua Evangelii gaudium (2013) Francesco ha felicemente rimesso in circolo[12] la categoria conciliare del popolo di Dio con la formula ampliata di pueblo fiel de Dios, che gli è famigliare sin dalla fase argentina.[13]

Per concludere torno a citare A. Dulles, il quale osservava che, specialmente negli ultimi decenni, in ecclesiologia si sono susseguiti, uno dopo l’altro e sempre più velocemente, nuovi paradigmi. È un dato che occorre accettare, scriveva, tenuto conto che nessuno di essi, per quanto eccellenti possano essere, «risolvono tutte le questioni. Si causano molti danni quando si cerca imperialisticamente di imporre qualche singolo modello [di Chiesa] come definitivo. Dato che le immagini derivano da realtà finite, frutto della nostra esperienza, non sono mai adeguate per rappresentare il mistero della grazia. Ogni modello di chiesa ha il suo punto debole; nessuno dovrebbe essere canonizzato come misura di tutto il resto…».[14]

L’esempio di un’attenta apertura a diversi paradigmi ecclesiologici è attenzione e rispetto del legittimo pluralismo teologico. Anche in ecclesiologia, del resto, c’è la possibilità di ricorrere a diversi principi architettonici.[15] Il modello per questo pluralismo ci viene già dal Nuovo Testamento: mentre Pietro, nella sua prima lettera, scrive che i cristiani sono un tempio costruito da pietre vive (cf. 2,5), Paolo, nella lettera agli Efesini scrive che il corpo di Cristo è ancora in costruzione (cf. 4,16)... Questo non è contraddizione, ma ecclesiologia viva. Chi fa ecclesiologia nella PUL, l’università della Chiesa di Pietro e di Paolo, dovrebbe tenere conto anche di questi principi.

 

Pontificia Università Lateranense, Aula Pio XI – Città del Vaticano, 21 febbraio 2024

 

Marcello Card. Semeraro

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[1] Per tali posizioni, come pure per istanze precedenti mi permetto inviare a M. Semeraro, Studiare teologia a Roma, in «Lateranum» 50 (1984), 1, pp. 258-265.

[2] Cf. l’intervento di Guzmán M. Carriquiry sul tema: «Teología del Pueblo en el Magisterio Pastoral del Papa Francisco» su http://www.americalatina.va/content/americalatina/es/articulos/la-teologia-del-pueblo-en-el-magisterio-pastoral-del-papa-franci.html. Per J. M. Bergoglio, cf. M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book, Milano 2017, pp. 69-77 con bibliogr. Il volume è pubblicato con una Premessa di Guzmán Carriquiry Lecour.

[3] Cf. K. Kitamori, Teologia del dolore di Dio, Queriniana, Brescia 1975.

[4] Cf. D. Bonhoeffer, L’essenza della Chiesa, Queriniana, Brescia 2023, pp. 34.38-38. Bonhoeffer parla pure di una «chiesa mondanizzata»: linguaggio oggi attualizzato da Francesco tramite l’abate Vonier mediato da H. de Lubac.

[5] Il titolo è passato negli Statuti della PUL, al punto 2 del Proemio

[6] «Il Concilio Vaticano II ci ha abituato a sentire altre voci nella Chiesa: dalle varie nazioni dell’Europa cristiana, come dai paesi dell’America Latina sono venute nuove impostazioni e nuove problematiche, le quali - in nome, beninteso, di un sano e definito pluralismo, e salva sempre l’unità dogmatica della fede - possono avere diritto di cittadinanza nel quadro della riflessione e dell’elaborazione teologica…», n. 4c.

[7] Qui, almeno per incidens, richiamerei l’importanza del metodo genetico-progressivo proposto per la teologia dogmatica dal decreto Optatam totius, n. 16.

[8] Modelli di Chiesa, Messaggero, Padova 2005, p. 84.

[9] Cf. Francesco, Lettera al popolo di Dio che è in Germania (29 giugno 2029), n. 9.

[10] Utilmente il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha realizzato dal 6 al 9 febbraio 2024 una plenaria sul tema «Euntes parate nobis Pascha. Percorsi di formazione liturgica per i ministri ordinati e i fedeli laici». Per applicare la questione a recenti dibattiti, chi, ad esempio, legge la molto citata «sinodalità» in quella chiave liturgica, che è invece lo spazio proprio del tanto citato Giovanni Crisostomo? Per questo mi permetto rinviare a M. Semeraro, Sinodo nome della Chiesa: una citazione, in L. de Lorenzo, M. Proietti, «Piccola scuola di sinodalità», EDB, Bologna 2013, 159-180.

[11] Sul legame ecclesiologia-liturgia, cf. M. Faggioli, Vera riforma. Liturgia ed ecclesiologia nel Vaticano II, EDB, Bologna 2013.

[12] Nel 2002 fu pubblicata in Brasile l’opera, poi tradotta in lingua italiana, di J. Comblin, Il popolo di Dio, Servitium/Città Aperta, Troina 2007. Qui nella Introduzione l’Autore rievoca le vicende che dal pontificato di Giovanni Paolo II in avanti condussero all’emarginazione della categoria di «popolo di Dio»; polemicamente scrive: «Questo libro è stato scritto in previsione del nuovo pontificato… molti credono che il compito più importante di un nuovo pontificato sarebbe quello di restaurare l’ecclesiologia del Vaticano II, risuscitando il concetto di “popolo di Dio”», cf. pp. 5. 9.

[13] Cf. A. Spadaro, Intervista a Papa Francesco, ne «La Civiltà Cattolica» 2013, III (quad. 3918 del 19 settembre 2013), pp. 459-460.

[14] Modelli di Chiesa, cit., pp. 37-39.

[15] Per questo si potrà vedere sinteticamente B. Mondin, Storia della teologia, I, ESD, Bologna 1996, p. 17. Solo per qualche esempio, penso, per il passato al classico La Théologie du Corps Mystique di É. Mersch; per l’immediato post-concilio a La Iglesia misterio de Comunion en el corazon del Concilio Vaticano II del domenicano A. Bandera (1965) e poi, ancora, al gesuita della Gregoriana S. Pié-Ninot con la sua Ecclesiologia. La sacramentalità della comunità cristiana (2006-2007).