Intervento introduttivo al Colloquio «Cardinal Beran tra i regimi totalitari»

 

Come un cane ai piedi del pastore: il Card. Josef Beran

Intervento introduttivo al Colloquio «Cardinal Beran tra i regimi totalitari»

 

Ho accolto volentieri l’invito a prendere parte a questo Colloquio in memoria di S. Em. il Card. Josef Beran, in occasione del 55mo anniversario della sua morte. È noto che per lui è stato avviato nel 1998 il processo canonico, ancora in corso nella Diocesi di Praga, per la beatificazione e canonizzazione.

Due ragioni mi rendono particolarmente gradito questo invito. La prima è di ordine personale, giacché ebbi modo di incontrare il Cardinale Beran quando, ormai a Roma, fu invitato a presiedere nel mio paese natale le commemorazioni per il Centenario del miracolo del Crocifisso. Era la seconda domenica di ottobre del 1967 (8 ottobre) ed egli presiedette la Messa solenne nella piazza cittadina. In quella circostanza (ero all’epoca un seminarista all’inizio degli studi di teologia), impegnato nel servizio liturgico ricevetti da lui la santa Eucaristia. Questo il ricordo che mi lega anche affettivamente alla memoria del Card. Beran.

La seconda ragione è, invece, di ordine spirituale e teologico. Negli anni del mio insegnamento dell’ecclesiologia nella Facoltà Teologica della Pontificia Università del Laterano ebbi tra i miei alunni un giovane della diocesi Hradec Králové, Jan Šlégr, ora sacerdote e docente di teologia liturgica. In una circostanza, proprio parlando del Cardinale Beran, egli mi riferì una sua espressione relativa al tempo prolungato della sua adorazione eucaristica: Sono come un cane pastore ai piedi del padrone. La frase mi è rimasta nella memoria e nel cuore, al punto di averla poi anche pubblicamente riferita in più circostanze.

L’espressione è bella anzitutto perché manifesta la spiritualità eucaristica del sacerdote e del vescovo. In quello stesso anno 1967 in cui Beran giunse nel mio paese, era stata pubblicata l’istruzione Eucharisticum mysterium (25 maggio 1967) in cui si spiegava cosi il senso della preghiera davanti alla Santa Eucaristia: «L’unione con Cristo, cui è ordinato questo sacramento, non dev’essere suscitata solo durante il tempo della celebrazione eucaristica, ma dev’essere prolungata durante tutta la vita cristiana sì che i fedeli, contemplando ininterrottamente nella fede il dono ricevuto, trascorrano la vita di ogni giorno nel rendimento di grazie, sotto la guida dello Spirito Santo e producano più abbondanti frutti di carità» (n. 38).

Sollecitato, poi, dalle abitudini del mio antico impegno di studio e d’insegnamento ho cercato se vi fosse un qualche elemento patristico per quella espressione, giacché nella tradizione biblica alla figura del «cane» non si fa riferimento in modo elogiativo! Il cane, difatti, è ritenuto un animale immondo; l’idea, per giunta, si trova condivisa nel mondo antico. Anche nelle culture antiche l’immagine del cane appartiene al vocabolario dell’ingiuria. L’idea passa nella letteratura cristiana, dove, ad esempio, il versetto del Salmo 22,17 che dice: « Un branco di cani mi circonda» è applicato alla passione di Cristo: gli uccisori di Cristo sono paragonati ai poiché questi con i loro latrati tengono lontane le persone che non conoscono. Avendo respinto la parola di Gesù i giudei non lo conoscono e perciò gli si scagliano contro (cf. Cassiodoro, Expositio in Psalterium XXI, 17: PL 70, 159).

Ci sono, tuttavia, delle eccezioni. Isidoro di Siviglia, ad esempio (siamo nel VI secolo) nelle sue Etimologie annotava che fra tutti gli animali il cane è il più amante dell’uomo, ne difende la casa e non abbandona il corpo del suo padrone neppure quando muore (cf. XII, II, 26: PL 82, 438). La figura del cane rimane così ambivalente nella stessa tradizione patristica. Già Origene lo metteva in evidenza, poiché «si dice che il cane conservi amore per il proprio padrone e né il tempo, né i maltrattamenti possono cancellare in lui l’affetto» (Hom. in Iud. IX, 2: GCS 30, 520-521). San Basilio ricordava che di molti cani si diceva che si erano lasciati morire accanto al loro padrone ucciso (cf. Hom. in Ex. IX, 4: PG 29, 197; la storia è ricordata pure da sant’Ambrogio cf. Hexaemeron, VI, 2, 24: PL 14, 521). In questa linea della fedeltà al padrone il cane può ben diventare la figura ideale per il cristiano fedele e disposto a dare la vita per il suo padrone. È così che sant’Agostino, commentando un salmo, predicherà che possono essere chiamati «cani» quelli che combattono fino all’ultimo sangue per la fede del Vangelo (cf. Enarr. in Ps. 67, 32. PL 36, 833). Sarà, però, soprattutto nell’arte cristiana che la figura del cane rannicchiato ai piedi del padrone diventerà immagine della fedeltà.

Non so, francamente, se il Card. Josef Beran abbia conosciuto tutti questi richiami. È un fatto, però, che questi simboli egli li ha personalmente vissuti sì da rimanere per noi un esempio vivo.

 

Pontificio Collegio Nepomuceno – Roma, 15 maggio 2024

 

Marcello Card. Semeraro