Intervento per il settimanale «Niedziela» in vista della beatificazione della famiglia Ulma

 

Intervento per il settimanale «Niedziela» in vista della beatificazione della famiglia Ulma

 

Ero giunto da pochi mesi quale Prefetto nel Dicastero delle Cause dei Santi e tra le prime «cause» che mi è accaduto di esaminare in tale veste c’è stata quella relativa al martirio dei due coniugi, Jόzef e Wiktoria Ulma insieme con i loro sei figli, ai quali è da aggiungere il settimo appena uscito dal grembo materno. Il caso è senz’altro fuori del comune non tanto perché si tratta di martiri, poiché, come spesso ripete il Papa, i martiri sono ovunque e oggi ci sono più martiri che all’inizio della Chiesa. La particolarità è piuttosto nel fatto che si tratta di un’intera famiglia dove elemento unificante, insieme con la solidarietà del sangue, c’è pure quello della testimonianza a Cristo sino al dono della vita. Non c’è dubbio che l’evento – ben presto divenuto noto –possiede un indubbio valore umano, nazionale e sociale sicché oggi, nella famiglia Ulma, possono vedersi come incarnate le migliori caratteristiche di un popolo generoso, amante della vita e della cultura, che edifica la propria esistenza sulla fede dei padri: elemento questo che ancora oggi costituisce parte integrante dell’identità nazionale polacca. È questo un elemento che ho subito percepito nelle due occasioni avute negli anni passati, giungendo in quella terra per presiedere, a nome del Papa, un rito di beatificazione. Penso alla beatificazione del Cardinale Stefan Wyszyński e di Sr. Elisabetta Róża Czacka il 12 settembre 2021e alla Beatificazione dei martiri di Breslavia l’11 giugno 2022.

Nel caso della uccisione della famiglia Ulma, però, c’è la peculiarità di una «piccola Chiesa» – la famiglia – nella quale il respiro comune era la parola di Gesù: «Nessuno ha amore più grande di chi dona la vita per i propri amici» (Gv 15,13) e questo non nel clamore, ma nella semplicità della vita quotidiana. Si tratta, difatti, di una famiglia che viveva del lavoro dei campi in una piccola fattoria. Jόzef, il papà, si occupava pure di frutticoltura e aveva anche imparato ad allevare le api e i bachi da seta. La sua passione, poi, era la fotografia: cosa che ci permette ancora oggi di avere testimonianze visive della loro vita quotidiana: il lavoro, la preghiera in comune, la cura per i bimbi e la loro educazione anche mediante la testimonianza di una vita di fede. Coltivavano pure la semplice speranza in un futuro più agiata migliorando le condizioni di vita. Ciò era sotto gli occhi di tutti sicché era una famiglia circondata dalla stima comune. Jόzef era una persona simpatica, intelligente, versatile e la sua moglie, Wiktoria. Era anch’egli intelligente e sensibile… Una delle prime foto che li raffigura insieme ritrae i due seduti  e abbracciati l’uno all’altra: lei con gli occhi rivolti verso il basso in atteggiamento di dolce abbandono e lui con lo sguardo in avanti e il volto felice!

Tutto questo lo si potrebbe chiamare: santità della porta accanto, come ha scritto il Papa nella sua esortazione sulla vocazione alla santità nel mondo contemporaneo titolata Gaudete et exsultate. Si legge ai nn. 6-7: «nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo. Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa […] In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”».

A me pare che espressioni si adattano pienamente alla famiglia Ulma. Qui, però, avviene qualcosa che a questo tipo santità – che è un ideale e una vocazione per tutti – permette di fare come un «salto in alto» ed è qualcosa che non appartiene ai cicli e ai dinamismi della natura – cui gli Ulma, come agricoltori erano abituati. Appartiene invece alla grazia del Signore che permette di vincere e oltrepassare la libertà umana quando, pur capace di slanci generosi, essa si mostra capace pure di pericolose introversioni; se capace di aperture, lo è pure di sbarramenti e tutto questo con responsabilità singolari e personali, ma pure collettive e storiche nei suoi risultati perversi. Accadde, dunque, che nel 1939 ci fu dunque l’invasione tedesca della Polonia sicché il dramma della guerra, foriero di dolori e morte, cominciò a entrare anche nella famiglia Ulma. Pochi anni dopo, probabilmente nella primavera 1942, quando gli ebrei furono portati in massa dal ghetto di Varsavia ai campi di sterminio, due famiglie ebree bussarono alla porta di questa famiglia cristiana chiedendo soccorso. La decisione non si fece attendere: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me », dice Gesù (Ap 3,20). La famiglia Ulma aprì la sua porta ed è questa «apertura» l’evento che fece fare loro il santo verso l’esercizio eroico della santità.

La scelta dei coniugi Ulma fu illuminata dalla parabola del Buon Samaritano, parabola il cui testo appare evidenziato nella loro Bibbia. Come il samaritano del Vangelo, non appartenevano al popolo ebraico, ma avevano eroicamente messo in pratica il comandamento dell'amore per il prossimo fino a dare la vita per i fratelli perseguitati, cosa che valse loro il riconoscimento in Israele di «giusti tra le nazioni». Fu, la loro, «carità vera». Sant’Agostino spiegava la carità risulta vittoriosa soltanto quando non è finta, ma è vera. Lo diceva per il martirio di San Lorenzo, ma vale di sicuro per la famiglia Ulma e fu proprio questa charitas vera a scatenare l’ira del persecutore. Tanto più spietati, difatti, furono i carnefici, quanto più gli Ulma, come è possibile verificare dai racconti dei testimoni, davano prova di quel singolare coraggio, che deriva dalla fede. È stata proprio la fede cristiana a ispirare loro l’amore più grande verso quelli che San Giovanni Paolo II avrebbe chiamato i «fratelli maggiori». Ciò che, difatti, gli Ulma scelsero non fu soltanto di testimoniare Cristo, ma pure difendere la «radice» da cui Egli è nato (cf. Rom 11,16-18). Per di più, nel loro martirio, come è stato sottolineato nel corso del processo per la loro beatificazione e canonizzazione, è riapparsa la figura del «santo innocente» e la grazia del «battesimo di sangue»: messaggio attualissimo, questo, in un contesto in cui la difesa della vita, specialmente dinanzi al dilagare dell’aborto, torna ad avere il carattere di urgenza.

Nella prossimità di celebrare il rito della loro beatificazione, sono grato al Signore per questa opportunità provvidenziale che mi offre. Sono anche riconoscente alla fraternità con la quale l’arcivescovo A. Szal mi accompagna verso questo appuntamento. I sentimenti che albergano nel mio cuore si riferiscono proprio agli aspetti che sin qui ho cercato di mettere in luce: la famiglia Ulma è stata unita non solo dalla fede e dalla grazia battesimale, ma pure dalla grazia del sacramento del matrimonio. Ecco, allora, che la beatificazione della famiglia Ulma, ci invita tutti a superare una concezione alquanto individualistica della santità considerandone pure la dimensione comunitaria, alla luce delle parole di Gesù: «Quando due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).

 

Marcello Card. Semeraro