Intervento all’assemblea diocesana per l’apertura del nuovo anno pastorale 2025/2026 della diocesi di Termoli-Larino

 

Eucaristia e sinodalità: congregavit nos in unum

Intervento all’assemblea diocesana per l’apertura del nuovo anno pastorale 2025/2026 della diocesi di Termoli-Larino

 

Congregavit nos in unum Christi amor: è il titolo scelto dal vostro Vescovo per questo nostro incontro: sono le prime parole di un inno medievale intitolato De caritate,[1] comunemente attribuito a san Paolino di Aquileia, ancora oggi cantato in alcune strofe come antifona per accompagnare la processione dei doni all’inizio della Liturgia Eucaristica della Messa in coena Domini. La frase è molto densa: ci dice, infatti, che l’amore di Cristo non è per noi un semplice sentimento, bensì una realtà attiva, anzi creativa. Il soggetto di quest’azione è Cristo nel suo amore. Quest’opera di grazia, poi, è descritta attraverso il ricorso al verbo latino congregare, che ha il significato di riunire, raccogliere, tenere insieme. Tutto questo, però, è finalizzato a qualcosa che è ben di più di una semplice congregazione, o compagnia. L’effetto di quest’azione è, difatti, espresso con la formula latina in unum: espressione, questa, da intendersi alla luce dei suoi riferimenti neotestamentari, che sono da trovarsi anzitutto nella preghiera di Gesù che leggiamo in Gv 17,21: «tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi …». Commenta un grande esegeta: «Sotto la penna di Gv, il termine supera il legame morale tra fedeli, e significa un’unità di ordine ontologico che deriva dalla comunione divina».[2] Al testo giovanneo si uniranno senz’altro quelli paolini di Ef 2,15 («per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo) e di Col 3,14 («sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto»). Da qui deriva pure la denominazione della Chiesa come sancta congregatio, o congregatio fidelium (cf. LG, 26 ; 28; AG 15) sicché pure il suo esteriore riunirsi in assemblea di preghiera deve essere la manifestazione di un’interiore unità: «come esteriormente siamo riuniti in un solo luogo, così interiormente siamo uniti in un solo animo», annotava un monaco medievale.[3] Si comprende, allora, il ritorno, anche nei testi magisteriali, della formula ecclesiale: in Spiritu Sancto congregata (LG 1; CD 11); nomine Domini congregata (PC 15); congregati in nomine meo (AA 18); in Ecclesia congregati (AG 15); a Christo congregati (GS, 3).

 

Alcune questioni etimologiche e linguistiche

Il tema del nostro convenire, poi, nel suo sottotitolo coniuga due realtà che se pure sono per molti aspetti collegate fra loro dal punto di vista contenutistico, sono, sotto il profilo concettuale, pure molto differenti. Eucaristia, infatti, dice un evento che, immediatamente, intende un «rendimento di grazie». Eucharistein, infatti, è un verbo greco che immediatamente rimanda a un ringraziare per avere ricevuto un buon dono e dice, dunque, gratitudine, riconoscenza. Nell’uso cristiano, però, il termine indica il «corpo» del Signore, in quanto cardine e centro dell’azione eucaristica della Chiesa sotto le specie visibili del pane e del vino. Eucaristia, dunque, è il sacramento del corpo e del sangue del Signore e pure il rito in cui ciò si realizza, ossia la celebrazione della Eucaristia nel suo complesso.

Sinodalità è, invece, un termine astratto, un concetto che – come bene ha descritto il documento La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa pubblicato il 2 marzo 2018 dalla Commissione Teologica Internazionale[4] – «designa innanzi tutto lo stile peculiare che qualifica la vita e la missione della Chiesa, esprimendone la natura come il camminare insieme e il riunirsi in assemblea del Popolo di Dio convocato dal Signore Gesù nella forza dello Spirito Santo per annunciare il Vangelo. Essa deve esprimersi nel modo ordinario di vivere e operare della Chiesa» (n. 70a). È quanto ha ribadito Leone XIV parlando il 26 giugno 2025 ai membri della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi: «la sinodalità è uno stile, un atteggiamento che ci aiuta ad essere Chiesa, promuovendo autentiche esperienze di partecipazione e comunione».

I due termini sono, dunque, concettualmente ben diversi: eucaristia rimanda a un evento, sinodalità a uno stile. Le realtà, comunque, non sono molto distanti fra loro; esse, anzi, si implicano per diversi aspetti, come cercherò di mostrare. Per costatarlo è sufficiente sostituire il termine eucaristia con un altro che nel nostro uso li accomuna indicando la medesima realtà. Intendo il termine greco

sýnaxis (sinassi), che letteralmente significa «riunione», «assemblea», «incontro». Questo termine, poco usato nel greco profano, acquista nel linguaggio cristiano-bizantino un significato liturgico e indica una soprattutto la Divina Liturgia, l’assemblea eucaristica.[5] I latini la spiegheranno traducendo con communio e collecta.[6] Già presente in Origene, sýnaxis diventerà d’uso comune nei secoli IV e V, sì da essere preferita soprattutto da quell’anonimo autore, che gli antichi chiamavano «il divino Dionigi». L’Eucaristia, egli scriveva, è chiamata sýnaxis perché «riconduce le nostre vite divisibili verso l’unica deificazione e mediante il divino congiungimento delle cose divisibili dona la comunione e l’unione con l’Uno».[7] Finalmente il termine designerà semplicemente la Chiesa.

 

Il termine sýnaxis contiene in sé l’idea di una statio, cioè di un sostare, di un fermare  il cammino per rinfrancarsi nella pausa gioiosa della fraternità e nutrirsi del dono celeste del pane di vita eterna (Parola ed Eucaristia). Lo sottolineava già Tertulliano, assimilando l’assemblea cristiana ad un esercito, che finalmente fa una sosta durante la marcia per consumare la sua refezione: statio solvenda sit accepto corpore Domini … nam et militia Dei sumus.[8] Nel Medioevo, poi, il termine statio s’impose per indicare in special modo il convenire dei fedeli nella chiesa episcopale al fine di celebrarvi l’Eucaristia. Ruperto di Deutz, trattando in particolare di alcune specifiche «stazioni», ne rilevava l’indole escatologica.[9] La messa stazionale diventa, così, come il modello di tutte le liturgie, che attraverserà i secoli e sarà rimessa in onore dal Vaticano II: la principale manifestazione della Chiesa «si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo di Dio […] alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare, cui presiede il vescovo circondato dal suo presbiterio e dai ministri».[10]

Anche la parola greca sýnodos (sinodo) contiene, come quella di sýnaxis, il prefisso sun-, che rinvia all’incontro e alla comunione. L’immagine di fondo, tuttavia, è diversa. Composto com’è col termine hodós che significa via, cammino, il «sinodo» rinvia sotto il profilo etimologico a un itinerario fatto insieme, ad un pellegrinaggio, ad un percorso comune. È il significato che oggi comunemente vien dato al termine, dopo che papa Francesco nella Commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi del 17 ottobre 2015 così si espresse:

Il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio. Quello che il Signore ci chiede, in un certo senso, è già tutto contenuto nella parola Sinodo. Camminare insieme – Laici, Pastori, Vescovo di Roma – è un concetto facile da esprimere a parole, ma non così facile da mettere in pratica … Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell'ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare … La sinodalità, come dimensione costitutiva della Chiesa, ci offre la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico. Se capiamo che, come dice san Giovanni Crisostomo, «Chiesa e Sinodo sono sinonimi» – perché la Chiesa non è altro che il «camminare insieme» del Gregge di Dio sui sentieri della storia incontro a Cristo Signore – capiamo pure che al suo interno nessuno può essere “elevato” al di sopra degli altri. Al contrario, nella Chiesa è necessario che qualcuno “si abbassi” per mettersi al servizio dei fratelli lungo il cammino».[11]

Da allora il concetto di sinodalità, insieme con la sommaria citazione di san Giovanni Crisostomo son diventati di uso abituale e – mi sia concesso dirlo – pure acritico. Molto più preciso invece è il testo della Commissione Teologica Internazionale cui ho già rimandato, che dice così:

«Sinodo» è parola antica e veneranda nella Tradizione della Chiesa, il cui significato richiama i contenuti più profondi della Rivelazione. Composta dalla preposizione σύν, con, e dal sostantivo ὁδός, via, indica il cammino fatto insieme dal Popolo di Dio. Rinvia pertanto al Signore Gesù che presenta se stesso come «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), e al fatto che i cristiani, alla sua sequela, sono in origine chiamati «i discepoli della via» (cf. At 9,2; 19,9.23; 22,4; 24,14.22). Nel greco ecclesiastico esprime l’essere convocati in assemblea dei discepoli di Gesù e in alcuni casi è sinonimo della comunità ecclesiale. San Giovanni Crisostomo, ad esempio, scrive che Chiesa è «nome che sta per cammino insieme (σύνoδος)». La Chiesa infatti – spiega – è l’assemblea convocata per rendere grazie e lode a Dio come un coro, una realtà armonica dove tutto si tiene (σύστημα), poiché coloro che la compongono, mediante le loro reciproche e ordinate relazioni, convergono nell’ἁγάπη e nella ὁμονοία (il medesimo sentire) (n. 3).

Come non è difficile vedere il testo della Commissione distingue opportunamente due livelli: il primo etimologico,[12] e l’altro linguistico.[13] L’etimologia, infatti, studia la provenienza, la formazione, le radici linguistiche e le trasformazioni nel tempo di una parola; l’uso linguistico, invece, studia come la parola è stata ed è effettivamente usata nella lingua, nei diversi contesti, e quali significati concreti ha assunto. La prima, si dirà, ne studia le origini, la seconda l’uso. Gli esempi per spiegare questa differenza potrebbero essere molti. Così la parola telefono, etimologicamente indica un suono che giunge da lontano; linguisticamente indica un oggetto, un dispositivo che permette di comunicare a distanza. Il passaggio, qui, è da un suono a un oggetto; viceversa accade nella parola sincerus, che etimologicamente significa un qualcosa di integro e senza mescolanza (come un miele puro senza cera o vino senza miscugli); linguisticamente, invece, la parola sincero ha un valore morale e indica un comportamento leale, onesto, verace.

Così è accaduto per la parola sinodo, che nelle sue prime attestazioni ha un valore personale. I cristiani, scriveva sant’Ignazio d’Antiochia agli Efesini, sono synodoi, ossia «coloro che camminano insieme»,[14] sono il popolo di Dio peregrinante su questa terra in direzione dell’unica meta, che è Cristo. Proprio Lui, anzi, è il synodos per eccellenza, il «compagno di viaggio» per i suoi discepoli. In una commovente invocazione conservata negli apocrifi «Atti di Tomaso», leggiamo quest’esortazione: «Credi in Cristo Gesù… Egli ti sarà compagno (synodos) lungo il sentiero pericoloso, ti sarà guida verso il regno suo e di suo Padre».[15]

Se noi non trascuriamo il tenore nativo della parola «sinodo», ma piuttosto lo raccogliamo come una perla preziosa per reinserirlo nell’uso odierno, ecco che l’assemblea «sinodale» vede mistericamente arricchito il suo significato: non è un semplice «camminare insieme», che pure ha il suo valore se dice amicizia e condivisione: esso, però, non ha uno specifico carattere cristiano, ma piuttosto un più ampio valore umano che vale per tutti e non soltanto per un discepolo di Gesù. Per questo fondamentale motivo la Commissione Teologica Internazionale nei primi passaggi del suo documento scrive che la novità di linguaggio nel termine sinodale richiede un’attenta messa a punto teologica, condizione indispensabile perché esso segni un’acquisizione che va maturando nella coscienza ecclesiale (cf. n. 5). Sua premessa ineludibile è che la terminologia della sinodalità tenga sempre presente il fatto che si tratta di un incontro di discepoli i quali hanno Cristo Signore in mezzo a loro, come amico e compagno di strada.

 

Alla luce di una icona evangelica

C’è una icona evangelica, che mi sembra capace di tenere insieme le due realtà evocate dal titolo eucaristia e sinodalità scelto per il nostro incontro, conservando ad ambedue i termini il loro significato profondo: mi riferisco al racconto lucano dei due discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,13-35). Si tratta, oltretutto, di una narrazione che s’inquadra già nel tempo della Chiesa, ossia nel nostro tempo, che intercorre tra la Pasqua del Signore e la sua gloriosa Parusia.[16]

Torniamo un istante con la memoria a quell’episodio. Due discepoli sono in cammino da Gerusalemme verso Emmaus. Il loro, ha tutto il carattere di un cammino «dimissionario». Sono sfiduciati per il tragico concludersi degli eventi, cui hanno assistito, e se ne tornano via alle loro case. Rinunciano alla «missione», che Gesù aveva loro affidato nei giorni della sua vita terrena. La crocifissione del loro Maestro, infatti, era da considerarsi come uno scacco e un fallimento senza speranza. Il Signore, però, si rende loro presente, ma non più come nei giorni della sua vita terrena, bensì nella nuova condizione di Risorto, proprio in quella medesima maniera con cui oggi lo è a tutti noi, cioè in mysterio: nella Parola e nel Sacramento. Gesù «parla», infatti, con loro, spiegando il senso delle Scritture; poi si ferma e accoglie l’invito dei due a rimanere con loro. Ed ecco che, dopo averlo ascoltato, lo riconoscono nello «spezzare il pane». È la loro sinassi. Gesù risorto si avvicina anonimamente a loro, svelandosi piano mediante la sua Parola e in pienezza nella frazione del Pane. Commentando il racconto di Emmaus, san Beda «il Venerabile» riprendendo un frase di sant’Agostino e adattandola ai discepoli di Emmaus annotava: quem in scripturae sacrae expositione non cognoverant in panis fractione cognoscunt: I due discepoli poterono scoprire la presenza del Risorto non già nella spiegazione della Scrittura, ma soltanto nella frazione del pane.[17] Fino a quel momento c’era stato un ardore interiore, ma solo attorno alla mensa eucaristica i loro occhi si aprirono.

Ricchi di questa nuova vicinanza di Gesù, non più fisica come ai giorni della sua vita terrena ma mistica e sacramentale, subito i due discepoli si alzano e, insieme, riprendono il cammino, questa volta all’inverso, non più verso Emmaus, ma verso Gerusalemme donde erano partiti. La «dimissione», difatti, si è trasformata in «missione». Giunti nella città santa annunciano che Cristo è risorto. È questo, vorrei dire, il momento della loro sinodalità.

Com’è facile osservare, per i due discepoli di Emmaus sinassi e sinodo stanno insieme e sono l’uno conseguenza dell’altra: il «camminare insieme» succede allo «stare insieme», n’è il connaturale sviluppo, l’esigenza interiore. Ciò avvenne in figura per tutti noi, che siamo pellegrini su questa terra alla ricerca della Città celeste e che, per questo, ci fermiamo lungo la strada, onde nutrirci insieme del «pane del cielo» e riprendere insieme il cammino. Non per altro, infatti, ci è donata l’Eucaristia, se non per essere il panis angelorum factus cibus viatorum,[18] per conservarci Chiesa «pasquale», ossia nel transitus ex hoc mundo ad Patrem, nel dinamismo vitale di Cristo risorto, che, personalmente presente in mezzo a noi come precursore (cf. Eb 6, 20), ci precede nella gloria del cielo.

Del racconto di Emmaus si potrebbe pure sottolineare il ruolo che in esso svolge la Parola: in principio i discepoli parlano inutilmente e vacuamente fra di loro; poi si dispongono ad ascoltare la Parola di Gesù, accolgono la sua «esegesi» delle Scritture e, dopo averlo riconosciuto «nello spezzare il pane», tornano a parlare fra di loro, ma in una forma nuova, che potremmo chiamare «comunicazione». Si comunicano, infatti, una «esperienza», quella della vita nuova in Cristo Gesù. La loro comunicazione, infine, si conclude e si completa nella lode: «Davvero il Signore è risorto».

D’altra parte, lo stesso rapporto eucaristia-sinodalità esige di per se stesso il passaggio dal rito alla vita. Secondo l’interpretazione medievale è questo il significato del saluto finale Ite missa est: è il cantico della risurrezione, attualizzazione della partenza del popolo di Israele dalla terra di schiavitù verso la terra della libertà. Così Jean Beleth, liturgista e teologo medievale (1135-1182), per il quale l’Ite missa est richiama un popolo che, dopo aver incontrato Dio, riparte nel mondo, liberato e mandato a vivere la gratitudine e la missione cristiana.[19] Nell’esortazione apostolica Sacramentum caritatis (22 febbr. 2007) Benedetto XVI scriveva: «Non possiamo accostarci alla Mensa eucaristica senza lasciarci trascinare nel movimento della missione che, prendendo avvio dal Cuore stesso di Dio, mira a raggiungere tutti gli uomini. Pertanto, è parte costitutiva della forma eucaristica dell'esistenza cristiana la tensione missionaria» (n. 84).

Il rapporto fra eucaristia e sinodalità è pure ampiamente spiegato dal citato documento della Commissione Teologica Internazionale, dove si legge:

Il cammino sinodale della Chiesa è plasmato e alimentato dall’Eucaristia. Essa è «il centro di tutta la vita cristiana per la Chiesa universale, per le Chiese locali e per i fedeli cristiani». La sinodalità ha la sua fonte e il suo culmine nella celebrazione liturgica e in forma singolare nella partecipazione piena, consapevole e attiva alla sinassi eucaristica. La comunione con il Corpo e il Sangue di Cristo fa sì che, «benché siamo molti, siamo un solo Pane e un solo Corpo, poiché tutti partecipiamo di un solo Pane» (1Cor 11,17) … La sinassi eucaristica esprime e realizza il “noi” ecclesiale della communio sanctorum in cui i fedeli sono resi partecipi della multiforme grazia divina … (n. 47).

 

L’affermazione del Crisostomo

Desidero, per concludere, riprendere la citazione di san Giovanni Crisostomo di cui ho prima criticato l’uso generico.[20] È doveroso darne conto. Per contestualizzarla dirò subito che l’espressione, così come è sommariamente citata, è tratta dal commento al Salmo 149,1. Si tratta di un salmo la cui intonazione ci è data dal suo incipit: «Cantate al Signore un canto nuovo; la sua lode nell’assemblea dei fedeli». Si tratta del penultimo dei Salmi dell’Hallel, ossia di quei salmi dei quali san Gregorio di Nissa diceva che sono un tale incoraggiamento alla lode del Signore da potersi equipararsi alla lode eterna degli angeli a Dio, in modo che tutta la propria vita diventi una lode a Dio.[21]

La prima cosa che il Crisostomo fa è commentare il versetto iniziale: Cantate al Signore un canto nuovo. In cosa, si domanda, consiste tale novità? Sotto un profilo strettamente esegetico, poiché già i Salmi 96 e 98 hanno una simile intonazione, anche nel nostro caso la novità è da riconoscersi specialmente nel fatto che il canto sale al Signore dal popolo degli hasîdîm, ossia del resto d’Israele, di quelli che gli sono rimasti fedeli; dal popolo degli anawîm, cioè i «poveri» sui quali Dio si china stringendoli a sé con la sua tenerezza.[22] L’ebreo A. Chouraqui commenta il versetto in senso escatologico: «Per gli ultimi tempi il canto nuovo corrisponde ai cieli nuovi che ricoprono la terra nuova preparata per quelli che dovranno abitarla. La novità del canto è data dalla sua corrispondenza con l’uomo vivente su di una terra e sotto cieli nuovi».[23] Nella lettura cristiana, la novità del canto è motivata piuttosto cristologicamente, poiché si tratta del canto del Verbo Incarnato. Cassiodoro, il cui nome torna spesso nella Liturgia delle Ore, per gettare luce sull’intero salmo diceva che il cantare al Signore è «un canto nuovo» perché rimanda al mistero dell’Incarnazione. È questo il canto nuovo sicché la lode del Signore non può essere elevata da chiunque e dappertutto, ma solo nell’assemblea dei santi, ossia nella Chiesa, «sia che si ritenga che essa sia la “cattolica”, che è realmente dei santi; sia che significhi quella Gerusalemme celeste, che senza dubbio è anch’essa dei santi. Chiesa infatti si traduce come assemblea (collectio), cosa che certamente può essere riferita ad entrambe».[24]

Il passaggio ecclesiologico è connaturale ed è presente sempre nell’esegesi patristica. Così, per l’Occidente, in Sant’Agostino, che scrive: «Cantate al Signore un cantico nuovo, la sua lode nella Chiesa dei santi. Questa è la Chiesa dei santi: la Chiesa del buon frumento sparso in tutto l’universo… La Chiesa dei santi è la Chiesa cattolica».[25] La prospettiva ecclesiologica si ritrova nei padri della Chiesa di Oriente. Così sant’Atanasio, il quale, seguendo in questo Origene e alla luce dei testi paolini di 1Cor 3,16 e 2Cor 6,16, scrive che l’assemblea dei fedeli, o dei santi può essere interpretata anche in riferimento ai singoli cristiani, che sono il «tempio di Dio», il cui corpo è «tempio dello Spirito».[26] Anche per Eusebio di Cesarea il cantico nuovo è quello della Nuova Alleanza compiuta in Cristo, il cantico che come in un coro si innalza a piene voci nella Chiesa al Nome di Cristo.[27]

Giovanni Crisostomo condivide questa lettura cristologico/ecclesiologica e comincia così il suo commento:

Secondo il senso anagogico, è il Nuovo Testamento che designa questo nuovo inno. Tutto, infatti, è diventato nuovo. L’Alleanza (diathéke) : «concluderò con voi una alleanza nuova», dice (Ger 31, 31). La creatura, perché «se uno è in Cristo, è una nuova creatura» (2Cor 5,17). L’uomo, «perché vi siete tolti di dosso l’uomo vecchio, e avete indossato quello nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, a immagine del suo creatore. (Col 3,9). Poiché, dunque, la vita è nuova e perché tutto è rinnovato, che noi parliamo di Nuovo Testamento ed è per questo che il profeta ci esorta ora a cantare un canto nuovo.

In questo esordio il riferimento cristologico è già evidente; altrettanto chiara, però, è la direzione interiorizzante: la novità del canto non è nelle note esteriori, ma nello spirito che lo anima. Prosegue, dunque, il Crisostomo:

Vedete come [ora] esiga il comportamento prima delle parole, il ringraziamento (eucharistian) manifestato dai fatti, come richieda le opere buone, prima d’introdurvi nel coro destinato a inneggiare a Dio. Le parole, infatti, non bastano per ringraziare (eucharistein): bisogna aggiungere anche la virtù delle azioni. «La sua lode sia ascoltata nell’assemblea dei santi».

Il canto, dunque, è nuovo perché sgorga da una interiorità che si immedesima con Cristo; è, ancora, nuovo perché risultato dell’armonia tra interiorità ed esteriorità, della corrispondenza tra parole e opere: alle parole deve aggiungersi la virtù delle azioni! Questa premessa (che proprio riferendosi al Crisostomo san Tommaso chiama »credibilità»[28] è necessaria per entrare nel coro «eucaristico», ossia nel canto di rendimento di grazie. Con linguaggio benedettino diremo: occorre che la mente concordi con la voce.[29] Solo a questo punto, quasi in un logico e consequenziale procedere, il Crisostomo passa alla dimensione ecclesiologica e dice:

Queste parole ci insegnano una seconda cosa. Ci mostrano, infatti, la necessità che una lode sia unisca altre lodi sicché nascano acclamazioni (euphemias) tali da formare un concerto (symphonias). La Chiesa, infatti, è un corpo in cui tutto è bene organizzato (systematos) e forma un tutto armonico (synodou).

Siamo così giunti alla espressione fatidica, quale, però, diventa incomprensibile se staccata da tutto quello che la precede. Prima della parola «sinodo», infatti, ve ne sono altre, ugualmente impegnative, che la preparano e con la quale formano un tutt’uno. Le elenco soltanto:

1. Eucharistia, che vuol dire canto di rendimento di grazie e che nel linguaggio cristiano giungerà presto a indicare quella speciale preghiera che porta all’anamnesi del Cristo crocifisso e risorto e al dono della sua presenza sacramentale;

2. Euphemia, che è una acclamazione di lode che si caratterizza per la sua bellezza e il carattere gioioso;

3. Symphonia, che richiama l’incontro armonioso di voci e di suoni;

4. Systema, che indica un’organizzazione ordinata e completa, al punto che san Gregorio di Nissa l’adopera per indicare la composizione perfetta del corpo di Cristo nell’utero della Madre.[30] È un termine che anche nel linguaggio dei filosofi indica una congiunzione astrale, il rapporto armonioso fra cielo e terra e dei corpi stellari (cosmo); indica ancora l’armonia del canto nella composizione delle diverse voci e l’armoniosa composizione del corpo umano e del corpo ecclesiale.

È solo a questo punto che giunge la parola synodos e per di più non isolatamente, ma formando una endiadi con la parola systema: Ekklesía gar systématos kai synódou estìn ónoma, «Nome della Chiesa è sistema e sinodo»! Nella endiadi la parola «sinodo» si completa con la parola «sistema», cui rimanda e viceversa. Intendere, dunque, il tale contesto il termine «sinodo» come un semplice «camminare insieme», diventa un autentico fuor di luogo e un impoverimento, oltre che un travisamento di senso. L’accostamento tra «sinodo» e «sistema», invece, è tale da esigere fra i due termini una reciproca attrazione. Non due nomi, ripeto, ma piuttosto come due fuochi di una medesima ellisse.

Cosa può, dunque, avere inteso il Crisostomo con il suo accostamento? Nella sua riflessione, quale significato è dato al termine «sinodo»? L’ipotesi più plausibile è che il senso sia quello di assemblea, fatto derivare da quello principale di «congiunzione». Con l’aggiunta, però, di tutte quelle qualità che derivano immediatamente dal termine systema ossia di armonia, ordine e bellezza. Legata, poi, agli altri termini in gioco, la parola «sinodo» giunge ad avere una valenza liturgica. I suoi caratteri, infatti, sono quelli del rendimento di grazie, dell’unanimità e della coralità, della gioia e della festa, della carità e dell’armonia non possono mai mancare a questa assemblea, se vuole davvero meritare il nome di Chiesa. È questo che san Giovanni Crisostomo intende con la sua affermazione: la Chiesa ha il nome di sistema e di sinodo! Da qui una forse migliore traduzione: «La Chiesa è un corpo ben organizzato (systematos),[31]18 che forma un tutto armonico (synodou)».[32]

 

Conclusione

Se queste mie annotazioni hanno un valore, ritengo che si dovrebbe essere un po’ più sobri nel ricorrere alla equivalenza tra «sinodalità» e camminare insieme. Si potrà dire, certo, che è un nuovo uso linguistico; a ben vedere, però, il solo «camminare insieme» non dice nulla di propriamente «cristiano». Indica un valore umano, a prescindere; come, però, ha scritto Manuel Nin, Eparca Apostolico di Grecia, il punto fondamentale da chiarire al fine di non fuorviare la riflessione teologica sulla sinodalità,

è il senso e l’oggetto vero e proprio della preposizione greca συν. Essa non si riferisce al «cammino» bensì a «qualcuno» con cui lo si porta a termine, lo si fa questo cammino. Il significato di sinodo non è quello di «tutti insieme», ma piuttosto quello di «cammino con…». E l’oggetto, o la persona «con cui» la preposizione συν ci collega, ci mette insieme, non è il cammino, neppure siamo noi, i cristiani, laici, preti, vescovi. Ma questo συν…, questo «con…», questa preposizione greca a noi cristiani ci collega, ci porta a una Persona, ed è Cristo. Quindi un primo chiarimento andrebbe fatto: non si tratta di un «tutti camminando insieme…», bensì di un «camminando – tutti certamente – con Cristo…». Senza dimenticare che questo «con Cristo» avviene nella Chiesa, alimentata, vivificata dai Santi Doni del suo Corpo e del suo Sangue preziosi.[33]

Se la sinodalità dovesse perdere il contatto con l’Eucaristia somiglierebbe a quella carovana (synodίa) di cui si legge in Lc 2,44-50: una synodίa dove Gesù non c’è, perché era rimasto nel tempio per occuparsi delle cose del Padre suo. In tale prospettiva eucaristica concludo con le parole rivolte da Leone XIV ai vescovi della Conferenza Episcopale Italiana il 17 giugno scorso, perché vi siano d’incoraggiamento per il nuovo anno pastorale, che oggi inaugurate: la sinodalità diventi mentalità, nel cuore, nei processi decisionali e nei modi di agire

 

Parrocchia di Santa Maria degli Angeli, Termoli (CB), 13 ottobre 2025

 

Marcello Card. Semeraro

 

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[1] Cf. testo in MGH IV, 2- 3 (Poetae Latini Aevi Carolini), pp. 526-529.

[2] X. Léon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, San Paolo, Cinisello Balsamo 1990, p. 992.

[3] Adamo Scoto, De ordine, habitu, et professione canonicorum ordinis Praemonstratensis VII, 12: PL 198, 517: «sicut exterius in uno loco congregamur, sic et intrinsecus in animo uno uniamur».

[4] Cf. testo in Commissione Teologica Internazionale, Documenti 2005-2021, ESD, Bologna 2022, nn. 562-701 (pp. 191-458).

[5] Cf. E. Peretto, v. Sinassi in A. Di Berardino (a cura di), «Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane», II, Marietti, Casale Monf. 1984, p. 3213. Questo Autore annota che «sinassi e l’omonimo di sinagoga provengono dalla stessa radice greca. I primi cristiani, per distinguere le loro assemblee da quelle degli Ebrei  e in seguito da quelle degli eretici adottarono una differente desinenza».

[6] Il termine collecta indica fin dal III secolo una assemblea liturgica. Nel Messale Romano il termine ha il senso di formula eucologica e come fin dal V secolo è usato per indicare la prima orazione pronunciata dal celebrante della liturgia eucaristia a nome di tutta l’assemblea: le sue invocazioni sono, per questo sempre nella forma plurale. Nella collecta è la Ecclesia, che prega. Per una sua storia, cf. M. Righetti, La Messa. Commento storico-liturgico alla luce del Concilio Vaticano II. «Manuale di storia liturgica, III», Ancora, Milano 1966 [ed. anast. 1998], pp. 221-228.

[7] Cf Dionigi Areopagita (Pseudo), La gerarchia ecclesiastica III, 1 [424C]. Gli altri due termini con i quali Dionigi denomina l’Eucaristia sono koinonia (comunione) ed eucaristia. Cf E. Boularand, L’Eucharistie d’après le Pseudo-Denys l’Aréopagite, in «Bulletin de Littérature ecclésiastique» 58, 1957, pp. 193-217; 59, pp. 1958, 39-69.

[8] Tertulliano, De oratione, 19: PL 1, 1182-1183. Poiché nei primi secoli, la statio indicava pure un particolare giorno di digiuno, Tertulliano spiega che la vita cristiana è una milizia spirituale (cf. 2Cor 10,4; 1Tim 1,18). Per il credente, quindi, essendo egli un miles Christi che deve restare «in stazione», cioè vigilante in preghiera e in lotta contro il male., nutrirsi della Eucaristia non è consumare un «pasto» che scioglie il digiuno, ma una forza spirituale che sostiene il credente nella sua disciplina e nella sua lotta. In questo senso, Tertulliano anticipa un tema che tornerà più volte nei Padri della Chiesa: l’Eucaristia non è un cibo che interrompe la penitenza, ma il nutrimento che la rende possibile. Per informazioni generali cf. H. Leclercq, v. Stations liturgiques, in «Dictionner d’Arch. Chr. et de Liturgie» XV/2 (1953), cc. 1653-1657.

[9] Cf. ad esempio ciò che scrive per la domenica Laetare: «La chiesa in cui si celebra la statio prescritta per l’ufficio liturgico non rappresenta soltanto uno spazio fisico, ma simbolizza la Gerusalemme celeste, la città eterna di Dio. Il richiamo al suo nome serve a evocare nella mente e nel cuore dei fedeli, cittadini del cielo in cammino su questa terra, la memoria e il desiderio della città futura. Così, anche se pellegrini e temporanei abitanti di questo mondo, essi salutano da lontano la Gerusalemme celeste che cercano». Analogamente, delle stationes domenicali del tempo pasquale scrive che assumono un valore escatologico e spirituale: «ciascuna domenica, a partire dalla prima in cui il Signore è risorto, la processione liturgica manifesta simbolicamente il nostro cammino verso la vita nuova. Essa richiama l’esempio degli apostoli che, insieme al Signore, si recano in Galilea: un invito a superare il “vecchio uomo” e a vivere nella novità della vita in Cristo. In questo contesto, il vescovo che guida la processione ha il ruolo di guida visibile, indicando ai fedeli la direzione da seguire nel loro pellegrinaggio spirituale, in analogia con il seguire il Signore verso la Galilea della resurrezione»: cf. Liber de divinis officiis, IV,13 e V. 9: PL 170, 102; 130.

[10] Sacrosanctum concilium, 41. Sulla messa stazionale romana e la sua importanza, cf J.A. Jungmann, Missarum sollemnia, I, Marietti, Torino 1953, 59-65; E. Cattaneo, La “Statio”, piccolo pellegrinaggio, in «Pellegrinaggi e culto dei santi in Europa fino alla I Crociata. 8-11 ottobre 1961», Accademia Tudertina, Todi 1963, 245-259.

[11] Questa etimologia J.M. Bergoglio-Francesco l’aveva già sostenuta nel suo intervento del 12 ottobre 2001 nella Relatio post disceptationem che tenne quale Segretario generale aggiunto alla X

Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Disse fra l’altro: «Siamo anche consapevoli che il processo sinodale è stato accompagnato dalla celebrazione e dalla preghiera, che hanno costituito il clima spirituale della nostra congregazione o “camino comune” (sunodos)», in N. Eterović (ed.). Sinodo dei Vescovi. Assemblea generale ordinaria. Il Vescovo servitore del Vangelo di Gesà Cristo per la speranza del mondo, Lateran University Press, Città del Vqaticano 2012, p. 478.

 

[12] Motivato con il rimando a G. Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Clarendon Press, Oxford 1968, pp. 1334-1335.

[13] Motivato con una corretta citazione e spiegazione del testo di san Giovanni Crisostomo «Ἐκκλεσία συνόδου ἐστὶν ὄνομα» (Exp. in Psalm., 149, 1: PG 55, 493.

[14] Cf. Eph. 9, 2: «Siete tutti compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito, in tutto ornati dei precetti di Gesù Cristo».

[15] Acta Thomae, 103, cf. L. Moraldi  (a cura di), Apocrifi del Nuovo Testamento. II. Atti degli Apostoli, Piemme, Casale Monferrato (Al) 1994, 386.

[16] Per l’esegesi, cf. S. Grasso, Luca. Traduzione e commento, Borla, Roma 1999, pp. 623-632. Per una lettura ecclesiologico-sacramentaria, cf. L.-M. Chauvet, Symbole et sacrement. Une relecture sacramentelle de l’existence chrétienne, du Cerf, Paris 1987, pp. 172-176.

[17] In Lc. Evang. Expos. VI, 24: PL 92, 627. Cf. Agostino, Questiones evangeliorum, II, 51:  PL 51, 1362.

[18] S. Tommaso d’Aquino, Inno Lauda Sion, str. XXI.

[19] Cf. Johannes Belethus, Rationale divinorum officiorum, 49: PL 202, 56: «Tribus vero modis finitur missa, primo per Ite, missa est in solemnitatibus, quod est quasi abeundi licentia, ac sumptum est ab Exodo (Exod. XII) . Non quidem secundum verba, sed juxta mentem et rei intelligentiam, quando Israeliticus populus ex Aegypto permissu Pharaonis egressus est. Vel etiam quando e Babylonica captivitate, permittente Cyro, ad propria regressus est, Deo referens gratias. Sic et nos accepta benedictione ultima, ad coelestem patriam remeare debemus, ubi in gratiarum actione semper feliciter vivemus». Per il significato della formula cf. M. Barba, Missale Romanum. Processi evolutivi nella terza edizione emendata del 2008, VivereIn, Monopoli 2015, pp. 118-124.

[20] Per quanto segue cf. M. Semeraro, Sinodo nome della Chiesa: una citazione», in L. de Lorenzo, M. Proietti (a cura di), Piccola scuola di sinodalità, EDB, Bologna 2013, 159-180.

[21] In Psalmos, VII: PG 44, 513. Si aggiungerà, come annota G. Ravasi, che questo salmo potrebbe pure intendersi come l’ultimo dell’intero Salterio, considerando il Salmo 150 come la dossologia conclusiva.8 Veniamo, dunque, al commento del Crisostomo: G. Ravasi, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, III, EDB, Bologna 1985, 981-985.

[22] Sui significati dei termini e la traduzione con «i pii», cf. pure L. Alonso Schökel – C. Carniti, I Salmi, II, Borla, Roma 2007, pp. 877-878; G. Castellino, Libro dei Salmi, Marietti, Torino-Roma 1953, pp. 534-535.

[23] Cf. A. Chouraqui traduit et comment Les Psaumes. Louanges, Du Rocher 1996, p. 750 n. 4.

[24] Ps. CXLIX. Expositio: PL 70, 1048. Qui il versetto 2 del Salmo è attribuito sia alla Chiesa pellegrina sulla terra, sia alla Chiesa celeste (synodia).

[25] Enarr. in Psalm. CXLIX, 12: PL 36, 1949-1950. La lettura agostiniana sarà ripresa nel Medio Evo, ad esempio da Bruno di Chartres (X sec.), nel suo commento al Salmo 149: cf. PL 152, 1416.

[26] Cf. De tituli Psalmorum, Ps. CXLIX: PG 27, 1338. Per Origene, da cui, peraltro, dipendono in molti, l’assemblea dei santi è l’assemblea degli uomini nuovi in Cristo, cf. PG 12, 1680.

[27] Cf. Comm. in Psalmos, Ps. CXLIX: PG 24, 72.

[28] Citando il commento del Crisostomo al vangelo secondo Matteo, san Tommaso afferma che è credibile chi alle parole unisce i fatti: «ut a signis credibilis appareret in his quae dicebat», Catena in Mt., XIX, l. 1

[29] Cf. Regula XIX, 7. Un breve, ma denso commento al detto benedettino lo fece Benedetto XVI nell’Udienza del 26 settembre 2012: «Elemento fondamentale, primario, del dialogo con Dio nella liturgia, è la concordanza tra ciò che diciamo con le labbra e ciò che portiamo nel cuore. Entrando nelle parole della grande storia della preghiera noi stessi siamo conformati allo spirito di queste parole e diventiamo capaci di parlare con Dio».

[30] Cf. Epistulae, III: PG 46, 1021.

[31] Il Crisostomo attribuisce alla Chiesa il carattere di systema («comunità ben organizzata, salda») anche nel commento a 1Tes 1,1, dove scrive: «Alla Chiesa di Tessalonica. Non si tratta di un’affermazione priva di intenzioni. Questi fedeli erano ancora poco numerosi e senza molta coesione, ed è per incoraggiarli che l’apostolo usa qui il termine Chiesa. Non lo usa sempre quando si rivolge a comunità consolidate, numerose e fortemente costituite. Il termine Chiesa implica sia il grande numero che l’unione ben salda dei membri; è come un incoraggiamento che l’apostolo lo applica ai Tessalonicesi»: PG 62, 303.

[32] Come per systema, il Crisostomo ricorre al termine synodos per indicare la Chiesa anche nel commento a 1Cor 11,17-34 che riguarda il come celebrare la cena del Signore. Scrive: «La chiesa è stata fatta non per dividere coloro che si riuniscono in essa, ma per unire coloro che sono divisi, e questo è il significato della parola assemblea (synodos)»: In Epist. primam ad Cor. Homil. 27, 3: PG 61, 228.

[33] Testo su https://drive.google.com/file/d/1kfH7Tlm0OsygmbogaVQp0nrBdBim8F4v/view.