L’eu-topia di Giorgio La Pira

 

Per costruire la città dei Sacramenti

L’eu-topia di Giorgio La Pira

 

Partecipo con piacere alla presentazione di questo bel volume (A. D’Angelo, «Bisogna smettere di armare il mondo». Giulio Andreotti – Giorgio La Pira. Carteggio (1950-1977), Edizioni Polistampa, Firenze 2024). L’ho letto con due sentimenti. Anzitutto l’interesse. Non sono uno storico, ma l’attuale mio ministero di Prefetto delle Cause dei Santi m’imponeva una certa attenzione visto, che vede protagonista un Servo di Dio, che il 5 luglio 2018 papa Francesco ha dichiarato venerabile. Nel volume c’è poi la lettera n. 5 del 20 sett. 1951 dove La Pira accenna al discorso che Andreotti aveva giorni prima tenuto (in sostituzione di A. De Gasperi) al Congresso Eucaristico Nazionale di Assisi, il primo in Italia dopo gli eventi bellici. Questo semplice fatto storico mi ha ricordato che cinque anni dopo sarà proprio La Pira a tenere un discorso analogo nel Congresso Eucaristico Nazionale che si svolse a Lecce da 29 aprile al 6 maggio 1956. La coincidenza mi ha subito sollecitato a rileggerlo e questo ha suscitato in me il secondo sentimento, che è la commozione.

1. Non so se quel discorso, che tenne sul tema La comunione eucaristica e l’unità del Corpo mistico, è conosciuto e registrato tra gli scritti di La Pira. Ad ogni modo, in vista di questo incontro, ho voluto rileggerlo allo scopo di rinvenire qualche corrispondenza con il carteggio di cui questa sera parliamo. Non poteva non esserci! Già nella lettera appena citata La Pira parla di «Firenze – esperimento di “civiltà cristiana”» (p. 101): tema che gli fu molto a cuore nella consapevolezza di una particolare vocazione della Città che, recuperando una immagine biblica la Pira (quasi citando G. Savanarola, il profeta di Firenze) indicava come seconda Gerusalemme, città posta sul monte, con la vocazione di annunziare al mondo la pace universale. In questo carteggio La Pira parla di Firenze come «punta preziosa» della civiltà cristiana e «per noi pegno di cose future» (Lett. n. 61, p. 165). Poco dopo parla della «bellezza teologale della città cristiana» e dell’impegno di difendere e diffondere «la bellezza cristiana, riflesso della bellezza di Dio e sigillo della nostra civiltà» (Lett. 62, p. 166). Come già negli altri scritti, anche in questo carteggio lo sguardo mistico di La Pira non è ristretto alla città di Firenze. Nelle lettere alle claustrali riprende dall’Apocalisse l’immagine delle città poste sotto la protezione di un angelo per dire che anche oggi gli angeli e i santi accompagnano la vita dell’uomo e delle città. Ed è così che, nella prospettiva delle Beatitudini, come quello di Péguy anche quello di La Pira è uno sguardo talmente universale da potersi configurare come teologia della storia. Scrive: «Come sono belle le prospettive della storia dei popoli, se si vedono nella luce della grazia e della speranza. La terra Dio l’ha creata per questo: perché fiorisca, come la Gerusalemme messianica!» (p. 187).

Nel discorso fatto a Lecce nella piazza del Congresso (che sarà poi popolarmente chiamata “dei trecentomila”) La Pira rievocò questi temi e lo fece con abilità retorica ricorrendo ad un abituale accostamento, che nel suo esordio espresse denominandosi «Sindaco di Firenze e per riflesso Sindaco di Lecce, quest’altra Firenze del nostro paese, io non conoscevo questa Città. Ho visitato le sue chiese e sono rimasto impressionato per la loro particolare bellezza: è l'indice di una fede tanto viva. quanto viva fu, speriamo che sia ancora, la fede dei Fiorentini che proclamarono Cristo Re della città ufficialmente». Più avanti disse: «poc’anzi si parlava di Lecce, la città, la Firenze dell’Italia meridionale; ma ditemi una cosa: amici miei, questa Firenze piccola e bella la vostra Lecce, come la Firenze grande e bella che è la mia Firenze, la nostra Firenze, melo dite perché sono belle, perché hanno uno splendore che attira? Perché c’è ancora un occhio ed un cuore che ad esse si rivolgono attratti da qualcosa di misterioso? Perché? Perché fondate sui Sacramenti, fondate sul modello della città dei Sacramenti, fondate sul monastero, fondate sulle cattedrali, fondate sulla speranza, sulla preghiera e sulla bellezza delle cose eterne».

Era il linguaggio, lo stile di La Pira. Solo un esempio molto simile in una lettera a Dell’Acqua del 24 ottobre 1955, che leggo dal volume con le lettere a Pio XII curato venti anni or sono dal prof. A. Riccardi: «Cattedrali, Monasteri, bellezza pura (teologale), liturgia, teologia, sacra scrittura ecc.; tutto questo “sistema” di valori divini torna ad essere, nonostante le apparenze contrarie, l’asse attorno a cui si edifica una civiltà cristiana più bella e più fervente di quella passata» (G. La Pira, Beatissimo Padre a c. di A. Riccardi, Mondadori, Milano 2004, p. 152). Era, insomma, uno sguardo mistico sulla città cristiana, che a Lecce La Pira chiamava «città dei Sacramenti» avviando da qui una riflessione «sulla grave crisi del tempo attuale», che La Pira individuava non come dramma di economia o di soluzioni politiche e sociali, ma come concezione strutturalmente materialista atea: «una concezione integrale della vita, un modo di concepire l’esistenza, di convalutare l’uomo, la storia, l’universo, i rapporti fra le creature, i rapporti fra le classi, ogni cosa: una concezione, integrale dell’uomo e del mondo. È questo il dramma presente».

A fronte di ciò la sua domanda era: «ma questi Sacramenti che io frequento, questo Corpo Mistico di cui faccio parte, questa misteriosa e divina realtà nel cui circolo io sono introdotto, ma tutto questo che valore ha, che effetto ha, per la città nostra, per la città dell’uomo e per la civiltà dell’uomo? È questo il punto più drammatico. la domanda più grave che tutti voi, tutti noi, abbiamo il dovere di farci». Sono interrogativi ai quali sembra difficile cominciare a dare delle risposte, ma occorre farlo per portare avanti la costruzione della mistica città dei Sacramenti: ciascuno di noi «chiunque esso sia, per piccola che sia la sua responsabilità, egli ha davanti a se i suoi fratelli, ha davanti a se questa visione cattolica dell’esistenza; deve per quanto possibile fare in modo che egli porti una pietra salda per edificare nella città cristiana e per la civiltà cristiana e per risolvere alla luce dell’Evangelo e secondo questa prospettiva di bellezza eterna e di grazia, tutti i problemi che affannano il tempo nostro».

Per iniziare, a Lecce di queste pietre salde La Pira ne indica almeno una: «Signori, se voi credete il Corpo Mistico è in questa città dei Sacramenti, domando a voi: permetterete che il vostro fratello, che con voi ha partecipato alla mensa eucaristica, che ha la ricchezza della vita di Cristo nel suo cuore, come voi, sia privo del pane quotidiano, sia senza casa, sia privo di assistenza paterna? Non siete membri dell’unico corpo di cui Cristo è il capo, i tralci dell’unica vite che è Cristo? Come fate a non risolvere i problemi dei vostri fratelli, se essi con voi fanno parte di questa unica speranza e di questa, unica e divina grandezza? È così semplice la cosa».

Si apre così il sipario sul tema che tante volte appare in questo carteggio: il soccorso ai poveri! D’altra parte l’incontro fra Andreotti e La Pira avvenne proprio nella «Messa del povero» a Roma in San Girolamo della Carità. Fu un rapporto lungo, non sempre facile ma sempre onesto e corretto. Nel processo canonico per la beatificazione e canonizzazione di La Pira (che il prof. D’Angelo ha veduto nella copia presente nell’Archivio di Andreotti e che cita in questo suo libro), alla domanda di prassi sulle ragioni per le quali desiderava la glorificazione del Servo di Dio Giulio Andreotti risponderà più o meno così: a parte i meriti di La Pira, la conseguenza che ne deriverebbe è che c’è almeno una eccezione all’idea che i politici sono tutti diabolici! Possiamo immaginare che pronunciando questa sua risposta Giulio Andreotti abbia sorriso…

 

2. Collegato al primo, c’è un altro tema che ricorre in questo carteggio penso vada la pena richiamare. È la richiesta di aiuto per i Monasteri di vita contemplativa. È noto che questa prassi, avviata dal 1951, quando divenne Presidente delle Conferenze di San Vincenzo della Toscana, proseguì in vario modo per vent’anni. In una lettera a Pio XII del 20 marzo 1958 si legge: «Beatissimo Padre! Questa volta chi vi scrive è il Presidente del Consiglio Superiore della Società di S. Vincenzo: è la prima volta che mi presento a Voi in questa veste. E perché? ...». In questa lettera La Pira chiede al Papa una udienza invisibile per i suoi monasteri di clausura. Come li intende? Scrive: «realtà mistica epperciò profondamente reale: la Chiesa possiede nei suoi Chiostri le pietre più preziose, le perle più luminose di cui è formata la celeste Gerusalemme e che formano, in certo modo, la gioia di Cristo, di Maria, e di tutta la corte celeste!» (Beatissimo Padre cit., p. 229).

Quelle lettere erano per La Pira un segno di comunione e una occasione per chiedere preghiere, ma fu anche opportunità per informare le claustrali di un numero sempre più ampio di monasteri italiani e anche esteri di tante sue iniziative politiche e sociali. L’Abbadessa del Monastero benedettino di Lecce mi ha raccontato di come in Comunità attendessero con ansia quella periodica corrispondenza – che attualmente conservano – dalla quale traevano spunti di meditazione e di preghiera. «In quegli anni – mi confidava – non disponevamo di mezzi di comunicazione sicché quelle lettere erano per noi come degli squarci sui bisogni della Chiesa e del mondo».

Anche in questo carteggio c’è testimonianza al riguardo. Andreotti scrive a La Pira nell’ottobre 1964 e gli racconta del suo viaggio in Giappone e di come abbia lì incontrato una «comunità claustrale di cappuccine, composta di suore fiorentine e di suore siamesi. Attraverso la ruota (in un colloquio che non mi sarà facile dimenticare) la superiora mi ha parlato delle tue lettere e dei tuoi aiuti, pregandomi di portarti il loro ricordo e l’assicurazione della preghiera quotidiana. Sono esperienze che allargano i polmoni» (Lett. p. 78, p. 184).

Anche in questo carteggio i Monasteri erano, a loro volta, come già detto, realtà destinate «alla più alta operazione religiosa e di civiltà: la lode collettiva, liturgica di Dio. Si tratta di una funzione essenziale, oltre che del corpo mistico, anche del corpo sociale…» (Lett. n. 45, p. 143). In altra lettera aveva scritto: «l’orazione dei monasteri di clausura, forza vitale, che Cristo inserisce nel corpo delle nazioni cristiane ed alla radice stessa dell’autentica civiltà cristiana!» (Lett. p. 83, p. 189). Il tutto ha per La Pira un valore profetico. Scrive: «Si tratta, caro Andreotti, di valori ai quali si riattacca la società nuova, quella di domani: la misura di essa e il suo valore sarà ancora dato dalla preghiera collettiva, come nel medioevo» (lett. cit. p. 143).

Il Medioevo! In La Pira – concordante in ciò con J. Maritain, del quale nei suoi scritti cita spesso l’Umanesimo integrale – è ricorrente la lettura della crisi della civiltà occidentale in termini di discostamento dai grandi valori spirituali e umanistici del Medioevo. A Lecce dirà: «Il Medio Evo, contro il quale si scagliano gli uomini che non hanno meditato a fondo la storia umana, le grandi direttrici-del pensiero cristiano, il Medio Evo cristiano fece cose di incalcolabile valore. Edificò in ogni città una piccola Gerusalemme, fece di ogni città dell’uomo in qualche modo Io specchio della città sacramentale, mise dovunque il sigillo di una bellezza che non perisce. È per questo che noi abbiamo una ricchezza eterna ancora: perle preziose, che dobbiamo gelosamente custodire».

In La Pira, si parlerà per questo di «utopia»? In questo carteggio il termine ricorre due volte. Qui ci interessa la lettera 107 del 19 marzo 1972 dove è evocata l’ombra di Hitler nelle concezioni mondane. È tuttavia un’ombra che non vincerà, poiché la vittoria è per «l’altra visione storica “profetica”: quella “biblica” fondata ed orientata verso “l’utopia” di Isaia: verso l’unità, la pace, il disarmo e la giustizia del mondo!» (p. 225). Parlandomi di La Pira, un amico mi fece notare che la sua non è utopia, ma una eu-topia! È la speranza che con lui noi nutriamo.

Giunto in fine, mi accorgo di non avere ancora spiegato perché la lettura di queste pagine insieme con l’interesse ha provocato in me pure la commozione. Lo dico in poche parole. Nel discorso fatto a Lecce, La Pira disse fra l’altro di avere visto, al mattino, «lo spettacolo di paradiso: era la città dei Sacramenti visibile. Tutti i bambini, i bambini attorno al Signore presente nel Sacrificio dell’Altare, e non solo attorno a Lui, ma a Lui uniti, molti per la prima volta attraverso la comunione eucaristica. Che bello, amici miei! Il paradiso, la città dei Sacramenti». Tra quei bambini, al mattino del 2 maggio 1956 c’ero anch’io, che facevo la mia «prima comunione».

 

Società Dante Alighieri – Palazzo Firenze, Roma 26 febbraio 2024

 

Marcello Card. Semeraro