La santità in Tommaso d’Aquino

 

La santità in Tommaso d’Aquino

«Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20)

 

«Io penso che il compito principale della mia vita sia quello di esprimere Dio in ogni mia parola e ogni mio sentimento».[1] Quando vergò queste righe – che sono tra le prime della Summa contra Gentiles – fra Tommaso aveva poco più di venticinque anni e stava per rientrare in Italia dopo la prima esperienza d’insegnamento a Parigi. Ciò che le caratterizza è il tono molto personale, ricco di emozione e di giovanile fervore. Sono una dichiarazione d’intenti, che non riguarda soltanto il suo lavoro teologico, ma, più ancora, il senso della propria vita. Quell’affermazione iniziale si completa e si chiude con quest’altra, riferita ancora a Tommaso quando, in preghiera davanti all’immagine del Crocifisso nella cappella San Nicola a Napoli, si sentì dire da Gesù: «Tu hai parlato bene di me, Tommaso, cosa desideri come ricompensa? – Nient’altro che te, Signore», fu la risposta.[2]

I due testi sono assai eloquenti per dirci quale sia stata la maniera con la quale Tommaso intendeva la santità: relazione con Dio, significata e manifestata dall’amore e con l’amore all’umanità di Cristo, poiché – come egli stesso scrive nella Summa Theologiae, l’umanità di Cristo ci conduce come per mano verso la divinità.[3] L’amore verso l’umanità di Cristo è per Tommaso la pedagogia per la santità. Per lui l’ascensus verso Dio percorre la stessa via del descensus di Dio verso di noi, ossia la carne di Cristo.

Il Maestro di Aquino non ha scritto, come San Bonaventura, un’opera titolata Itinerarium in Deum; lo ha fatto, però, con tutta la sua teologia che, nella stesura della Summa Theologiae, ha il proprio vertice, anche letterario, nel mistero dell’Incarnazione dell’eterno Figlio del Padre. D’altra parte, Tommaso applica lo schema del reditus in Deum proprio a proposito della devozione verso i santi. Scrive, infatti: «Il fatto che i santi, trovandosi in patria, sono i più vicini a Dio esige che noi, ancora nel corpo e pellegrini lontani dal Signore, siamo ricondotti a lui mediante i santi e ciò accade quando, attraverso di loro, la bontà divina diffonde verso di noi la sua efficacia. E poiché il nostro ritorno a Dio deve corrispondere al progresso della sua bontà verso di noi, alla stessa maniera in cui i benefici di Dio ci vengono per intercessione dei santi, così la loro intercessione siamo ricondotti a Dio sì da ricevere nuovamente i suoi benefici; ed è per questo che noi li invochiamo quali nostri intercessori presso Dio e pure quali nostri mediatori quando chiediamo loro di pregare per noi».[4]

Abitualmente si è ritenuto che non soltanto nello Scriptum super Sententiis, ma anche nella Summa Theologiae Tommaso abbia adottato lo schema platonico dell’exitus-reditus. La cosa, asserita da M.-D. Chenu e anche da altri, oggi non è più così pacifica presso gli studiosi.[5] Rimane, ad ogni modo il fatto che pure in quest’opera è evidente la tensione cristologica.

Annunciata fin dal principio della Summa, dove si legge che Cristo, secundum quod homo, via est nobis tendendi in Deum (Iª q. 2 pr.),[6] ha come corrispondente quanto leggiamo nel prologo della Terza Parte, dove si dice che Cristo viam veritatis in seipso demonstravit, per quam ad beatitudinem immortalis vitae resurgendo pervenire possimus. A me pare che, per intendere cosa sia secondo Tommaso d’Aquino la santità e in cosa, a partire dal suo insegnamento, consista l’essere santo, questo sia un dato fondamentale.

 

La santità: camminare con Cristo verso il Padre

La definizione tomista della santità può, dunque, essere riassunta nel passo in cui Tommaso commenta il racconto della Cena nel vangelo secondo Giovanni nel punto in cui Gesù si dispone a lavare i piedi dei discepoli: «sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che da Dio era uscito e a Dio andava, si alzò da tavola …» (13,3-4). Analizzando parola per parola il testo evangelico, egli giunge all’espressione: a Dio andava e spiega che «la santità dell’uomo consiste nell’andare a Dio. Ed è proprio questo che l’evangelista ha voluto indicare, perché proprio andando a Dio Cristo ha fatto suo compito quello di ricondurre a Dio tutti gli altri».[7] Santità, dunque, è muoversi verso Dio. Meglio, è lasciarsi guidare da Cristo il quale, nel cammino verso il Padre, si fa pure nostro compagno di viaggio.

La descrizione è essenziale al massimo, ma oltremodo suggestiva. Commentandola, il p. Daniel Ols mette in evidenza che per San Tommaso la santità non consiste nelle penitenze e le macerazioni della carne e neppure consiste nelle opere buone, o nell’esercizio della virtù, bensì fondamentalmente nella relazione con Cristo.[8] Vediamo questo con uno sguardo veloce.

Le penitenze e le macerazioni della carne, anzitutto. Esse, insegna Tommaso, hanno un valore non in sé, ma soltanto se collegate all’esercizio di una virtù.[9] Occorre, pertanto, esaminare in quale prospettiva e con quale scopo si compie una rinuncia, o un atto penitenziale. Un digiuno, ad esempio, ha un valore spirituale se è espressione della virtù della temperanza, oppure un aiuto per l’esercizio della virtù della castità (cf.  STh II-II, q. 88 a. 2 ad 3). E poi, prosegue Tommaso e la cosa è importante, le stesse penitenze non debbono essere sconsiderate, bensì praticate con il dovuto discernimento – che implica pure equilibrio e saggezza – e in modo tale da non danneggiare la salute (cum debita discretione et natura non nimis gravetur). Al n. 59 di Gaudete et exsultate Francesco rimanda all’insegnamento di San Tommaso d’Aquino il quale «ci ricordava che i precetti aggiunti al Vangelo da parte della Chiesa devono esigersi con moderazione “per non rendere gravosa la vita ai fedeli”, perché così si muterebbe la nostra religione in una schiavitù».

Riguardo, poi, al compimento delle opere buone e all’esercizio delle virtù il principio di San Tommaso è che pure le azioni più grandi non hanno senso e nulla valgono se non sono attuazione ed espressione della carità. Questa, difatti, è il criterio di misura della perfezione della vita cristiana.[10] Se, perciò, manca la carità sarebbe illusorio parlare di perfezione poiché fede e speranza sono davvero virtù solo se sono congiunte alla carità e senza di essa la loro pratica non servirebbe a nulla.[11]

Non è possibile entrare qui nel dettaglio,[12] mi pare utile, tuttavia, ricordare che nella dottrina tomista ci sono due prospettive secondo le quali è possibile considerare la carità: secondo il suo oggetto e secondo la sua intensità, o anche secondo gli oggetti ed effetti («scilicet ut perfecte faciat»), oppure secondo la intensità affettiva («scilicet ut perfecte diligat»).

Per Tommaso la perfezione della vita cristiana si misura essenzialmente secondo l’intensità della carità. Questa importa ed esige senz’altro il compimento di opere che manifestino l’affetto, ma l’intensità e la grandezza dell’amore non sono, di per sé, legati e condizionati dalle opere che si compiono.[13] È, dunque, possibile avere una carità perfetta, senza che per questo si facciano opere straordinarie.[14] Per questa ragione in Gaudete et exsultate Francesco può scrivere che i santi «ci spronano a non fermarci lungo la strada, ci stimolano a continuare a camminare verso la meta. E tra di loro può esserci la nostra stessa madre, una nonna o altre persone vicine. Forse la loro vita non è stata sempre perfetta, però, anche in mezzo a imperfezioni e cadute, hanno continuato ad andare avanti e sono piaciute al Signore» (n. 3).[15]

Ciò detto, è doveroso aggiungere alla carità un altro punto di riferimento ed è la verità. Lo stesso martirio, perché davvero sia tale deve avere il suo riferimento alla verità: pertinet ad rationem martyrii ut aliquis firmiter stet in veritate.[16] Se, come ricordato in principio, la santità è relazione con Dio in Cristo, un passaggio della IIa-IIae ci aiuta a capire meglio: sanctitas dicitur per quam mens hominis seipsam et suos actus applicat Deo «si chiama santità ciò per cui la mente dell’uomo applica se stessa e i suoi atti a Dio» (q. 81, a. 8, c.).

Tommaso ha appena citato l’Apostolo, dove scrive: «né morte né vita… potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rom 8,39). È evidente che la certezza dell’Apostolo è tutta fondata sulla verità della carne di Cristo ed è in tale contesto che sarà spiegato ciò che scrive Tommaso: sic igitur sanctitas dicitur per quam mens hominis seipsam et suos actus applicat Deo.[17] Osserviamo un po’ nel dettaglio.

Mens hominis: per Tommaso la mens è il centro dell’uomo,[18] ciò che lo distingue fra tutti gli esseri creati e lo rende unico e consiste nella inerenza fra memoria, intelligenza e volontà.[19] Ne segue che la santità non è una questione di soli affetti e sentimenti, anche se – come prima accennato – essa ridonda senz’altro nella sfera affettiva, passionale. Una santità che non ama, non è santità! Nella santità, però, si coniugano armonicamente la memoria salutis, l’intelligenza della verità e la volontà orientata al bene, al vero, al giusto, come cantiamo per la lode a Dio: Vere dignum et iustum est, aequum et salutare.

Applicat: in altri testi affini al nostro, Tommaso ricorre all’espressione refert in Deum, ossia riferire, riportare a Dio. Si tratta, insomma, di prender Dio come fine: Dio deve essere il fine della nostra mente e dei suoi atti. Per la mente, avere Dio come fine vuol dire impegnarsi per conoscere e amare Dio: il santo cerca di conoscere Dio e, poiché così facendo scopre sempre di più quanto Dio sia degno di amore, allora lo ama sempre dipiù. Si crea, allora, un circolo virtuoso: più si conosce Dio, più si capisce quanto è degno di esser amato e più lo si ama; quanto, poi, più lo si ama, più si desidera di meglio conoscerlo e così via. Ci sono poi gli altri atti dell’uomo, i quali hanno un fine immediato che non è, né può essere Dio; anche questi, però, possono essere ordinati a Dio come a loro fine ultimo. Ne segue che il santo autentico è colui la cui vita trova senso soltanto in riferimento a Dio, poiché è il fine a dare senso. Questo si verifica perfettamente in Gesù Cristo.

Un’ultima precisazione, però, è necessario fare ed è che tutto, la conoscenza e l’amore per Dio fin qui molto sommariamente descritti, nell’uomo possono esserci soltanto come frutto della grazia. È un tema, questo, classico nella dottrina cristiana. Senza l’aiuto della grazia non è possibile amare Dio sopra ogni cosa; senza la grazia non si può meritare la vita eterna, non si può risorgere dal peccato. Questo vale anche per la conoscenza della verità. San Tommaso lo ripete di continuo ed è addirittura superfluo citare dei passi. Egli prediligeva un testo (lo cita per ben diciotto volte) che supponeva di Sant’Ambrogio: omne verum, a quocumque dicatur, a spiritu sancto est! È una citazione che attraversa tutta la sua opera.[20]

Nell’esortazione Gaudete et exsultate, nelle pagine dedicate all’attuale pelagianesimo Francesco sottolinea più volte questo aspetto.[21] La santità è frutto della grazia, che per questo è chiamata santificante. Il CCC la descrive come «il dono gratuito che Dio ci fa della sua vita, infusa dallo Spirito Santo nella nostra anima per guarirla dal peccato e santificarla» (n. 2023). Questa grazia, Tommaso la chiama pure «grazia delle virtù e dei doni»,[22] in quanto spinge non solo a sempre meglio conoscere e amare Dio, ma anche, ovviamente, a vivere in modo coerente con questo fine sicché in questa prospettiva è possibile collocare il valore delle opere di penitenza e delle opere buone, di cui è stato detto.[23]

Secondo San Tommaso la santità deve essere nel cuore, la verità sulle labbra e la giustizia nelle opere: sanctitas sit in corde, veritas in ore, iustitia in opere[24] e questa è davvero una bella sintesi per ciò che vuol dire essere santi.

 

Non vivo più, ma Cristo vive in me

Dopo quanto detto in termini generali sulla dottrina tomista sul tema della santità, desidero ora soffermarmi sul suo commento a uno specifico testo paolino che, conformemente a quanto sin qui sottolineato, descrive la santità come totale relatività del cristiano a Cristo. Il brano è quello che l’Apostolo scrive in Gal 2,20: «non vivo più io, ma Cristo vive in me», brano che ha un lapidario parallelo in Fil 1,21: «per me il vivere è Cristo».[25]

Il testo paolino ha valore autobiografico e ha un senso totale poiché l’Apostolo, che pure ha appena dichiarato la sua mistica contemporaneità con l’evento della Croce («sono stato crocifisso con Cristo», v. 19), ora capovolge del tutto la formula affermando che Cristo vive in lui.[26] La novità è stupefacente: una persona, Cristo, diventa l’io di un’altra e questo non abolendo la sua identità, ma diventando il centro propulsore della sua persona ampliandola in quella dimensione infinitamente più grande, che è la vita di Cristo risorto. Qui, «il motivo dominante non è una mistica unione con Cristo, legata ad un momento privilegiato della vita dell’Apostolo, ma piuttosto l’azione della Pasqua di Gesù a livello personale e caratterizzante l’intera esistenza di Paolo e di ogni cristiano».[27]

Questa non è solo la santità di Paolo, ma è quella di ogni cristiano: la vocazione per ciascuno di noi. Per Romano Guardini, con l’affermazione paolina siamo nel cuore della concezione cristiana della santità, poiché si tratta della in-esistenza di Cristo nel cristiano: un «essere di Cristo nell’uomo», che può essere definito interiorità cristiana.

Guardini ne tratta in più luoghi, ma qui sarà sufficiente ricordare la sua opera più famosa e quella a lui più cara, ossia Il Signore, che è del 1937. Egli ne scrive trattando del mistero della Pentecoste e in tale contesto sottolinea che l’opera dello Spirito è creare l’uomo nuovo; l’uomo, cioè, che ha in Cristo la forma vitale della propria esistenza. Spiega che «la forma che fa il cristiano; quella che è destinata a penetrare in tutte le sue espressioni, a ridurre in unità tutti i diversi fatti della sua vita, ad essere riconosciuta in tutto, è Cristo in lui». Spiega pure che lo stesso Cristo, di cui scrive San Paolo, «vive pure in quell’altro là e in quel terzo e quarto e in tutti quelli che credono in lui. Ne consegue una comunanza di derivazioni… L’esperienza genuina di questa comunanza è il Padre nostro. Qui parla il Noi cristiano».[28]

È, dunque, interessante vedere come San Tommaso ha integrato il testo paolino nella sua concezione della santità cristiana, che – è appena il caso di ricordarlo – egli concepisce fondamentalmente come dinamica relazionale tra Cristo e l’uomo e viceversa. I luoghi in cui egli cita il brano paolino sono ben diciotto e di questi quattro sono riferiti al capitolo IV del De divinis nominibus di Dionigi Areopagita.

I primi due riferimenti sono presenti nel Commento alle Sentenze e hanno sottolineature diverse. La prima si colloca nell’ambito della discussione se la carità debba mettere Dio sopra ogni cosa: Utrum Deus sit super omnia diligendus ex caritate.[29] La risposta alla domanda è senza dubbio positiva e fa leva sulla dinamica dell’amore stesso, che porta all’unione. Poiché, poi, l’amore di Dio è infinitamente più grande dell’amore umano e pertanto, quando Egli ama l’uomo, lo accoglie e lo abbraccia al punto da portarlo verso di sé sì da potersi dire che lo fa vivere della sua stessa vita: sicut apostolus dicit Gal 2, 20: vivo ego, jam non ego, vivit vero in me Christus. La prima risposta di Tommaso s’inserisce, dunque, nell’ordo caritatis.

La seconda sottolineatura si pone nell’ambito sacramentale e propriamente nel contesto dell’efficacia della Eucaristia.[30] Qui San Tommaso ricorda che diversamente dal cibo materiale, che perde le sue qualità e si converte in chi lo mangia, quello spirituale muta in sé chi di esso si ciba sicché l’effetto proprio di questo Sacramento è la conversione dell’uomo in Cristo.[31] Da ciò segue come effetto la crescita spirituale, sostenuta dalla crescita nelle virtù e dalla guarigione di ciò con il peccato era stato perduto.

Altre letture Tommaso le riserva alla figura stessa dell’Apostolo Paolo, il quale aveva in Cristo il centro animatore della propria vita,[32] la mente e la volontà sempre orientata a Cristo,[33] la propria vita totalmente posta al servizio di Cristo e in suo onore.[34] Ovviamente, Tommaso commenta pure la Lettera ai Galati e in particolare il capitolo secondo dove si legge il nostro testo: Cristo distrugge il nostro uomo vecchio (peccato) e ci rinnova con la sua vita; Paolo sente in sé la forza vitale della novità cristiana sicché ripone in Cristo tutti i suoi affetti e trova in lui la gioia piena.[35]

Quanto, da ultimo, al De divinis nominibus il rimando di San Tommaso è al capitolo IV, il più lungo di tutta l’opera, dove si spiegano i diversi nomi divini come Bene, Luce, Bello e Bellezza e Amore. La citazione paolina s’inserisce nella spiegazione di quest’ultimo nome divino, per il quale Dionigi ricorre al termine greco agápe. Una delle caratteristiche dell’amore – prosegue Dionigi – è di essere estatico, ossia di uscire fuori di sé. Dio stesso è estatico «in quanto non permette che gli amanti appartengano a se stessi, ma a quelli che essi amano». Da ciò si dimostra:

– che le realtà superiori sono fatte per provvedere a quelle inferiori (e in questo senso anche Dio esce fuori di sé al fine di riversare sulla creazione tutta il suo amore e la sua provvidenza);

– che le realtà uguali sono fatte per contenersi a vicenda (e questo si verifica nell’amore umano);

– che, per una conversione divina, le realtà inferiori possono elevarsi alle realtà superiori…

«Perciò anche il grande Paolo, tutto posseduto dall’Amore divino e sotto la partecipazione della sua forza estatica, dice con parola ispirata: Non vivo più io, ma è Cristo che vive in me, come un vero amante che, come egli stesso dice, è passato in Dio e non vive più la sua vita, ma quella dell’amato infinitamente amabile».[36]

Nelle sue opere, Tommaso cita per quattro volte questo testo dionisiano: con tutto se stesso, l’Apostolo è totalmente proteso verso Cristo, che ama sino dimenticarsi per aderire totalmente a Lui. Chi ama non appartiene più a se stesso, ma alla persona amata. Così è Paolo, amante al punto di non sapersi trattenere e tutto proiettato fuori di sé verso Cristo. Per spiegare, poi, la dimensione estatica, Tommaso ricorre al termine incontinentia, che non ha per nulla il senso di intemperante, ma di una realtà che non è in grado di contenere una realtà infinitamente sovrabbondante.[37] Così, dunque, parafrasa il testo di Dionigi: «Il grande Paolo, fissato nell’amore divino che tutto lo abbraccia e con la sua potenza lo fa uscire completamente da sé, come se parlasse con la bocca divina, dice: Vivo, non più io, ma Cristo vive in me».

 

Come Tommaso d’Aquino è stato santo

In ciò che Tommaso scrive sulla santità e in particolare di San Paolo non ci è difficile riconoscere pure il suo cammino di santità. Santità è camminare verso Dio, si è detto sin dal principio e questo cammino San Tommaso lo ha percorso nello studio e nell’insegnamento e sempre nell’umiltà, nella semplicità e nella gioia.

Sono caratteristiche così sinteticamente richiamate da Guglielmo di Tocco, che potremmo considerare il postulatore della causa per la canonizzazione: «quanto alla reputazione di sé era umilissimo, puro nel corpo e nella mente, devoto nella preghiera e prudente nel consiglio, calmo nel parlare, espansivo nella carità …».[38] Poco più avanti sottolinea la delicatezza del suo tratto umano e anche così mostrava conforme al suo modello che era Cristo.[39] Tutti i biografi riconoscono in lui una personalità serena, anzi gioiosa, capace di scherzare anche con i suoi alunni. G. Di Tocco scrive che pure laetanter exivit de corpore.

Un’altra caratteristica della santità di Tommaso d’Aquino fu il suo amore per l’Eucaristia, che per lui si concretizza nella celebrazione della Santa Messa. Sempre Guglielmo di Tocco osservava che se per un verso gli era stato concesso di scrivere profondamente dell’Eucaristia, gli era stato dato pure di celebrare ancora più devotamente. A meno che, infatti, l’infermità non glielo impedisse, celebrava ogni giorno una Messa e un’altra ne serviva celebrata da un confratello. Spesso durante la Messa era rapito da estasi «con tale sentimento di devozione, da uscirne tutto inzuppato di lacrime, assorto nei misteri di così sacro Sacramento e ristorato dai doni spirituali».[40]

Caratteristica della santità di Tommaso d’Aquino fu pure la preghiera davanti al Crocifisso. Ho prima ricordato l’esperienza mistica napoletana del suo dialogo con il Crocifisso.[41] Al riguardo, Guglielmo di Tocco annota (e così pure gli altri biografi) che quando quell’esperienza avvenne Tommaso stava scrivendo la terza parte della Summa proprio nelle questioni relative al mistero pasquale di Cristo. Tutti aggiungono che da allora Tommaso cessò quasi del tutto dallo scrivere, come se avesse ormai esaurito la propria missione. Ciò vuol dire che pure il lavoro teologico egli lo concepiva come un ascensus in Deum.

Da qui quel suo costante e progressivo legame tra lo studio e la contemplazione, che si manifestava specialmente in quella abstractio mentis, che lo rese leggendario tra i confratelli. Tommaso fu uomo in ricerca, pronto a lasciar tutto nel momento in cui avrebbe veduto profilarsi quel che sempre aveva cercato. In tale luce sono da intendersi anche le confidenze da lui fatte nell’ultima fase della vita tra cui il venit finis scripturae meae, quia talia sunt mihi revelata, quod ea quae scripsi et docui, modica mihi videntur confidato da Tommaso al fido Reginaldo. Così Guglielmo di Tocco,[42] dove però Bartolomeo da Capua, nella sua deposizione al processo napoletano, ricorre al termine «paglia»: Omnia que scripsi videntur michi palee respectu eorum quae vidi et revelata sunt michi.[43] È probabile che questa sia la citazione più esatta, giacché , come osserva J.-P. Torrel, nella tradizione cristiana il termine è usato per distinguerlo dal frumento. Ora che ha fatto esperienza della realtà, Tommaso non sente più il bisogno delle parole che ha scritto: non le rinnega, ma ormai egli è oltre.

Nell’ora della morte nell’abbazia di Fossanova, ricevendo devotamente il viatico Tommaso disse: «Sumo te pretium redemptionis animae meae, sumo te viaticum peregrinationis meae, pro cuius amore studui, vigilavi, et laboravi, te praedicavi et docui …».

Guglielmo di Tocco narra pure che un anziano frate domenicano molto stimato, fr. Paolo de L’Aquila, trovandosi nel convento di Napoli vide in sogno Tommaso che commentava ai suoi studenti l’epistolario paolino. Nel frattempo si vide entrare nell’aula lo stesso San Paolo e Tommaso subito si alzò per scendere dalla cattedra. L’Apostolo, però, gli fece cenno di continuare e allora Tommaso gli domandò se stava spiegando bene le sue Lettere. Paolo rispose: «Sì, per quello che è possibile a un uomo durante la vita terrena tu le stai commentando bene. Ora però voglio che tu venga con me perché ti accompagnerò in un luogo dove tutto ti sarà molto più chiaro». Così dicendo, l’Apostolo prese Tommaso per la cappa e lo tirò fuori dell’aula. A questo punto fr. Paolo si svegliò e cominciò a gridare: «Correte, fratelli, correte, perché ci stanno portando via fra’ Tommaso». Gli altri frati gli domandarono perché gridasse così ed egli riferì il sogno. Giunse poi da Fossanova la notizia della morte di Tommaso e capirono il senso del sogno.[44]

Tutti i biografi dichiarano che, effettivamente, San Tommaso nutriva grande devozione per l’Apostolo Paolo. Concludo, allora, completando le parole con cui egli commentò Dionigi sul testo: Non vivo più io, ma Cristo vive in me: «Uscendo da se stesso si è totalmente riversato in Dio, cercando non ciò che è suo, ma ciò che è di Dio e lo ha fatto come un vero amante che sperimentava la passione dell’estasi: vivendo per Dio e non più la propria vita, bensì quella di Cristo, di cui era innamorato e la cui vita era per lui amabile più di ogni cosa». Anche Tommaso d’Aquino è stato santo così.

 

Basilica San Nicola – Bari, 30 marzo 2023

 

Marcello Card. Semeraro

 

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[1] Summa contra Gentiles, l. 1, c. 2: citazione di Sant’Ilario, De Trinitate, l. 1, c. 37: PL 84, 48 (conscius sum, ut te omnis sermo meus et sensus loquatur).

[2] L’episodio è narrato da Guglielmo di Tocco, al cap. 34 della sua Vita di San Tommaso d’Aquino: «Doctor conversus erat ad orandum cum lacrymis, hujuscemodi vocem prodire de imagine Crucifixi: Thoma bene scripsisti de me, quam recipies a me pro tuo labore mercedem? Qui respondit : Domine, non nisi te. Et tunc scribebat tertiam partem Summae de Christi passione et resurrectione»; ugualmente Pietro Calò: «Domine, nonnisi te» e Bernardo Gui, dove la risposta è: «Domine non aliam mercedem recipiam, nisi teipsum»: D. Prümmer, Fontes vitae S. Thomae Aquinatis. Notis historicis et criticis illustrati, Tolosae [1912], 38. 108. 189; cf. pure J.-P. Torrel, Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, Piemme, Casale Monferrato 1994, 320.

[3] «Ea quae pertinent ad Christi humanitatem, per modum cuiusdam manuductionis, maxime devotionem excitant, cum tamen devotio principaliter circa ea quae sunt divinitatis consistat»: Th IIª-IIae q. 82 a. 3 ad 2.

[4] «Unde cum sancti qui sunt in patria, sint Deo propinquissimi, hoc divinae legis ordo requirit, ut nos qui manentes in corpore peregrinamur a domino, in eum per sanctos medios reducamur; quod quidem contingit, dum per eos divina bonitas suum effectum diffundit. Et quia reditus noster in Deum respondere debet processui bonitatum ipsius ad nos; sicut mediantibus sanctorum suffragiis Dei beneficia in nos deveniunt, ita oportet nos in Deum reduci, ut iterato beneficia ejus sumamus mediantibus sanctis; et inde est quod eos intercessores pro nobis ad Deum constituimus, et quasi mediatores, dum ab eis petimus quod pro nobis orent»: Super Sent., lib. 4 d. 45 q. 3 a. 2 co.

[5] C. A. Vendemiati, La struttura della Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino, in «Salesianum» 73 (2011), 237-280.

[6] Il mistero dell’Incarnazione deve qui essere inteso nel suo significato globale inclusivo non soltanto dei misteri della passione-morte-risurrezione del Signore, ma pure della sezione sacramentaria della Terza Parte. I sacramenti, infatti, sono per Tommaso parte integrante della cristologia: «Post consideratione eorum quae pertinent ad mysteria Verbi incarnati, considerandum est de Ecclesiae sacramentis, quae ab ipso Verbo incarnato efficaciam habent»: STh III, q. 60, a. 1, pr. Ciò vuol dire che per l’Aquinate i sacramenti sono come un prolungamento dell’incarnazione del Verbo ed è proprio per questo che circa la loro efficacia egli preferisce esplicitamente la loro causalità fisica. Cf. T. S. Centi, «Introduzione e note», in S. Tommaso d’Aquino, La Somma teologica a cura dei domenicani italiani, vol. XXVII (I sacramenti in genere. Battesimo e cresima [III, qq. 60-72]), Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984, 8.

[7] Super ev. Ioannis, c. 13, lect.1, n. 4.

[8] Faccio qui riferimento a un breve, ma denso articolo dal titolo In che cosa consiste la santità? Il contributo di Tommaso d’Aquino, che si trova su https://www.dominicanes.it/predicazione/meditazioni/1266-in-che-cosa-consiste-la-santita-un-contributo-di-tommaso-d-aquino.html. Il p. Ols scrive pure che «se san Tommaso non si sottometteva a penitenze straordinarie, possiamo presumere che ciò era dovuto all’acuta coscienza che aveva di doversi consacrare totalmente alla sua missione di teologo: insegnare le verità divine, scrivere di Dio, era questa la missione affidatagli da Dio e in vista di Dio e sappiamo con quanto impegno e quanta dedizione egli l’ha riempita».

[9] «Maceratio proprii corporis, puta per vigilias et ieiunia, non est Deo accepta nisi inquantum est opus virtutis» (STh II-II, q. 88 a. 2 ad 3).

[10] «In spirituali vita simpliciter quidem homo perfectus dicitur ratione eius in quo principaliter spiritualis vita consistit… Consistit autem principaliter spiritualis vita in caritate: quam qui non habet, nihil esse spiritualiter reputatur» (De perfectione spiritualis vitae, cap. 1 co). A riguardo non c’è dubbio alcuno: «Secundum caritatem specialiter attenditur perfectio vitae christianae»: STh II/II, q. 184 a. 1 co.), la perfezione della vita cristiana consiste nella carità.

[11] Cf. ad esempio: « fides et spes sine caritate possunt quidem aliqualiter esse, perfectae autem virtutis rationem sine caritate non habent» (STh I-II, q. 65 a. 4 co); «virtutes morales sine caritate esse non possunt» (STh I-II, q. 65 a. 2 co.)

[12] Cf. in proposito A. Pigna, Consigli, precetti e santità secondo san Tommaso, in «Ephemerides Carmeliticae» 25 (1974/1-2), 318-376.

[13] Cf. Super Sent., lib. 3 d. 29 q. 1 a. 8 qc. 2 co.

[14] Nella sua esposizione San Tommaso contiene alcuni avverbi che permettono che osservare dentro gli atti buoni che si compiono per dedurne che sono davvero atti virtuosi: prompte et delectabiliter, firmiter et delectabiliter, faciliter et delectabiliter, sponte et delectabiliter, ad esempio. Sono quelle forme di esercizio di una virtù, che la tradizione cattolica chiama «esercizio eroico».

[15] Il p. D. Ols spiega: «Così veniamo a capire che, agli occhi di Dio, ciò che fa il valore delle nostre opere non è la loro difficoltà oggettiva, ma è la carità, ossia l’amore per Dio, con cui esse sono compiute, sicché santa Teresa di Lisieux facendo il bucato per gli anziani della casa di ricovero faceva presumibilmente un’opera più grande e più meritoria che non un monaco irlandese impegnato a recitare tre salteri interi in una tinozza di acqua gelata».

[16] STh II-II, q. 124 a. 1 co.

[17] Nella ScG lib. 3 cap. 130 n. 3, Tommaso scrive che summa perfectio humanae vitae in hoc consistit quod mens hominis Deo vacet, che vuol dire totale recettività, fare spazio totale nel centro del proprio essere perché Dio vi abiti. Il motto, che ha avuto un’ampia fortuna nella tradizione monastica e ascetica, risale a Origene, Omelie sull'Esodo 12,2, secondo la versione latina di Rufino: «omissis omnibus Deo vacemus». Il vacare Deo è caratteristico della vita contemplativa e San Tommaso lo spiega con una simpatica immagine: non si deve centellinare (taxare=misurare) il tempo in ciò che ci unisce a Dio (non fuit taxandum tempus illis quibus injungitur: Super Sent., lib. 3 d. 37 q. 1 a. 5 qc. 3 ad 2.

[18] STh I-II, q. 29 a. 4 co.: homo maxime est mens hominis.

[19] «Mens non est una quaedam potentia praeter memoriam, intelligentiam et voluntatem, sed est quoddam totum potentiale, comprehendens haec tria» (De veritate, q. 10 a. 1 ad 7).

[20] Sia sufficiente questa citazione: «nullus potest dicere quodcumque verum, nisi a spiritu sancto motus, qui est spiritus veritatis, de quo dicitur Io. XVI, 13: cum autem venerit ille spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem. Unde et in Glossa Ambrosius, hoc in loco dicit: omne verum a quocumque dicatur, a spiritu sancto est. Et specialiter in illis quae sunt fidei, quae per specialem revelationem spiritus sancti sunt habita», Super I Cor., cap. 12 l. 1.

[21] Cf. i nn. 47-56. I nn. 57-59 sono dedicati ai «nuovi pelagiani»! Per un approfondimento cf. M. Borghesi ne Il dissidio cattolico. La reazione a Papa Francesco, Jaca Book, 2022, 241-247 («Pelagianesimo e gnosticismo in Gaudete et exsultate»). Sulla questione, già Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera «Placuit Deo» ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della salvezza cristiana, 22 febbraio 2018. Cf. pure A. Villafiorita, «Un nuovo ordine di relazioni in Cristo: note in margine alla Placuit Deo», in Rassegna di Teologia 59 (2018), 181-196. Mi permetto rinviare pure a M. Semeraro, «Le “eresie” pastorali secondo Evangelii gaudium», ne il Regno-Documenti 7/2017, 246-256.

[22] La gratia virtutum et donorum, spiega Tommaso, perficit inclinando ad bonum virtutis et doni (Super Sent., lib. 4 d. 7 q. 2 a. 2 qc. 2 ad 2)

[23] Vuol dire che le opere hanno valore agli occhi di Dio solo se fatte avendo Lui come fine ultimo ed è questo il senso della comune espressione: amare il prossimo per amore di Dio! Se il fine è invece puramente naturale, non sono, propriamente parlando, opere di santità.

[24] Super Eph., cap. 4 l. 7.

[25] Suggestiva l’interpretazione sponsale che ne dava San Bernardo: «L’anima che vedrai abbandonare tutto e aderire con tutto l’ardore al Verbo, vivere per il Verbo per poi partorire al Verbo, che possa dire: Per me vivere è Cristo e morire un guadagno considerala coniuge e sposata al Verbo…», Sermones in Cantica canticorum, LXXXV, 12:  PL 183.1194. Tommaso, il cui scrivere era sintetico al massimo, commenta: «tantum Christum habeo in affectu, et ipse Christus est vita mea. Mihi vivere Christus est…», Super Gal., cap. 2 l. 6.

[26] Commenta A. Pitta: «Il circolo partecipazionistico della relazione tra Cristo e Paolo è completo, scardinando ogni logica spazio-temporale: da Paolo a Cristo mediante la Croce, da Cristo a Paolo mediante la vita che scaturisce dalla sua morte e risurrezione», Lettera ai Galati. Introduzione, versione e commento, EDB, Bologna 1996, 153; per l’intero commento al passo, cf. le pp. 153-156. Cf. pure A. Vanhoye, Lettera ai Galati. Nuova versione, introduzione e commento, Paoline, Milano 20226, 75-77; più ampiamente, cf. R. Penna, «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20), in https://www.fmgb-prov.it/2017/07/08/non-piu-vivo-cristo-vive-gal-220/

[27] F. Bianchini, Lettera ai Galati, Città Nuova, Roma 2009, 58.

[28] Cf. R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Vita e Pensiero, Milano 19777, 563. 567. Sul tema del «noi» cristiano, mi permetto rinviare pure a M. Semeraro, «Il “Noi ecclesiale”: una prospettiva includente», in Catechetica ed Educazione 6 (2021) 1, 47-61.

[29] Cf. Super Sent., lib. 3 d. 29 q. 1 a. 3 ad 1.

[30] Cf. Super Sent., lib. 4 d. 12 q. 2 a. 1 qc. 1 co.

[31] «spiritualis cibus non convertitur in manducantem, sed eum ad se convertit. Unde proprius effectus hujus sacramenti est conversio hominis in Christum, ut dicat cum apostolo, Gal 2, 20: vivo ego, jam non ego; vivit vero in me Christus». Già Agostino scriveveva: «Cibus sum grandium; cresce, et manducabis me. Nec tu me in te mutabis, sicut cibum carnis tuae; sed tu mutaberis in me», Confessiones, VII, 10: PL 31, 732.

[32] Cf. Super Io., cap. 5 l. 5 (Cristo vive nell’apostolo come l’anima che dà la vita al corpo).

[33] Cf. Super I Cor., cap. 11 vs. 1; cap. 11 l. 1.

[34] Super II Cor., cap. 5 l. 3.

[35] Cf. Super Gal, cap. 2 l. 6; cf. pure cap. 6 l. 4. Altri testi in cui ricorre il passo di Gal 2,20 sono: Super Eph., pr.; cap. 4 l. 6.

[36] I Nomi Divini IV, 13, 170: cf. Dionigi Areopagita, Tutte le Opere a cura di P. Scazzoso, E. Bellini, Rusconi, Milano 1983, 310-311.

[37] Il caso è richiamato in S.Th. IIª-IIae, q. 156 a. 2 co: «ex vehementia divini amoris aliquis fit incontinens». Tommaso spiega che il termine deve essere inteso «non proprie, sed secundum similitudinem», e pertanto «talis incontinentia non est peccatum, sed pertinet ad perfectionem virtutis».

[38] Prümmer, Fontes cit. cap. 23.

[39] Cf. Ibidem cap. 24.

[40] Ibidem cap. 29. Testimoniando al processo napoletano per la canonizzazione, Bartolomeo di Capua riferisce la testimonianza de visu di un frate domenicano, alunno di Tommaso, che ogni giorno prima di andare a scuola partecipava alla Messa celebrata da lui: «ogni giorno, molto presto al mattino, fra’ Tommaso celebrava la Messa nella cappella di San Nicola e subito, terminata la sua Messa, assisteva a quella celebrata da un altro frate. Quindi, spogliatosi degli abiti liturgici andava a scuola e iniziava l’insegnamento…», P. M.-H. Laurent O.P. (cur.), Fontes Vitae S. Thomae Aquinatis. Fasc. IV. Processus Canonizationis S. Thomae. Neapoli, Revue Thomiste, in Prümmer, Fontes vitae S. Thomae Aquinatis. 373.

[41] La spiritualità di Tommaso è fondamentalmente cristologica. Se volessimo disegnare Tommaso d’Aquino in quanto «santo», dovremmo ritrarlo in preghiera davanti al Crocifisso, o (il che si equivale) davanti all’altare. In questo egli seguiva le orme del suo padre san Domenico, come indicato dal Modi orandi sancti Dominici descritti dal Codex Rossianus n. 3: cf. J.-P. Ravotti, Le nove maniere di pregare. San Domenico maestro di preghiera, ESD, Bologna 2004. All’epoca di Tommaso, peraltro, il Crocifisso è ormai ritenuto l’unico libro, la Bibbia vivente.

[42] Così G. di Tocco, ma pure P. Calò e B. Gui (Prümmer, Fontes cit. 43. 120. 193).

[43] Laurent, Fontes Vitae S. Thomae Aquinatis cit., 377.

[44] Prümmer, Fontes cit. cap. 60.