Lectio Magistralis
su «Giovanni XXIII - Santorale»
Sono sinceramente grato a d. Ezio Bolis per l’invito che mi ha rivolto sia a scrivere alcune parole di Prefazione per questo volume, sia ad essere qui a Bergamo insieme con voi per la sua presentazione. Gli sono riconoscente anche perché mi permette di mostrare vicinanza ed esprimere il mio fraterno augurio al vescovo Mons. Francesco Beschi al quale il volume è dedicato per il XX anniversario della ordinazione episcopale.
Questo nostro incontro mi permette di tornare sulla figura di Papa Giovanni a pochi giorni da quello vissuto domenica scorsa con i pellegrini giunti numerosi a Roma da Sotto il Monte e da Concesio in occasione del 60mo della morte di Giovanni XXIII e dell’elezione di Paolo VI. Insieme con loro ho celebrato l’Eucaristia domenicale nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyola ricordando nell’omelia alcune parole rivolte loro da Francesco, nell’Udienza del giorni prima, sabato 3 giugno. Sono parole che nel nostro contesto acquistano una speciale risonanza: «Dio non fa i santi in laboratorio, no, li costruisce in grandi cantieri, in cui il lavoro di tutti, sotto la guida dello Spirito Santo, contribuisce a scavare profondo, a porre solide fondamenta e a realizzare la costruzione, ponendo ogni cura perché cresca ordinata e perfetta, con Cristo come pietra angolare (cf. Ef 2,21-22). Questa è l’aria che hanno respirato fin da piccoli Angelo e Giovanni Battista a Sotto il Monte e a Concesio, con tutto il bene che ne è derivato: quello che hanno donato e ricevuto!». Il Papa ha subito aggiunto: «Rendiamo grazie al Signore perché ha dato loro, nei vostri paesi, una terra fertile e ricca di santità in cui porre le radici e crescere, e perché fa anche di voi, come già dei vostri genitori, dei vostri nonni, e di tanti che hanno vissuto, amato, lavorato, seminato e raccolto, gioito e pianto nelle vostre cittadine e nelle vostre campagne, un suolo buono e generoso, in cui piccoli semi di bene possono germogliare e crescere per il futuro».
Il volume che oggi è ufficialmente presentato parla appunto di queste «radici» già con la prima sezione dedicata ai «santi di famiglia e di tradizione bergamasca». Il saggio di Mattia Tomasoni – che è il primo di questa sezione – comincia appunto col rievocare la scelta del nome del nuovo Papa: Vocabor Ioannes e commenta: «Senz’altro significativo e propositivo nella scelta del nome fu per papa Roncalli il tributo reso anzitutto a san Giovanni Battista. Prima ancora che per il contenuto spirituale ed esemplare del precursore, va sottolineato il legame che nella coscienza di Roncalli veniva attestato circa le proprie origini familiari e parrocchiali».
Si tratta di un aspetto che ho sottolineato anch’io in un saggio publicato mesi or sono sul «francescanesimo» di Papa Bergoglio e l’ho fatto quasi mettendo a confronto le due scelte: Roncalli la fece ispirandosi anzitutto a motivi familiari, agiografici e storici; Bergoglio, per sua parte, la fece sull’onda delle parole dettegli dal card. Hummes. Lo ha detto più volte egli stesso: «E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: “Non dimenticarti dei poveri!”. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi».
L’importanza delle «radici» circa la risposta umana alla chiamata divina alla santità non è un aspetto contingente, ma ha un valore teologico, che lo stesso papa Francesco ha messo in risalto al principio della sua esortazione apostolica Gaudete et exsultate sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19 marzo 2008). Il Papa inizia con il ricordare che i santi ci incoraggiano e ci accompagnano e subito prosegue citando alcune parole pronunciate da Benedetto XVI nella sua Omelia d’inizio del pontificato: «Possiamo dire che “siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio. […] Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta». Penso che sia un primo principio molto importante, di cui occorre tener conto nell’agiografia.
C’è poi un secondo principio, che personalmente amo ripetere da quando lo trovai scritto nella biografia pubblicata nel 1990 da Angelo Scelzo sul padre Annibale Maria di Francia, che poi sarà canonizzato nel 2004 da Giovanni Paolo II: i santi non sono mai rimasti soli e misteriosamente si cercano e misteriosamente si trovano! Non si tratta solo dei santi canonizzati, ma anche di quelli che papa Francesco usa chiamare «santi della porta accanto». Nel nostro caso potremmo pensare al rapporto di stima e amicizia tra San Giovanni XXIII e San Paolo VI; ma poi anche penso al suo legame col vescovo Radini Tedeschi. In un saggio di questo volume trovo scritto che «al seguito di Radini Tedeschi, diverse esperienze spinsero Roncalli verso una peculiare concezione storica della santità» (citazione da Alessandro Angelo Persico nel saggio su Roncalli e San Luigi Maria Palazzolo).
È soltanto un esempio, perché come annota d. Ezio Bolis nella sua introduzione, dalla selezione delle figure di santità che hanno affascinato Papa Roncalli futuro papa sono state tenute fuori per comprensibili ragioni le altre «la cui santità, benché abbia fortemente segnato il cammino spirituale di Roncalli, non era ancora riconosciuta ufficialmente ai suoi tempi. È il caso, per esempio, di alcuni preti bergamaschi come Luigi Mozzi, i fratelli Marco Celio e Luca Passi, Giuseppe Brena, Giuseppe Benaglio, Carlo Botta e lo stesso Francesco Rebuzzini, il parroco della sua giovinezza. Tra i suoi modelli di santità ci sono prelati di specchiata virtù, da lui personalmente conosciuti, come il suo vescovo Radini Tedeschi o il cardinale Andrea Carlo Ferrari, oggi beato. Non mancano poi riferimenti a personaggi allora discussi, come il cardinale Henri Newman e più ancora il prete e filosofo Antonio Rosmini, che verranno elevati agli onori degli altari soltanto in seguito».
Ugualmente si dirà per la Vergine Maria. Ancora d. Bolis premette: «Il culto alla Madre di Gesù occupa un posto talmente rilevante e onnipresente nella spiritualità roncalliana che è impossibile costringerlo in un saggio di poche pagine. La sua devozione merita una trattazione articolata che potrà e dovrà essere intrapresa in un volume a parte». Ogni promessa è un debito, lo speriamo davvero!
C’è, però, un terzo principio che mi pare necessario cogliere da questo volume e che è stato messo in evidenza sia da d. Ezio Bolis, sia da altri autori e riguarda quella che sempre d. Ezio Bolis chiama la sostanza della santità. Per questo principio egli rimanda a una ben nota e decisiva pagina de Il Giornale dell’Anima, alla data del 16 gennaio 1903. Nella edizione critica curata dall’Istituto per le scienze religiose di Bologna Alberto Melloni annota in proposito l’influenza del redentorista Francesco Pitocchi (che risulta pure da uno studio di Giuseppe Battelli, autore, in questa raccolta, del saggio circa il rapporto di Roncalli con Sant’Ignazio di Loyola).
Vale, allora, la pena risentire quel testo di Roncalli: «A forza di toccarlo con mano mi sono convinto di una cosa: come cioè sia falso il concetto che della santità applicata a me stesso io mi sono formato. Nelle mie singole azioni, nelle piccole mancanze subito avvertite, richiamavo alla mente l’immagine di qualche santo cui mi proponevo d’imitare in tutte le cose più minute, come un pittore copia esattamente un quadro di Raffaello. Dicevo sempre, se san Luigi in questo caso farebbe così e così, non farebbe questo o quell’altro, ecc. Avveniva però che io non arrivavo mai a raggiungere quanto mi ero immaginato di poter fare, e m’inquietavo. È un sistema sbagliato. Delle virtù dei santi io devo prendere la sostanza e non gli accidenti. Io non sono san Luigi, né devo santificarmi proprio come ha fatto lui, ma come comporta il mio essere diverso, il mio carattere, le mie differenti condizioni. Non devo essere la riproduzione magra e stecchita di un tipo magari perfettissimo. Dio vuole che, seguendo gli esempi dei santi, ne assorbiamo il succo vitale della virtù, convertendolo nel nostro sangue e adattandolo alle nostre singole attitudini e speciali circostanze. San Luigi, se fosse quello che io sono, si santificherebbe in un modo diverso da quello che ha seguito» (ed. Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII, Bologna 1987, p. 159-160).
Su questa pagina si era già soffermato vent’anni or sono p. Anastasio Ballestrero (ora Servo di Dio) in una sua singolare autobiografia, che tornerò a citare in fine Ricordando i suoi incontri con Giovanni XXIII, l’ormai anziano cardinale Ballestrero scrive qualcosa di molto simile a quanto è osservato in più parti in questo volume: «Nel “Giornale dell’anima” è una cosa curiosa vedere come veramente è stato lineare: una vita tessuta sull’unica idea della fedeltà e dell’amore del Signore. I suoi propositi... la sua solita spontaneità. Ancora giovane dice (aveva fatto un sacco di propositi): “Qui mi pare di promettere un po’ troppo, eh!”. Ha battute senza fine... Ma è bello vedere come ha camminato per la sua strada. Dice: essere santo per me non vuol dire fare come ha fatto S. Luigi o come ha fatto quell’altro, è essere così come il Signore mi ha fatto, cercare di amarlo e servirlo così come sono io».
Poco più avanti, ricordando la morte di Papa Giovanni Ballestrero dice: «quando lo hanno esposto in San Pietro è cominciata una marea che è stata uno spettacolo! Hanno calcolato che dal lunedì al giovedì siano passati davanti alla salma un milione e mezzo di persone. Giorno e notte, giorno e notte. C’era la Polizia che mi diceva: “Padre, qui se uno non comincia a credere adesso, non crede mai più”» (Autoritratto di una vita, OCD, Roma 2002, pp. 182-184).
Aggiungo a questa annotazione (che ho fatto ripensando all’incontro fra i santi), quella di d. Bolis. Egli va più in profondità, offrendoci così una valida chiave di lettura. Scrive: «Roncalli si libera progressivamente da rigidi schematismi che facilmente producono frustrazioni, senza aiutare a crescere. Si rende conto che è assurdo pensare a una “clonazione” della santità. Prende coscienza sia della individualità personale sia della distanza storica che lo separano dai santi venerati. Non si tratta di copiare i santi nei loro singoli particolari, ma di coglierne l’essenza, il «succo vitale». Per esprimere questa idea ricorre alla distinzione aristotelico-tomista tra “sostanza” e “accidenti”, termini che in seguito Roncalli abbandonerà preferendo ricorrere al binomio di “sostanza” e “forma”».
Questa indicazione di d. Bolis si ritrova in altri saggi pubblicati in questo volume. Ad esempio quello di Enrico Galavotti il quale nel suo intervento su Roncalli e Francesco d’Assisi osserva: «L’attenzione di Roncalli verso Francesco sembra essere stata guidata da subito e per il resto della sua esistenza da quello scrupoloso vaglio che lo spingeva a ritenere, dei santi, ciò che era il succo vitale, senza cedere al gusto per la retorica fine a sé stessa o affettando devozionalismi di facciata che pure erano largamente praticati in ambito cattolico».
Parlando di Francesco d’Assisi non si potrà dimenticare il pellegrinaggio compiuto a Loreto e Assisi il 4 ottobre 1962, alla vigilia dell’inizio del Concilio Vaticano II; viaggio, come osserva Galavotti, determinato da una decisione personalissima del Papa. Come osserva ancora questo studioso, il viaggio indusse anche a parlare di una analogia tra Giovanni XXIII e il Santo di Assisi: cosa che l’Autore valuta con buon equilibrio. Rimane, in ogni caso, il fatto, come scrive sempre Galavotti, «che il papa non intendeva solo compiere un atto di omaggio ad un santo particolarmente venerato, bensì riattualizzarne l’insegnamento in una fase storica segnata da nuove tensioni».
Del corposo volume che oggi è ufficialmente presentato ho citato solo alcuni autori. Scopo del mio intervento, d’altra parte, non è fare una recensione del volume. Per una esposizione rapida dei cari capitolo si potrà, in ogni caso, leggere l’Introduzione di d. Bolis dove si trovano descritte le quattro parti in cui è diviso il volume, col rimando ai diversi saggi e rispettivi Autori. Le citazioni che ora ho fatto hanno piuttosto un riferimento alle sottolineature che ho ritenuto importanti in termini generali e che riporto su tre temi fondamentali: l’influsso, sulla maturazione della santità, della radice umana e culturale (ricordato da papa Francesco in Gaudete et exsultate); l’importanza che in questa crescita hanno le relazioni «sante»; la ricerca, nella varietà delle forme di santità, della «sostanza».
Al riguardo aggiungo una riflessione generale, considerato il fatto che in quel 1903 che è stato già ricordato, per ben quattro volte, nel suo Giornale dell’Anima, Roncalli cita il testo paolino di Gal 2,20. Lo scrive al 7 gennaio: «La vita mia è un continuo sacrificio. Non sono io più che vive, è Gesù che vive in me. S. Paolo poteva usarle queste espressioni perché la sua grande anima, il suo cuore generoso ardeva perennemente della carità verso Dio e gli uomini. Io non ho che dei buoni desideri ai quali mal corrispondono i fatti. Signore, dammi grazia che io ti possa mostrare coll’opera che ti voglio veramente bene». Lo riscrive due giorni dopo, il 9 gennaio: «Il sole cocente lo porto dentro il mio petto sin dalla mattina colla S. Comunione. Non sono più io che vive, è Gesù che vive in me. O Gesù potessi io veramente essere sempre trafelato e sudante di amore nel prestare il mio servizio a voi glorioso mio Capitano». Lo ribadisce negli esercizi spirituali dell’aprile dello stesso anno, fatti in preparazione all’ordinazione al suddiaconato: «La dolcezza della mia ordinazione fù così grande da non saperla in qualche modo esprimere. […] Ora io sono veramente un uomo nuovo [Gal 2,20], la risoluzione è decisa… L’unica parola che mi riesce di balbettare è l’espressione di S. Paolo:vivo ego jam non ego, vivit vero in me Christus. No, io non sono più mio, io sono di Gesù. Tante volte l’ho detto, ma oggi lo ripeto con maggior entusiasmo: io sono di Gesù. Suscipe, Domine Jesu, universam meam libertatem».
La santità è questo: la in-esistenza (l’espressione è di Romano Guardini) di Cristo nel cristiano. Sempre l’unico e medesimo Cristo vive in ogni cristiano il quale, rispondendo all’unica, universale chiamata alla santità, lo riproduce non come una copia, bensì alla maniera di quel poliedro di cui ha scritto da Papa Francesco in Evangelii gaudium n. 236.
Intendo dire che ogni cristiano ripete la luce di Cristo (egli stesso lumen gentium) in forma unica, originale, irripetibile. Mi riferisco a ciò che scrisse Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Christifideles laici: «Dio dall’eternità ha pensato a noi e ci ha amato come persone uniche e irripetibili, chiamando ciascuno di noi con il suo proprio nome, come il buon Pastore che «chiama le sue pecore per nome» (Gv 10, 3). Ma il piano eterno di Dio si rivela a ciascuno di noi solo nello sviluppo storico della nostra vita e delle sue vicende, e pertanto solo gradualmente: in un certo senso, di giorno in giorno» (n. 58).
Penso, però, anche a quanto leggiamo nel libro di Geremia: «La mia parola non è forse come il fuoco, dice il Signore, e come un martello che spezza la roccia?» (23,29). Questo passo il Talmud lo commenta così: «Che cosa avviene quando il martello urta contro la roccia? Sprizzano scintille. Ogni scintilla è il risultato del colpo di martello sulla roccia; ma nessuna scintilla è l’unico risultato».
Similmente si potrà dire della santità. Ogni faccia del poliedro ripete la figura di Cristo, ma nessuna di esse è l’unica possibile. È la verità cui è giunto papa Giovanni e di cui è vissuto.
Ho detto prima che avrei citato un altro ricordo su Papa Giovanni di Anastasio Ballestrero. Quello che riprendo è legato al fatto che nella sua Introduzione d. Bolis ha scritto che nei saggi offerti da questo volume, fatta eccezione per santa Grata, antica matrona bergamasca, spicca l’assenza di uno studio dedicato ai rapporti tra Roncalli e figure di santità femminile. Egli scrive pure che era prevista la presenza di un saggio circa la devozione di Roncalli a Teresa di Lisieux. Aggiunge che, soprattutto negli anni del suo servizio diplomatico in Francia, Roncalli si recò più volte in pellegrinaggio sulla tomba di Teresa di Lisieux e che di lei, in particolare, «ammira la “piccola via”, loda la sua umiltà e il suo gioioso abbandono in Dio anche nella sofferenza».
Su rapporto di Roncalli con santa Teresa di Gesù Bambino anche Ballestrero ha raccontato qualcosa. Lo cito: «Non garbava, a Papa Giovanni, la piccola Teresa. Un giorno durante il Concilio incontro il Vescovo di Lisieux, lo saluto. Avevo visto sull’Osservatore che era stato dal Papa nei giorni precedenti e gli ho detto: “Visto che è stato dal Papa sarà stata una bella udienza”. E lui mi dice: “Non me ne parli”. “Ma perché, il Papa non è stato buono?”. “E stato di una gentilezza unica, ma non capisco, non capisco”. “Cosa non capisce?”. “Io non lo avevo mai incontrato, ma nell’udienza mi presentano come il vescovo di Lisieux, il Papa mi abbraccia e poi mi dice: ‘Ah! Lisieux, Lisieux’. Io, attratto dall’esclamazione, gli dico: ‘Certo, Santità, la Piccola Teresa’... ‘No, no, dice, non c’entra la Piccola Teresa. I ricordi che ho di Lisieux sono altri. A Lisieux ho mangiato il miglior camembert della mia vita e ho bevuto il calvados. Una grappa dell’altro mondo!’». Io ho lasciato che il vescovo di Lisieux mi dicesse: “Ma perché il Papa mi ha fatto un’uscita di questo genere?”. Non aveva capito. Ma a Giovanni non andava a genio, probabilmente, gli dava fastidio quel senso di sciovinismo francese e allora ha fatto quanto poteva, ricordandosi dei guai della sua Nunziatura […]. Un’altra volta, Papa Giovanni mi disse: “Ero andato a Tachiè, in Siria, nel palazzo vescovile che dà sul porto, vedo arrivare una grossa nave che ad un certo punto si ferma e poi vedo una navicella che si avvicina, la caricano e viene alla riva, va avanti e indietro, fa la spola tra la nave grossa e la nave piccola. Immaginate il comandante di quella nave che viene a far visita all’Arcivescovo e dalla finestra gli dice: perché non viene più avanti quella nave? Vede Eccellenza, la mia nave pesca troppo profondo e nel porto tanto basso non posso venire. Mi fermo dove posso e poi faccio cabotaggio con quella piccola. La grossa barca è Santa Teresa la Madre, la barchetta è la Piccola Teresa! Io credo che siano state le sofferenze che ha avuto in Francia. Povero Papa, la Nunziatura in Francia deve essere stata per lui un calvario». (o.c., pp. 177-179).
Sul paragone tra la grossa barca e la barchetta ho sempre molto riso e volentieri lo racconto quando ne ho l’occasione, ad esempio nell’incontro coi padri carmelitani! L’ho raccontata anche ora per sottolineare un ultimo aspetto della santità, quello dell’umorismo, che si potrà cogliere pure in San Giovanni XXIII, magari, come si ricorda in questo volume considerando il legame di Roncalli con San Francesco di Sales.
Sul rapporto tra santità e umorismo ha scritto Papa Francesco in Gaudete et exsultate: «Ordinariamente la gioia cristiana è accompagnata dal senso dell’umorismo, così evidente, ad esempio, in san Tommaso Moro, in san Vincenzo de Paoli o in san Filippo Neri. Il malumore non è un segno di santità: “Caccia la malinconia dal tuo cuore” (Qo 11,10). È così tanto quello che riceviamo dal Signore “perché possiamo goderne” (1Tm 6,17), che a volte la tristezza è legata all’ingratitudine, con lo stare talmente chiusi in sé stessi da diventare incapaci di riconoscere i doni di Dio» (n. 126).
In questa luce si potrà rileggere quello che Roncalli ha scritto nel Giornale dell’Anima alla data del 1 febbraio 1903: «La letizia pura, delicata che mi deve sempre occupare il cuore, trova la sua manifestazione più sincera nelle azioni minutissime. Attento bene adunque: non basta saper portare una certa qual pazienza nelle cose contrarie cosiché gli altri non debbano accorgersi di nulla; io stesso debbo sentire dentro di me una soavità e una dolcezza ineffabile, che non mi lasci mai, che faccia fiorire sorrisi sulle mie labbra e questi più giocondi proprio quando per lo sforzo di non alterarmi mi sento per lo meno portato alla serietà. Insomma la mia deve essere una pazienza allegra e sorridente e non troppo seria altrimenti se ne compromette tutto il merito. Jesu mitis et humilis corde fac cor meum secundum cor tuum».
Ancora, durante un ritiro spirituale dal 25 novembre al 1 dicembre 1940 a Terapia sul Bosforo nella Villa delle Religiose di N. Signora di Sion, Roncalli scrive: «Lo spettacolo della santità, sorridente fra le tribolazioni e le croci, sta innanzi a me. La calma interiore, fondata sulle parole di Cristo e sulle promesse produce la serenità imperturbabile che fiorisce nel viso, nelle parole, nel tratto, che è esercizio di carità conquistatrice».
In tal senso è l’omaggio che farà a Papa Roncalli la famiglia salesiana, come riporta nel suo saggio Rodolfo Bogotto: «Figura semplice e complessa, sorridente e conquistatrice, come Gesù per le vie della Palestina, è passato illuminando il mondo con la sua spiritualità umile e radiosa, conquistandolo con la sua bontà soave e irresistibile, tutti stringendo a sé nel palpito del Cuore stesso di Cristo».
Fondazione Papa Giovanni XXIII – Bergamo, 10 giugno 2023
Marcello Card. Semeraro