Prendere la forma del pane

 

Prendere la forma del pane

Conversazione sul sacerdozio e l’Eucaristia con gli Alunni del Pontificio Collegio Urbano «de Propaganda Fide»

 

Premessa

È una dottrina comune nella Chiesa cattolica che tutti i compiti e uffici di un sacerdote hanno loro sintesi e il loro vertice nella celebrazione del sacrificio eucaristico. Al fine di respingere le sentenze sostenute dalla Riforma protestante che l’Ordine sacro rappresenti soltanto un conferimento di poteri dottrinali da parte del popolo (Calvino), oppure una solenne ammissione nell’ufficio della predicazione (Lutero) il Concilio di Trento dichiarerà: «Il sacrificio e il sacerdozio per divino ordinamento sono talmente congiunti che l’uno e l’altro sono esistiti sotto ogni legge. E poiché nel Nuovo Testamento la Chiesa cattolica ha ricevuto dalla istituzione stessa del Signore il santo visibile sacrificio dell’eucaristia, bisogna anche confessare che vi è in essa anche il nuovo e visibile sacerdozio, in cui è stato trasferito l’antico. Che poi questo sia stato istituito dallo stesso Signore e salvatore nostro, e che agli apostoli e ai loro successori nel sacerdozio sia stato trasmesso il potere di consacrare, di offrire e di dispensare il suo corpo e il suo sangue; e inoltre di rimettere o di non rimettere i peccati, lo mostra la Sacra Scrittura e lo ha sempre insegnato la tradizione della Chiesa cattolica» (Sess. XXIII, cap. 1).

Questo magistero ha guidato per molto tempo la concezione cattolica del sacramento dell’Ordine ed è così che pure il Catechismo della Dottrina Cristiana (detto di Pio X) alla domanda Cosa è il Sacramento dell’Ordine? Risponde: «L’Ordine è il sacramento che dà la potestà di compiere le azioni sacre riguardanti l’Eucaristia e la salute delle anime, e imprime il carattere di ministri di Dio» (n. 397).

Questa dottrina nel corso del tempo ha conosciuto un completamento ed una integrazione in quella che con il Concilio Vaticano II è indicata come visione del triplex munus. Nel decreto Presbyterorum ordinis il presbitero è indicato quale ministro della Parola di Dio e della santificazione con i Sacramenti e con l’Eucaristia e come guida e educatore del Popolo di Dio. Rimane, ad ogni modo l’affermazione della centralità dell’Eucaristia: «Tutti i sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere d’apostolato, sono strettamente uniti alla sacra eucaristia e ad essa sono ordinati. Infatti, nella santissima eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa…» (n. 5).

Il Servo di Dio cardinale Anastasio Ballestrero, che fu arcivescovo di Torino e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, scriveva: «Il Sacramento dell’Ordine, istituito da Cristo contestualmente al Sacramento dell’Eucaristia, il Sacramento che ha nel compiere l’Eucaristia e nel celebrare l’Eucaristia il suo ufficio fondamentale e il momento culminante della sua fecondità. Siamo ministri dell’Eucaristia» (Il prete e l’Eucaristia, Ecumenica Editrice, Bari 2005, 43). A sua volta, il Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri (ed. 2013) spiega: «Consacrato per perpetuare il santo Sacrificio, il presbitero manifesta così, nel modo più evidente, la sua identità» (n. 66). Tratteggiare questa identità è lo scopo delle brevi riflessioni che seguono.

 

Prendere la forma del pane

Un po’ di anni fa, David F. Ford, teologo anglicano, scrisse un libro dal titolo: Dare forma alla vita. Si tratta, come scrive, di «suggerimenti spirituali per la vita quotidiana», con l’avvertenza che la posta in gioco è la forma stessa da dare al proprio vivere. È necessario impegnarsi a plasmare il proprio vivere; occorre dilatare la mente, il cuore e l’immaginazione per cercare di scoprire e inventare forme dove plasmare la vita.

Per quanto riguarda il nostro argomento, mi ispirerei alla formula agostiniana: prendere la forma del pane. Egli vi ricorre in un contesto battesimale e dice così: «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo (1Cor 10,17). E in questo pane vi viene raccomandato come voi dobbiate amare l’unità. Infatti quel pane è forse fatto di un sol chicco di grano? Non erano molti i chicchi di frumento? Ma prima di diventar pane erano separati e sono stati uniti per mezzo dell’acqua dopo essere stati in qualche modo macinati. Se il grano non viene macinato e impastato con l’acqua, non prende quella forma che noi chiamiamo pane. Così anche voi prima siete stati come macinati con l’umiliazione del digiuno e col sacramento dell'esorcismo. Poi c’è stato il battesimo e siete stati come impastati con l’acqua per prendere la forma del pane. Ma ancora non si ha il pane se non c’è il fuoco. E che cosa esprime il fuoco, cioè l’unzione dell’olio? Infatti l’olio, che è alimento per il fuoco, è il segno sacramentale dello Spirito Santo» (Sermo 227. In die Paschae, IV. Ad Infantes, de Sacramentis, 1: PL 88, 1100).

L’espressione di Agostino, come capiamo, vale per tutti i battezzati. Sant’Agostino, peraltro, riprende qui temi più antichi. Come non ricordare, ad esempio, sant’Ignazio d’Antiochia quando, nella sua lettera ai Romani scritta sulla via del martirio, esprime l’ansia di diventare, stritolato fra i denti delle belve, «frumento di Dio... puro pane di Cristo»? (Ad Rom. IV. 1). Possiamo, tuttavia, ben applicare il testo di sant’Agostino alla «formazione» del sacerdote, ministro per eccellenza dell’Eucaristia.

Mi lascio, allora, suggestionare dallo schema di un libro di H. J.M. Nouwen, un maestro di spiritualità ancora molto letto e apprezzato. S’intitola Sentirsi amati ed è la storia di un’amicizia, narrata perché molti possano desiderare di «ascoltare con il cuore». Per questo, Nouwen mette a confronto il viaggio psicologico e il viaggio spirituale, i movimenti della psiche e i movimenti dello Spirito; per, poi, identificare questi ultimi egli ricorre ai verbi usati dal racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: preso, benedetto, spezzato e dato.

«Queste parole – scrive – riassumono la mia vita di sacerdote, perché ogni giorno, quando mi riunisco intorno alla mensa con i membri della mia comunità, prendo il pane, lo benedico, lo spezzo e lo do. Queste parole riassumono anche la mia vita di cristiano perché, come cristiano sono chiamato a diventare il pane per il mondo: pane che è preso, benedetto, spezzato e dato. La cosa più importante, comunque, è che queste parole riassumono la mia vita, da qualche parte, in qualche modo, il prendere, il benedire, lo spezzare, il dare, sono eventi che accadono... Le ho scelte non solo perché sono profondamente scolpite nel mio essere, ma anche perché, tramite loro, sono entrato in contatto con i modi per divenire l’Amato di Dio» (Queriniana, Brescia 199311, 41-42).

Il racconto dell’istituzione eucaristica noi sacerdoti lo ripetiamo ogni giorno, nel cuore della Preghiera Eucaristica: «prese il pane e rese grazie, lo spezzò, lo diede...» (cf. Mc 14,22 e parr.). In questi verbi eucaristici c’è anche il mistero della nostra vocazione e del nostro essere sacerdoti, ministri della Chiesa, ministri dell'Eucaristia. Riprendiamoli, seppure brevemente, ad uno ad uno.

 

Gesti per una forma eucaristica

Presi, scelti. Tutto ha avuto inizio con una vocazione. Cosa c’è al principio della nostra vita se non la vocazione? Ci sono le vocazioni che accadono nella storia, lungo la via, ma c’è la vocazione che inaugura la tua storia e ti apre la via. Come non pensare almeno al grandioso inno che inaugura la Lettera agli Efesini: «... in Lui [Cristo] ci aveva eletti prima ancora della fondazione del mondo, affinché fossimo santi e immacolati dinanzi a lui nell’amore, predestinandoci all’adozione a figli» (1,4-5)? Per quanto il disegno di Dio su ciascuno di noi si sveli solo nello sviluppo storico della singola esistenza e nell’intrecciarsi delle sue vicende, e pertanto solo progressivamente e giorno dopo giorno, tuttavia sin dall’eternità il Padre ha pensato a noi, amandoci come persone uniche e irripetibili.

Questo, ch’è vero per la vocazione lo è pure per quella chiamata che, nello svolgersi della nostra singola esistenza – se nel momento dell’adolescenza, o della giovinezza, o più tardi non importa, poiché l’evangelico «padrone della vigna» chiama ad ogni ora – ci ha portato a scoprire la nostra chiamata al ministero sacro, o alla vita consacrata. Pure in questa vocazione c’una «predestinazione», che non vuol dire una sorta d’ineluttabile e inesorabile destino, poiché nel linguaggio paolino essere predestinato significa essere amato da Dio. Si tratta, anzi, di un amore che è senz’altro coniugato con la libertà, poiché «quelli che ha predestinati, li ha anche chiamati...» (Rom 8,30).

L’essere stati «presi» suppone un grande Amore, un amore tutto per noi. L’essere stati scelti dichiara la nostra preziosità e unicità e, proprio per questo, esige gratitudine. La gioia dell’essere scelti porta a riconoscere gli altri fratelli che come me sono stati scelti e ad avere per loro i sentimenti di Dio: ha scelto loro, come me e ha scelto me, come loro... Io ho scelto voi! Discuteremo le scelte di Cristo?

 

Benedetti. Questa parola, benedizione, può aiutarci a immaginare-sognare (e se il caso rivivere) con la immaginazione/memoria il giorno della nostra ordinazione e a nuovamente aderire con la fede al mistero che in essa si è realizzato. Per un sacerdote (vescovo o presbitero che sia) queste memorie sono tra le più intime e le più sante.

C’è, tuttavia, una differenza rispetto a quanto accade come per un consacrato/a nella professione religiosa. Nel rito della Consacrazione delle Vergini e della Professione religiosa, dopo la chiamata per nome la candidata dice: «Mi hai chiamato: eccomi Signore». È come una risposta diretta alla voce del Signore. Ugualmente, quando si domanda al Novizio/a: «cosa chiedi a Dio e alla sua santa Chiesa?»: la risposta è domandare la misericordia del Signore e la grazia di servirlo fedelmente. Tutt’altra cosa accade nella Liturgia dell’ordinazione di un vescovo, presbitero e diacono. Al momento della presentazione e della elezione del candidato c’è l’affermazione: «La santa Madre Chiesa chiede»! Ma come? Uno è stato per dieci, otto, sei anni nel Seminario a discernere, a chiedere di diventare prete e poi… è la Chiesa che domanda?

Ponendo queste parole in bocca a un candidato per la sera prima dell’Ordinazione al presbiterato, K. Rahner scriveva: «Domani, mio Dio, si dirà: “La Santa Madre Chiesa chiede che questi nostri fratelli siano ordinati presbiteri”. Dunque è la tua Chiesa che lo vuole. Tu, nella tua Chiesa. Non io ho scelto te, ma tu hai scelto me. Scelta felice perché è la tua scelta, la scelta delle tue vie imperscrutabili, che sono amore e misericordia» (Preghiera di un candidato la sera precedente l’Ordinazione presbiterale, 1: L. Sapienza, Se fossi tu? Antologia di scritti sul sacerdote, Corbo Editore s.l. 2009, 243).

Nella prassi ecclesiastica del rito di Ordinazione è nascosto, dunque, un valore enorme, che meriterebbe di essere ulteriormente meditato. Basti, qui, riconoscervi una vera benedizione. Benedire, letteralmente vuol dire «parlare bene», o dire cose buone di qualcuno. Nella Sacra Ordinazione, Dio ha «detto bene» di noi! In quanti, durante gli anni della iniziale formazione nel seminario, un giovane è valutato, apprezzato, incoraggiato, o corretto. C’è pure, nelle scadenze della Sacra Ordinazione  e secondo le norme canoniche, uno «scrutinio». Ma poi v’è Dio che benedice!

Benedire qualcuno è anche dire sì al fatto che egli è una persona amata da Dio e perciò amarla. La benedizione, pertanto, va oltre la distinzione tra ammirazione e condanna, virtù e vizio, bontà e cattiveria. Quante volte un prete «benedice». Lo fa quando lo prescrive l’azione liturgica e anche per questo lo suggerisce il benedizionale. Tante altre volte, però, lo domandano persone che si incontrano! Chiedono: puoi benedirmi... vuoi benedire il mio bambino... questa persona ammalata...? Il benedetto benedice sempre!

 

Spezzati. Il momento della frantumazione è anch’esso un momento eucaristico, come l’essere scelti e l’essere benedetti. Abbiamo udito sant’Agostino: se il grano non viene frantumato, non può prendere la forma del pane. C’è quel sentirsi (ed essere) come spezzati, che viene dall’umano e che consiste nelle delusioni, negli sconforti, nelle paure, nelle frustrazioni; c’è, poi, quello che viene dal nostro essere cristiani e consiste nella fedeltà al Vangelo, nella coerenza della nostra vita di fede, nel tenere sempre «alta» la misura della vita cristiana, nelle esigenze morali... i comandamenti, le beatitudini; c'è, infine, l’essere spezzati inerente allo stato di vita di un sacro ministro.

Ricordiamo questa espressione del beato Antonio Chevrier (1826-1879): Bisogna diventare del buon pane. Il sacerdote è un uomo mangiato! Il cardinale E. Suhard spiegava così: «Non solamente perché le sue occupazioni gli impediscono di fare diversamente, ma perché è suo dovere di padre, di donarsi in cibo ai suoi figli come il Pellicano al quale la liturgia e le sculture delle sublimi nostre Cattedrali paragonano il Cristo nel banchetto eucaristico». Nella prospettiva eucaristica, allora, l’esperienza dell'essere spezzati non è una maledizione, ma una grazia; non è una fine, ma una premessa... Anzi è la condizione per essere davvero donati.

 

Dati. Siamo stati presi/scelti, benedetti e spezzati per essere dati. C’è nell'epistolario paolino un verbo ch’esprime questa dialettica dell’essere scelto e quasi separato e, al tempo stesso, dell’essere destinato a una missione: è il verbo aphorizo in Rom 1,1 (cf. Gal 1,15), dove l’apostolo Paolo, richiamando la propria vocazione, riprende il linguaggio delle vocazioni profetiche e rievoca l’esperienza dell’essere come sequestrato da Dio. Per questo egli si presenta con la credenziale di chi è «scelto per il vangelo di Dio». L’apostolo è messo da parte per essere inviato.

In questa medesima prospettiva il Concilio Vaticano II descrive la dialettica della presenza del sacerdote nel mondo: «I presbiteri del Nuovo Testamento, in forza della loro chiamata e ordinazione, sono in un certo modo segregati (segregantur) in seno al popolo di Dio; non tuttavia per rimanere separati da questo popolo o da qualsiasi uomo, bensì per consacrarsi interamente (non ut separentur sed ut totaliter consecrentur) all’opera per la quale il Signore li ha assunti" (Presbyterorum ordinis, 3).

Per un sacerdote, la sua più grande realizzazione sta nel vivere davvero, nel personificare questo essere dati. Perfino dal punto di vista umano si dice che la più alta espressione dell’umanità è nell’atto del donare. Diventiamo delle persone stupende quando diamo qualcosa: un sorriso, una stretta di mano, un abbraccio, una parola d'affetto, di compassione, di perdono... Cosa diventeremo se, come Gesù, daremo noi stessi? Guardando all’offerta del pane e del vino durante la celebrazione eucaristica il p. A. Grün, un autore spirituale oggi molto seguito, in un libretto dedicato al sacramento dell’Ordine scrive in forma quasi autobiografica: «Io non sono presbitero solo per me stesso: pane e vino mi rimandano agli altri, al loro lavoro e alle loro fatiche, alla loro nostalgia di vita e di un amore che non sia fragile come quello che essi vivono all'interno della coppia. Come sacerdote sono stato consacrato per questo mondo, affinché un pezzetto di esso intorno a me sia più salvo. Non celebro solo l’eucaristia per incarico e al servizio delle persone, ma tutta la mia vita è a loro disposizione, in particolare per chi è povero ed emarginato e per coloro la cui preghiera è ammutolita e la cui speranza è spenta».

 

Come una briciola di pane

Riprendo, in conclusione, una brevissima frase che, dopo averla commentata, desidero affidare a ciascuno di voi. È di san Barsanufio, un padre del deserto palestinese. L’espressione recita così: Se l’uomo non diventa come una briciola di pane («psichìon»: cf. Mt 15,27; Mc 7,28), non può abitare con gli uomini (Lett. n. 26: SC 426, 216).

L'immagine, senza dubbio suggestiva, deve essere compresa nel più ampio contesto letterario giacché Barsanufio, per raccomandare al suo discepolo la perfetta pazienza e magnanimità, richiama l’esempio della «via di Cristo, che è venuto a salvare gli uomini in molta mitezza e bontà». Mitezza e bontà sono, come si legge in 2Cor 10,1, due caratteristiche di Gesù il quale, come spesso affermano i santi vangeli, vuole la misericordia, è compassionevole, «mite e umile di cuore». Egli stesso ha proclamato la beatitudine per i miti.

L’anonimo Autore della Lettera a Diogneto scrive che il Padre mandò il suo Figlio «in mitezza e bontà, come un re manda suo figlio re. Lo inviò come Dio, qual era, e come uomo, come conveniva che diventasse per salvare gli uomini, mediante la persuasione e non con la violenza... Lo ha inviato spinto da amore, non da rigore» (VI, 4-5).

Alla luce di queste premesse cristologiche quella usata da Barsanufio di Gaza si manifesta molto più di un’immagine toccante, o di un delicato genere letterario. Conformemente al suo modo di dettare, piuttosto, l’esortazione a diventare come una briciola di pane è un invito all’imitazione di Cristo. Come, infatti, egli ha dimorato fra noi (cf. Gv 1,14), così ogni uomo deve dimorare tra gli uomini, suoi fratelli in mitezza e bontà. Altre volte Barsanufio raccomanderà di farsi carico e di portare il peso (= sopportare) del fratello... Ora, invece, raccomanda di essere per lui come mollica di pane, non una crosta dura, o un cibo indigesto né, peggio ancora, un boccone velenoso!

Occorre stare con gli altri facendosi briciola di pane, ossia cibo facile da assumere – giacché la briciola può essere ingoiata perfino da un bimbo appena nato –, cibo digeribile e nutriente, appunto come il pane. Nei racconti evangelici è la donna Cananea

Se l’uomo non diventa come una briciola di pane non può abitare con gli uomini! Ed è proprio per questo che il Signore Gesù si è fatto per noi. Nel sacramento dell’Eucaristia, istituita nel giorno del suo amore per noi sino all'estremo, egli continua ad abitare fra gli uomini nel segno del pane.

Nella sua Epistula toti Ordini, ossia nella Lettera al Capitolo Generale e a tutti i suoi frati san Francesco d’Assisi scriveva queste frasi, che ci è utile rileggere: «Badate alla vostra dignità, frati sacerdoti, e siate santi perché egli è santo. E come il Signore Iddio onorò voi sopra tutti gli uomini, per questo mistero così voi più di ogni altro uomo amate, riverite, onorate Lui... L’umanità trepidi, l’universo intero tremi, e il cielo esulti, quando sull’altare, nelle mani del sacerdote, è il Cristo figlio di Dio vivo. O ammirabile altezza, o degnazione stupenda! O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, in così piccolo pezzetto di pane (sub modica panis formula)! Guardate, frati, l’umiltà di Dio e aprite davanti a Lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi perché egli vi esalti. Nulla, dunque, di voi, tenete per voi; affinché vi accolga tutti colui che a voi si dà tutto» (nn. 30-37: FF 220-22l).

In questa medesima umiltà è lecito rileggere anche la frase di san Barsanufio: se l’uomo non diventa come una briciola di pane non può abitare con gli uomini! A un sacerdote queste parole ricordino che è chiamato come uomo, come battezzato e come ministro dell’Eucaristia a essere uomo eucaristico. È questa, sembra dirci san Barsanufio, l’unica vera possibilità che abbiamo per con-vivere. Mangiando del pane, in effetti, noi possiamo solo continuare a vivere; diventando pane, però – una briciola di pane –, noi possiamo convivere!

Una popolare etimologia spiega che Betlemme vuol dire «casa del pane». Secondo sant’Ambrogio omnis anima fidelis Bethleem est e aggiunge: verus panis est, qui fractus et comminutus satiavit universos. «Pane» per davvero lo è chi, spezzato e sbriciolato, diviene tale da saziare tutti (cf. Epist. Classis II, 70, 13: PL 16, 1237).

 

Roma, 31 marzo 2022

Marcello Card. Semeraro